Cass. Sez. III, 27 settembre 2022 (dep. 21 ottobre 2022), n. 39835, Pres. Marini, Rel. Corbetta
1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte di Cassazione si è occupata dell’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis c.p., in relazione al delitto di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000. La pronuncia in esame presenta particolare interesse in quanto chiarisce i presupposti applicativi dell’art. 131 bis c.p., con particolare riferimento ai reati che, in ambito tributario, risultano caratterizzati dalla previsione di una soglia di punibilità.
Inoltre, la sentenza fissa anche il momento in cui va accertata la sussistenza dei requisiti di operatività della causa di non punibilità in parola, con una soluzione idonea a circoscrivere l’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. in relazione ai reati tributari. Soluzione per cui, si anticipa sin da ora, si presenta già necessaria una rimeditazione alla luce delle significative modifiche apportate dalla c.d. Riforma Cartabia (d.lgs. n. 150 del 2022) all’art. 131 bis c.p.
2. La questione di cui si tratta era giunta all’attenzione della Suprema Corte in seguito all’impugnazione da parte dell’imputato della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Firenze. In particolare, quest’ultima aveva condannato il ricorrente poiché, al fine di evadere l’IVA per un importo pari a circa 53mila euro, non aveva presentato, pur essendovi obbligato, la dichiarazione annuale fiscale. L’imputato con il ricorso ha lamentato l’erronea applicazione dell’art. 131 bis c.p. da parte del giudice di secondo grado per due ordini di ragioni. In primo luogo, il ricorrente ha evidenziato che l’importo evaso non era superiore di più del 10 % alla soglia di punibilità (pari a 50mila euro) prevista nell’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000. In seconda battuta, l’imputato ha sottolineato che la Corte d’Appello non ha tenuto in considerazione la circostanza che egli, anche se tardivamente e in misura parziale, avesse spontaneamente versato all’erario una somma di poco superiore a 3mila euro, somma sufficiente a far scendere l’ammontare dell’imposta evasa al di sotto della soglia di punibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000.
3. Prima di passare all’esame della parte motiva della sentenza, la quale ha rigettato il ricorso e così negato la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 131 bis c.p., appare opportuno premettere brevi cenni su tale ultima disposizione. L’istituto ivi disciplinato è stato introdotto dal d.lgs. n. 28 del 2015 con chiare finalità deflattive e allo scopo di dare attuazione ai fondamentali principi di offensività, proporzionalità e sussidarietà. In quest’ottica, l’art. 131 bis c.p. consente di non punire un fatto che è sì produttivo di un’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, ma lo è con un’intensità particolarmente tenue. In virtù di tale considerazione, il fatto suscettibile di ricadere sotto l’applicazione della norma in esame è da considerarsi tipico (oltre che antigiuridico e colpevole), ma il legislatore ha ritenuto opportuno non sottoporlo a pena. Pertanto, alla luce di questa ricostruzione, è pacifica l’attribuzione all’istituto di cui all’art. 131 bis c.p. di una natura sostanziale, inscrivendolo in particolare tra le cause di non punibilità in senso stretto.
Ciò posto, i criteri che guidano il giudice di merito nell’applicazione di questa particolare figura sono chiaramente descritti dalla norma e presentano una natura mista, oggettiva e soggettiva. Segnatamente, ai fini dell’operatività dell’art. 131 bis c.p., deve, innanzitutto, trattarsi di reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni (come previsto dalla recente novella recata dalla riforma Cartabia), ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena. Inoltre, il secondo requisito che il giudice deve accertare, ai fini di applicare la causa di non punibilità in parola, consiste nel carattere particolarmente lieve dell’offesa, da valutare con riguardo alle modalità del fatto e all'entità del danno o del pericolo conseguenti, secondo lo schema dell’art. 133 c. 1 c.p. Peraltro, sempre in relazione a tale requisito, il giudice deve anche verificare, ai fini di ritenerlo integrato, che non si rientri in una delle ipotesi di esclusione della particolare tenuità dell’offesa, compendiate nei commi 2 e 3 della norma in esame. Infine, condizione necessaria per l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. è la ritenuta (da parte del giudice) non abitualità del comportamento del reo, da valutare alla luce, in specie, dei parametri indicati nel quarto comma della norma in parola. Tale accertamento va effettuato, peraltro, dal giudice solo una volta che egli abbia vagliato positivamente la particolare tenuità dell’offesa.
