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02 Giugno 2020


Sfruttamento dei riders: amministrazione giudiziaria ad Uber per contrastare il “caporalato digitale”

Trib. Milano, Sez. mis. prev., decreto 28 maggio 2020, n. 9, Pres. Roia, Uber Italy s.r.l.



Per leggere il decreto, clicca qui.

 

1. Premessa. Se una rondine non fa primavera, l’arrivo della seconda certamente predispone all’ottimismo. Ebbene, per la seconda volta a distanza di un anno[1], il Tribunale di Milano, sezione misure di prevenzione, ha disposto l’amministrazione giudiziaria ex art. 34, d.lgs.159/2011 (c.d. Codice antimafia) nei confronti di un’azienda presso la quale i lavoratori venivano sottoposti a condizioni di sfruttamento (il decreto può leggersi in allegato). Di fronte a una fattispecie che ancora, a quasi un lustro dalla sua riformulazione legislativa, sconta un livello di applicazione tutto sommato modesto[2] se rapportato alla capillare diffusione del fenomeno che dovrebbe contrastare, diverse sono le ragioni per considerare l’esperienza applicativa meneghina una punta avanzatissima: tanto con riferimento alla capacità di leggere le cangianti forme che lo sfruttamento lavorativo può assumere, quanto con riguardo all’accorto uso del complesso strumentario di contrasto approntato dal legislatore.

Il caso di specie riguarda, in particolare, lo sfruttamento dei rider ingaggiati da Uber Italy srl per la consegna di cibo a domicilio in quattordici città italiane. Per il reclutamento dei ciclofattorini, la diramazione italiana del colosso olandese del food delivery si avvaleva di due società con sede nella periferia milanese, che ricorrevano a manodopera costituita in prevalenza da migranti richiedenti asilo, perlopiù dimoranti presso centri di accoglienza, in situazioni di vulnerabilità e di isolamento sociale, in modo che i lavoratori si sentissero costretti ad accettare condizioni di lavoro a ribasso pur «di non vedere fallito il sogno migratorio» e, comunque, si rivelassero poco capaci di far valere rivendicazioni o avanzare richieste di tutela. Attraverso questo sistema, la società riusciva a imporre ai riders un regime di «sopraffazione retributiva e trattamentale», basato su pagamenti irrisori, sistematica sottrazione delle mance corrisposte dai clienti al momento dell’ordine sulla piattaforma, mancato pagamento delle ritenute, punizioni sotto forma di mancato versamento del dovuto, imposizione di «un numero di corse non compatibili con una tutela minima della condizioni fisiche del lavoratore». In particolare, nel decreto si dimostra come i lavoratori fossero sostanzialmente raggirati, sottoponendogli bozze contrattuali, mai formalmente rilasciate, che nel corso del tempo subivano modifiche, specie con riferimento alle condizioni retributive. Nei fatti, i riders venivano pagati “a cottimo” tre euro netti per consegna, a prescindere dunque dalle ore di connessione, dai chilometri percorsi, dalle condizioni meteo e dal lavoro notturno e durante i festivi. Da questo importo, peraltro, venivano sovente detratti, a titolo di penale, cinquanta centesimi a consegna in caso di mancate accettazioni di consegne superiori al 95% e ulteriori cinquanta centesimi in caso di cancellazioni superiori al 5%.

A dispetto del formale inquadramento dei corrieri come lavoratori autonomi, ogni mancato adeguamento alle rigide indicazioni di Uber o addirittura le richieste di chiarimenti sui pagamenti potevano comportare l’esclusione del lavoratore dal circuito delle consegne attraverso il blocco del suo account dalla piattaforma.

 

2. Lo sfruttamento lavorativo e il “caporalato digitale”. – Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all’art. 603 bis c.p. si porta dietro, sin dal suo debutto[3], l’etichetta di “legge contro il caporalato”. La formula è evocativa e certamente efficace, ma in qualche modo ha finito col costituire una sorta di ipoteca ermeneutica sulla fattispecie, legata com’è all’immagine di comportamenti interpositori e di grave sfruttamento diffusi nelle campagne del meridione. In realtà, l’articolazione della disposizione è stata concepita in modo da dar copertura ad uno spettro di comportamenti di prevaricazione e di abuso nei confronti dei lavoratori assai più ampio[4] e che va ben al di là dei contesti rurali e delle aree meno sviluppate del paese. Da anni, infatti, gli studi sociologici hanno gettato luce su forme di «super-sfruttamento in ambiente urbano»[5] non meno rilevanti, per intensità e per dimensione, di quello delle campagne. Si tratta di fenomeni che hanno interessato principalmente il mondo dei servizi, per via di una crescente tendenza alla terziarizzazione[6] da parte delle imprese[7], e che nell’ambito della economia informale e deregolamentata della cosiddetta gig economy[8] hanno trovato un inedito brodo di coltura. Cionondimeno, queste nuove forme di diffuso sfruttamento del lavoro non sono mai, prima d’ora, riuscite ad essere messe a fuoco dalla giurisprudenza penale (ed invero stentano ancora ad essere decodificate dagli stessi studiosi del diritto del lavoro[9]).

Quello in rassegna è dunque il primo provvedimento giudiziario[10] che compiutamente affronta il tema del nuovo “caporalato digitale”. Il caso in questione, peraltro, è ricco di spunti di riflessione perché paradigmaticamente mette in evidenza molti dei tratti che caratterizzano il capitalismo delle piattaforme[11], rivelandone in qualche modo una strutturale vocazione allo sfruttamento lavorativo, e va dato atto a i giudici milanesi di una notevole lucidità nel registrarne gli elementi più significativi.

Innanzitutto, essi hanno buon gioco nello smascherare la narrazione, propugnata dai più entusiasti sostenitori della gig economy[12], per la quale il lavoratore svolgerebbe le sue prestazioni in piena autonomia e le piattaforme erogherebbero una mera attività di intermediazione con il committente, ma resterebbero effettivamente estranee al rapporto di lavoro, senza assumere obblighi se non nei confronti del cliente finale. Il decreto evidenzia infatti come la penetrante ingerenza di Uber nella organizzazione delle prestazioni e dei ritmi lavorativi dei ciclofattorini sia stata, nei fatti, «nettamente in contrasto con la “vulgata” che vede Uber come una informale piattaforma con nessun rapporto con i rider e che si limita a mettere in contatto i ristoratori e clienti»[13].

Piuttosto, le richieste datoriali e le sanzioni imposte nel caso del loro mancato rispetto, si traducevano una «limitata autonomia nella scelta e negli orari di lavoro da parte del lavoratore, costretto a ritmi sempre più intensi e frenetici, con tutte le ricadute su stress e rischi dovuti alla necessità di essere celeri nelle consegne, nettamente in contrasto con quanto previsto dalla forma contrattuale scelta, vale a dire quella della prestazione di lavoro autonomo occasionale caratterizzata (appunto) dalla completa autonomia del lavoratore circa i tempi e le modalità di esecuzione del lavoro»[14]. Come sovente accade ai gig workers, inoltre, le prestazioni richieste determinavano un impegno pressoché totalizzante per il lavoratore – il quale, a dispetto della nominale autonomia e pur venendo pagato “a cottimo” per ogni singola consegna – doveva rimanere a disposizione nei pressi delle zone in cui si trovavano i ristoranti (ma non fermi lì davanti, per non disturbare i gestori e non incorrere nella sanzione della disconnessione forzata da parte di Uber) per un tempo molto maggiore rispetto a quello retribuito, secondo fasce orarie che non consentivano comunque di riposare o di dedicarsi ad altro. Com’è stato osservato, si tratta di lavori che, per le loro caratteristiche, «impegnano (come disponibilità al “servizio”) molto più tempo di quanto (poco) ne venga poi retribuito (poco)», con una notevole «porosità» dei tempi di lavoro e di non lavoro che non lascia spazio per altre attività[15].