4. Ciò sinteticamente premesso in relazione alla causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., preme concentrarsi, tra i vari problemi applicativi che essa ha posto, sulla sua discussa operatività riguardo ai reati che prevedono una soglia di punibilità. Tale questione si è, infatti, presentata all’attenzione, nel caso di specie, della Corte di Cassazione, la quale ha confermato l’indirizzo ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità. Sono state in tal modo respinte, ancora una volta, le obiezioni di chi, all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 131 bis c.p., ne aveva escluso l’applicabilità a reati così strutturati, sulla base della considerazione che, tramite la previsione di una soglia di punibilità, il legislatore avrebbe voluto fissare in modo indefettibile il confine tra fatto inoffensivo, e perciò non punibile, e fatto offensivo, e perciò punibile[1]. Un intervento del giudice, determinante la non punibilità del fatto eccedente la soglia, si sarebbe presentato, quindi, secondo i sostenitori di questo orientamento ormai di gran lunga minoritario, come inammissibile, in quanto invasivo della sfera di discrezionalità riservata al legislatore, nonché, di conseguenza, in quanto lesivo del principio di separazione dei poteri. Come detto, però, è da tempo indiscussa l’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. anche ai reati che prevedono soglie di punibilità, sulla base della considerazione che tale norma ha portata generale e la sua operatività è esclusa nei soli casi previsti dal legislatore (anche in virtù del noto brocardo latino “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”). Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente sottolineato come, in casi siffatti, in realtà, il giudice non si sostituisce al legislatore, poiché i piani su cui si collocano la valutazione dell’uno e quella dell’altra sono differenti. Ed infatti, la previsione della soglia di punibilità da parte del secondo è effettuata a monte e sulla base di una valutazione in astratto; al contrario, la valutazione posta in essere dal giudice interviene a valle e opera in concreto, sulla base delle caratteristiche del fatto giunto alla sua attenzione[2].
La pronuncia in commento si innesta sull’orientamento ormai pacifico della giurisprudenza di legittimità e fornisce opportuni chiarimenti circa i criteri che guidano la valutazione della particolare tenuità dell’offesa nei reati tributari caratterizzati dalla previsione di soglie di punibilità. In particolare, nella sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha fatto riferimento, al fine di valutare la minima offensività del fatto, alla necessità di esaminare congiuntamente gli indicatori relativi alle modalità della condotta, al danno erariale e al grado di colpevolezza. Inoltre, la Suprema Corte fornisce un chiarimento relativo ad una valutazione ulteriore, scaturente proprio dalla previsione nella norma incriminatrice di una soglia di punibilità. Segnatamente, in casi siffatti, la Corte di Cassazione ha statuito che la fattispecie dovrà essere considerata come dotata di un’offensività minima quando <<il fatto abbia riguardato un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, secondo un apprezzamento fattuale che è devoluto al giudice di merito>>. Così, interessante è notare come la Corte di Cassazione non abbia fatto alcun riferimento, nella valutazione relativa all’offensività del fatto, al criterio quantitativo del mancato superamento del 10 % della soglia (criterio, invece, invocato dal ricorrente e che pareva emergere da una lettura, invero, non troppo attenta di una precedente pronuncia di legittimità[3]). In tal modo, la Corte di Cassazione pare aver eliminato ogni dubbio circa l’insussistenza di precisi criteri numerici su cui fondare tale valutazione, che invece rimane ascritta nell’ambito della più ampia discrezionalità del giudice di merito, il quale deve appunto porre l’attenzione, oltre che sull’ammontare dell’imposta evasa, sugli anzidetti indicatori concernenti il caso concreto.
5. La Corte di Cassazione ha poi ritenuto del tutto irrilevante la circostanza, addotta dal ricorrente, consistente nel fatto che quest’ultimo, dopo la commissione del reato, avesse versato all’erario una somma tale da far scendere l’imposta evasa al di sotto della soglia di punibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000. La sentenza in commento è, infatti, estremamente chiara nello statuire che la sussistenza dei presupposti applicativi della causa di non punibilità dev’essere valutata al tempo in cui si è consumato il reato: cosicché i caratteri dell’offesa, tali da qualificarla come particolarmente tenue, devono esistere in quel momento. Di conseguenza, ai fini della valutazione del grado dell’offesa, nessuna rilevanza può essere riconosciuta ai fatti successivi alla commissione del reato.
Alla luce di tali inequivocabili considerazioni, la Corte di Cassazione conclude coerentemente che, con riferimento al delitto di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, la suddetta valutazione va effettuata in relazione «all’imposta evasa come risultante al momento della scadenza per il pagamento del debito tributario, nel quale, consumandosi il reato, si realizza la lesione del bene tutelato». Il successivo pagamento del debito tributario da parte del reo, continua la Corte, è invece del tutto ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 131 bis c.p. e avrebbe potuto, se del caso, assumere rilevanza solo per integrare i differenti presupposti applicativi degli istituti di cui agli articoli 13 e 13 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, i quali prevedono, con specifico riferimento a taluni reati tributari, rispettivamente una causa di non punibilità e una circostanza attenuante.
6. Ciò posto, la Corte di Cassazione ha, in conclusione, ritenuta immune da censure la valutazione di fatto del giudice di merito circa l’esclusione della tenuità dell’offesa, sottolineando il carattere non irrisorio del superamento della soglia e il danno cagionato all’erario con l’omesso pagamento dell’imposta. Inoltre, la Suprema Corte ha precisato che la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. non poteva operare nel caso giunto alla sua attenzione anche per l’insussistenza di un altro presupposto applicativo dell’istituto in parola. Ed infatti, non risultava integrato il requisito della non abitualità del comportamento, avendo l’imputato già riportato tre condanne definitive per il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali. Ebbene, tali illeciti penali sono stati ritenuti dalla Suprema Corte «reati della stessa indole» (nei termini di cui all’art. 101 c.p.) rispetto al delitto di omessa presentazione della dichiarazione, secondo l’interpretazione che della nozione di <<reati della stessa indole>> hanno fornito le Sezioni Unite[4], così ostando all’applicazione dell’art. 131 bis c.p. Segnatamente, nella pronuncia in commento, prendendo le mosse da quanto da queste ultime statuito, la Corte di Cassazione ha specificato che per <<reati della stessa indole, ai sensi dell’art. 101 c.p., devono intendersi quelli che violano una medesima disposizione di legge e anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, presentano nei casi concreti - per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati - caratteri fondamentali comuni>>.
7. In conclusione, appare, quindi, apprezzabile il chiarimento operato dalla Corte di Cassazione con riferimento ai presupposti applicativi della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto in relazione ai reati (in specie tributari) che presentano una soglia di punibilità.
Come anticipato, però, a pochissima distanza di tempo dalla pronuncia in commento, l’affermazione della Suprema Corte circa l’irrilevanza dei fatti successivi alla commissione del reato va necessariamente rimeditata. Ed infatti, la riforma Cartabia, appena entrata in vigore, ha apportato alcune modifiche all’art. 131 bis c.p., tra le quali, per quanto qui di interesse, l’introduzione nel primo comma dell’inciso <<anche in considerazione della condotta susseguente al reato>>.
Ciò non può che indurre a ritenere, stante la chiarezza dell’attuale testo, che la condotta successiva al reato rilevi ora, al pari e in aggiunta ai criteri già previsti dalla norma in parola, quale criterio di valutazione dell’esiguità del danno o del pericolo e delle modalità della condotta, ossia degli indici dai quali, congiuntamente, continua a dipendere la tenuità dell’offesa. Di conseguenza, condotte post delictum, di natura riparatoria o ripristinatoria, potranno (e dovranno) essere ora valorizzate dal giudice di merito, in uno agli altri parametri previsti dalla norma, nel complessivo giudizio di tenuità dell’offesa.