Con riferimento all’applicazione dell’art. 603 bis c.p., il decreto risulta essere ben argomentato. Merita di essere posto in evidenza che il Tribunale non si preoccupa di ricercare una puntuale rispondenza dei comportamenti contestati agli indici normativi enumerati dal co.3 dell’art. 603 bis c.p., ma ne prescinde e propone una propria lettura del fenomeno dello sfruttamento lavorativo legata al caso concreto analizzato. Il punto è di particolare interesse per l’osservatore. Infatti, nell’ancora esigua giurisprudenza maturata con riferimento al reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, sembrava invece essersi consolidata la tendenza a riparare prudentemente dietro le sicure indicazioni fornite dagli indici contenuti disposizione codicistica che, nei fatti, hanno finito con l’assumere un ruolo sostanziale nella definizione del fatto tipico[16], ibridandone il loro carattere di strumento di agevolazione probatoria.

L’appiattimento sugli indici normativi, inoltre, ha finora portato la giurisprudenza a svuotare di ogni attitudine selettiva il secondo elemento della condotta, ossia l’approfittamento dello stato di bisogno. Può infatti dirsi che, nella sua proiezione giudiziale, questa caratteristica modale della fattispecie sia rimasta atrofica, fagocitata da un improprio automatismo presuntivo[17] per il quale lo stato di bisogno sarebbe da considerarsi in re ipsa ogniqualvolta il lavoratore accetta condizioni di lavoro al di sotto degli standard[18]. Nel provvedimento qui in rassegna, invece, i giudici milanesi tendono ad attribuirgli maggiore pregnanza e puntualmente argomentano come la condizione di vulnerabilità e il forte isolamento sociale dei riders reclutati sia stata strumentalizzata per imporre condizioni di ingaggio e lavorative particolarmente sperequate.

 

3. L’applicazione dell’amministrazione giudiziaria. – Valorizzando l’inserimento dell’art. 603 bis nel novero dei c.d. reati-catalogo suscettibili di attivare l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, il Tribunale di Milano applica l’amministrazione giudiziaria, escludendo la possibilità di far ricorso alla più mite misura del controllo giudiziario ex art. 34 bis Cod. ant., considerata la non «occasionalità» dell’attività di agevolazione e «il livello di compromissione della struttura societaria». Cionondimeno, sulla scorta anche della pregressa esperienza giudiziaria maturata nel capoluogo lombardo[19], il decreto fornisce indicazioni stringenti circa il ruolo da assegnare all’amministrazione giudiziaria, specificando che «per le finalità della misura ablativa, non vi sia una necessità di assumere anche in seno all’amministrazione giudiziaria il normale svolgimento dell’attività gestionale di impresa, con la valutazione conseguente, in termini di rischio e nella prospettiva della salvaguardia occupazionale, di un simile trasferimento da professionalità tipiche a professionalità nuove e magari non perfettamente allineate con il settore di mercato interessato, nonché come, sempre sul piano della proporzione, gli obiettivi di bonifica aziendale da intraprendere appaiano comunque compatibili rispetto all’assenza dell’impossessamento totale degli organi gestori». L’intervento ablativo richiesto dal Tribunale, pertanto dovrà essere modulato in modo tale da consentire un effettivo controllo sugli organi gestori «anche in sostituzione dei diritti spettanti al socio proprietario», ma «lasciando il normale esercizio di impresa in capo agli attuali organi di amministrazione societaria, dovendo in particolare l’intervento concentrarsi sulla verifica delle posizioni personali die dipendenti implicati nella vicenda giudiziaria, nell’accertamento della effettiva attività svolta da Uber Italy s.r.l. […] in relazione al perimetro del reclutamento e della gestione dei c.d. riders, dovendosi verificare l’esistenza dei rapporti contrattuali in corso e la piena conformità a tutte le regole di mercato degli stessi». Tali indicazioni valgono certamente a delimitare con chiarezza i termini della misura adottata, ma definiscono al contempo una sfida nuova per l’amministratore giudiziario incaricato: la richiesta di conformarsi alle «regole di mercato» può rivelarsi sotto certi profili problematica in un settore che – come sopra accennato – è caratterizzato ancora da una sostanziale deregolamentazione e da una notevole fluidità delle regole, che ancora stentano ad essere afferrate nell’ambito stesso del diritto del lavoro.