Ciò considerato, appare poi evidente che, in punto di diritto intertemporale, la ritenuta natura sostanziale dell’istituto di cui all’art. 131 bis c.p. comporterà l’applicazione retroattiva della sua nuova versione, in quanto più favorevole al reo, ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della novella.
La suesposta riconduzione dell’istituto nell’ambito delle cause di non punibilità in senso stretto deve poi indurre, come peraltro già affermato dalle Sezioni Unite[5] in occasione dell’introduzione dell’art. 131 bis c.p., a ritenere che la modifica apportata dalla Riforma Cartabia non ha comportato alcuna abolitio criminis, limitandosi a prevedere una disciplina maggiormente favorevole al reo, con conseguente applicazione dell’art. 2 c. 4 c.p., il quale dispone l’efficacia retroattiva della lex mitior, a condizione, però, che non sia intervenuto il giudicato.
Infine, una tale modifica normativa è destinata ad avere una significativa rilevanza anche relativamente ai reati tributari. Ed infatti, prima della novella, il reo poteva evitare l’applicazione della pena, mediante condotte successive alla commissione del reato, solo integrando le stringenti condizioni di cui all’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000. Così, egli poteva beneficiare della causa di non punibilità da tale norma prevista solo pagando, peraltro integralmente, i debiti tributari, compresi sanzioni e interessi, entro termini molto ristretti (ossia, a seconda dei casi, entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ovvero entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo). A seguito della modifica operata dalla recente riforma, si aprono, invece, significativi spazi per ottenere il proscioglimento a favore di chi, dopo aver commesso un reato tributario, si ravveda e intenda onorare i propri debiti tributari.
Infatti, dovrà formare oggetto della valutazione del giudice, in sede di applicazione dell’art. 131 bis c.p., anche il pagamento (persino parziale) effettuato successivamente alla scadenza dei termini previsti dall’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000. Con la precisazione che esso, da solo considerato, non potrà ovviamente indurre a ritenere l’offesa particolarmente tenue, dovendo a tal fine essere accertata la sussistenza di tutti gli altri presupposti applicativi della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.
[1] Tale posizione era stata sostenuta, tra gli altri, da L. Pacifici, La particolare tenuità dell’offesa: questioni di diritto penale sostanziale, in Dir. pen. cont., 14 luglio 2015 e da T. Padovani, Un intento deflattivo dal possibile effetto boomerang, in Guida dir., n. 15/2015, p. 21; inoltre argomenti a sostegno di questa tesi erano stati sviluppati anche in due ordinanze di rimessione alle Sezioni Unite, nn. 49824 e 49825 del 3 dicembre 2015 (dep. 17/12/2015), pronunciate dalla Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, in De Jure.
[2] Tale tesi - già adottata dalla Corte di Cassazione, Sez. IV, n. 44132 del 9 settembre 2015 (dep. 2/11/2015), in De Jure - è stata definitivamente consacrata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con due sentenze “gemelle” nn. 13681 e 13682, pronunciate in data 25 febbraio 2016 (dep. 6/04/2016), in De Jure e, poi, costantemente seguita dalla giurisprudenza.
[3] Si fa riferimento alla sentenza n. 3256 del 14 dicembre 2020 (dep. 27/01/2021), pronunciata dalla Corte di Cassazione, Sez. III, in De Jure, nella quale, invero, si legge che <<una misura inferiore al 10%, infatti, non si manifesta di tale rilievo da soverchiare ogni altra valutazione dei criteri indicati dallo stesso art. 131-bis cod. pen.>>.
[4] Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza n. 13681 del 25 febbraio 2016, cit., richiamata nella pronuncia in esame.
[5] Cfr. Cass., Sez. Un., nn. 13681 e 13682 del 25 febbraio 2016, cit.