Ad ogni modo, il ricorso allo strumento delle misure di prevenzione patrimoniali – specie se a partire da una chiave di lettura in termini «prospettico-cooperativi» e non «retrospettivo-stigmatizzati»[20] – può rivelarsi particolarmente congeniale per contrastare un sistema di sfruttamento riferibile prima che alle persone fisiche responsabili dei singoli casi di sfruttamento lavorativo, a strutture aziendali e produttive complesse, se non addirittura a interi sistemi di produzione[21] caratterizzati dall’alta intensità di manodopera (c.d. settori labour intensive)[22]. In questa prospettiva, l’intervento di prevenzione avrebbe la funzione di contribuire a «creare una nuova finalità imprenditoriale comune caratterizzata da una costruzione, condivisa con l’organo tecnico del. Tribunale e cioè con l’Amministratore giudiziario, di modelli virtuosi ed efficaci». In altri termini, prosegue il decreto, «l’imprenditorialità privata deve capitalizzare l’intervento del Tribunale, che può ovviamente apparire invasivo e comunque compressivo di un diritto di impresa costituzionalmente protetto, per ridisegnare tutti gli strumenti di governance aziendale per evitare futuri incidenti»[23], anche legati a condotte dei singoli. In quest’ottica va inquadrata la richiesta del Tribunale di verificare l’esistenza e l’idoneità del modello organizzativo di cui al d.lgs. 231/2001 «per prevenire fattispecie di reato ricollegabili all’art. 603 bis c.p. e quindi disfunzioni di illegalità aziendale come quelle accertate».

 

 

[1] Il precedente è costituito da Trib. Milano, Sez. mis. prev., decreto 7 maggio 2019, n. 59, Pres. Roia, Ceva Logistics Italia s.r.l., in Dir. pen. cont., 6/2019, 171 ss., con nota di A. Merlo, Il contrasto al “caporalato grigio” tra prevenzione e repressione.

[2] Per una ricognizione delle prime esperienze applicative della fattispecie di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cfr. E. Santoro – C. Stoppioni, Il contrasto allo sfruttamento lavorativo: i primi dati dell’applicazione della legge 199/2016, in G. dir. lav. rel. ind., 2019, 267 ss.; C. Stoppioni, Intermediazioni illecita e sfruttamento lavorativo: prime applicazioni dell’art. 603 bis c.p., in Dir. imm. citt., 2/2019, 69 ss. Per un’analisi delle pochissime sentenze concernenti l’art. 603 bis c.p. prima della riforma del 2016 cfr. G. De Marzo, Le modifiche alla disciplina penalistica in tema di caporalato, in Foro it., 2016, V, 377 ss.

[3] Com’è noto, il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è stato introdotto per la prima volta dall’art. 12 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 ed è stata poi incisivamente riformulata dall’art. 1 della l. 29 ottobre 2016, n. 199. Con riferimento alla sua prima versione, cfr. A. di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Dir.pen.cont. – Riv. trim., 2015, 106 ss.; A. Giuliani, I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Padova, 2015, 149; S. Fiore, (Dignità degli) uomini e (punizione dei) caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Aa. Vv., Scritti in onore di A.M. Stile, Napoli, 2013, 855; E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603 bis c.p. di contrasto al caporalato: ancora una fattispecie enigmatica, ivi, 953 ss. Sulla fattispecie riformata, cfr. A. di Martino, Sfruttamento del lavoro. Il valore del contesto nella definizione del reato, Bologna, 2020; L. Bin, Problemi interni e problemi esterni del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Leg. pen., 2020; Aa. Vv. Studi sul caporalato, a cura di G. De Santis, S.M. Corso, F. Del Vecchio, Torino, 2020; C. Stoppioni, Tratta, sfruttamento e smuggling: un’ipotesi di finium regundorum a partire da una recente sentenza, in Leg.pen., 24 gennaio 2019; A. Merlo, Il contrasto al caporalato grigio tra prevenzione e repressione, cit.; V. Torre, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603 bis tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in Quest. giust., 4/2019, 97; Id., Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, in G. dir. lav. rel. ind., 2018, 289 ss.; S. Tordini Cagli, La controversa relazione della sanzione penale con il diritto del lavoro, tra ineffettività, depenalizzazione e istanze populiste, in Lav. dir., 2017, 613 ss.; M.O. Di Giuseppe, Una legiferazione inutile in tema di contrasto allo sfruttamento del lavoro, in Crit. dir., 2/2018, 136 ss.; G. Rotolo, Dignità del lavoratore e controllo penale del “caporalato”, in Dir. pen. proc., 2018, 811 ss.; Id., a proposito del nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Aa. Vv., Economia “informale” e politiche di trasparenza. Una sfida per il mercato del lavoro, a cura di V. Ferrante, Milano, 2017; A. Gaboardi, La riforma normativa in materia di “caporalato” e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo, persiste la miopia, in Leg. Pen., 2017, 4 ss.; D. Piva, I Limiti dell’intervento penale sul caporalato come sistema (e non condotta di produzione: brevi note a margine della L.199/2016, in Arch.pen., 2017, 184 ss.; T. Padovani, Un nuovo intervento per superare i difetti di una riforma zoppa, in Guida dir., 2016, n.48, 48 ss.

[4] La nuova fattispecie ha la funzione di colpire non tanto le forme più eclatanti di assoggettamento del lavoratore, tendenzialmente riconducibili al reato di riduzione in schiavitù e di lavoro servile ex art. 600 c.p., ma anche forme “grigie” di sfruttamento, di livello meno intenso, ma comunque incidenti sulla dignità della persona che lavora. Cfr. A. Merlo, Il contrasto al caporalato grigio, cit.; D. Piva, I limiti dell’intervento penale come sistema, cit., 184.

[5] Cfr., ad es., per una rapida occhiata al fenomeno a partire dagli anni ’80 del secolo scorso A. Violante, Super-sfruttamento in ambiente urbano. Lo stato dell’arte, in Aa. Vv., Quasi schiavi. Paraschiavismo e super-sfruttamento nel mercato del lavoro del XXI secolo, a cura di E. Nucifora, Santarcangelo di Romagna 2014, 19 ss.

[6] Cfr., per tutti, A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, IV ed., Bologna, 2013, 301.

[7] Ma da questa tendenza non è immune neanche la pubblica amministrazione che generalmente gestisce tramite appalti esterni le funzioni più rutinarie come i servizi di portineria o di vigilanza (ma accade anche con attività che richiede una specializzazione superiore, come quella infermieristica): cfr. A. Violante, Super-sfruttamento in ambiente urbano, cit.

[8] L’espressione gig economy (che richiama il mondo degli spettacoli jazz degli anni ’20 e gli ingaggi – gigs, appunto – dei musicisti che si esibivano in diverse occasioni senza alcun vincolo di lungo termine) è oggi impiegata per indicare la galassia dei “lavoretti” gestiti generalmente attraverso piattaforme informatiche: per un quadro di insieme, cfr. C.Crouch, Se il lavoro fa gig, trad. it., Bologna, 2019; R. Staglianò, Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri, Torino, 2018; M.A. Maggioni, La sharing economy. Chi ci guadagna e chi ci perde, Bologna, 2017. I dati diffusi da Inps, XVII Rapporto annuale, Roma, 2018, 81 ss., mettono in evidenza che si tratta di una nuova modalità di approccio al lavoro, di cui i riders non sono che una minima parte: questi ultimi in Italia sono circa diecimila e rappresentano circa il dodici per cento dell’universo complessivo della forza lavoro coinvolta della gig economy, che riguarda circa un milione di persone nei settori più disparati (dai servizi di trasporto, fino ai lavori domestici e le attività di baby sitting, sol per fare qualche esempio).

[9] R. Voza, Le nuove sfide per il welfare: la tutela del lavoro nella gig economy, in Riv. dir. sic. soc., 2018, 657 ss.; G. Santoro Passarelli, Civiltà giuridica e trasformazioni sociali nel diritto del lavoro, in Riv. it. sc. giur., 9/2018, 147 ss.; S. Ciucciovino, Le nuove questioni di regolazione del lavoro nell’industria 4.0 e nella gig economy: un problem framewrk per la riflessione, Dir. rel. ind., 2018, 1054, T. Treu, Rimedi e fattispecie a confronto con i lavori della gig economy, in Lav. dir., 3-4/2017, 367 ss.

[10] Già in sede di commento del precedente provvedimento del Tribunale di Milano (A. Merlo, Il contrasto al caporalato grigio, cit.), chi scrive ravvisava la possibilità di far applicazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro con riferimento allo sfruttamento dei rider: si alludeva, in particolare, alla vicenda torinese di Foodora (cfr. Corte di appello di Torino, sent. n.26/2019) in cui tuttavia, pur essendo state accertate le condizioni di sfruttamento tipiche ex art. 603 bis c.p. e nonostante la procedibilità d’ufficio del reato, il giudice del lavoro non ritenne di trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica.

[11] Cfr. C. Crouch, Se il lavoro fa gig, cit.

[12] Cfr. P. Tullini, L’economia delle piattaforme e le sfide del diritto del lavoro, in Ec. soc. reg., 2018, 36, la quale evidenzia come «pur muovendo rilevanti volumi di attività, le piattaforme generalmente escludono la costituzione di rapporti di lavoro e spesso evitano ogni riferimento al concetto stesso di prestazione lavorativa. Alle infrastrutture della rete si consente un’estrema libertà di stabilire unilateralmente le condizioni per l’erogazione dei servizi attraverso regolamenti generali o condizioni d’uso delle risorse on line. Anche quando venga esclusa la costituzione di un vincolo giuridico oppure si richieda all’utente di autoqualificarsi preliminarmente come freelance, in capo alla piattaforma resta comunque il governo centralizzato ed esclusivo dell’operazione economica» (p. 38).

[13] Cfr., testualmente, p. 25 del Decreto. Si veda altresì p. 51 dove si mette in evidenza come l’impresa tendesse ad allontanare da sé ogni responsabilità attraverso specifiche clausole contrattuali, che disciplinavano il rapporto con le c.d. fleet partner.

[14] Cfr. p. 14 del decreto.

[15] G. De Simone, La dignità del lavoro e della persona che lavora, in Gior. dir. lav. rel. ind., 2019, 655; nonché Id., La dignità del lavoro tra legge e contratto, intervento a Giornate di studio Aidlass “Persona e lavoro tra tutele e mercato”. Udine 13-14 giugno 2019, 58.

[16] Per la natura sostanziale degli indici si era comunque espresso A. Gaboardi, La riforma normativa in materia di “caporalato”, cit., 4 ss.; in senso contrario, cfr. L. Bin, Problemi interni e problemi esterni, cit., 11; M.O. Di Giuseppe, Una legiferazione inutile, cit., 136. Manifestano inoltre riserve critiche rispetto all’indeterminatezza degli indici V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, cit., 289 ss.; S. Tordini Cagli, La controversa relazione, cit., 635. Si segnala invece per la sua originalità il punto di vista di A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit. (nonché Id., Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento dell’art. 603-bis c.p., in Arch. pen., n. 3/2018, 3, che inquadra gli indici normativi nell’ambito di un processo di definizione «dinamico» della tipicità del fatto.

[17] In questo senso, cfr. Cass., 29 gennaio 2020 – 16 marzo, n. 10209, Angileri, inedita, che ritiene soddisfatta tale condizione a partire dalla constatazione che i lavoratori «accettavano le soverchianti condizioni di lavoro imposte dagli indagati, in quanto si trovavano in condizioni economiche e familiari assai disagiate»; Cass., 28 gennaio 2020 – 7 maggio 2020, Valenza, inedita, in cui lo stato di bisogno è posto in relazione diretta rispetto alla scelta di «accettare condizioni di vita e di lavoro ben lontane da quelle normativamente garantite ed anzi ai limiti della disumanità»; Cass. 4 dicembre 2019 – 26 febbraio 2020, n. 7569, Repetto, inedita, secondo la quale lo stato di bisogno sarebbe deducibile dalle precarie condizioni economiche dei lavoratori, «stante la necessità di mantenere le famiglie e di onorare i debiti contratti, […] anche in relazione al fatto che erano stranieri». Analogamente, secondo Cass. 2 marzo 2017 – 24 marzo 2017, n. 14621, Mare, inedita, lo stato di bisogno sarebbe da derivare dalle condizioni di estrema indigenza che, per non perdere «una pur modestissima fonte di sostentamento», spingono il lavoratore ad accettare condizioni altrimenti inaccettabili.

[18] Già in sede di commento della riforma, paventava il rischio di ingenerare un tale automatismo T. Padovani, op. cit., 50. In dottrina, ritiene comunque tale elemento ridondante, considerando il disvalore del fatto incentrato unicamente sul concetto di sfruttamento, V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, cit., 296. In termini analoghi v. anche A. Gaboardi, op. cit., per il quale il riferimento allo stato di bisogno poco aggiunge alla definizione del fatto tipico, riferendosi esso a qualsiasi situazione in cui «il soggetto passivo abbia necessità di lavorare al fine di soddisfare esigenze primarie propria o dei suoi familiari e non trovi, ceteris paribus, attuali e ragionevoli alternative. In sostanza, qualsiasi condizione esistenziale che limiti la capacità di resistenza alla prevaricazione, denunciando per ciò solo una “predisposizione alla vittimizzazione”, è idonea a rilevare ai sensi dell’art. 603-bis c.p.».

[19] Cfr. Tribunale di Milano, Sezione Misure di prevenzione, RGMP 59/2019, Ceva Logistics Italia s.r.l., cit.; 34/2016, Nolostand spa; 58/16 RGMP Fieramilano spa; 35/17 RGMP LIDL s.r.l., richiamate in motivazione; cfr., in proposito C. Visconti, Ancora una decisione innovativa del tribunale di Milano sulla prevenzione antimafia nelle attività imprenditoriali, in Dir.pen.cont., 11 luglio 2016; Id., Contro le mafie non solo confisca ma anche “bonifiche” giudiziarie per imprese infiltrate: l’esempio milanese, ivi, 20 gennaio 2012.

[20] Per tale impostazione cfr. C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”: una moderna “messa alla prova” aziendale per una tutela recuperatoria contro le infiltrazioni mafiose, in Aa. Vv., Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all'infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, a cura di G. Amarelli e S. Sticchi, Torino, 2019, 237 ss.

[21] Cfr. D. Piva, I limiti, cit.

[22] In generale, sul tema, cfr. M. Rescigno, Impresa «schiavistica», decentramento produttivo, imputazione dell’attività e applicazione delle regole, in Aa. Vv., Impresa e «forced labour» strumenti di contrasto, a cura di F. Buccellato e M. Rescigno, Bologna, 2015, 69; V. Ferrante, appalti supply chain e doveri di controllo sull’uso del lavoro schiavistico, in Arg. dir. lav., 2018, 1061.

[23] Corsivi aggiunti.