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  Opinioni  
22 Marzo 2021


Conviventi more uxorio e analogia in bonam partem: prima lettura di una sentenza "giusta" più che ardita

A margine di Cass., Sez. un., sent. 26 novembre 2020 (dep. 17 marzo 2021), n. 10381, Pres. Cassano, rel. Fidelbo, ric. Fiavola



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1. Preambolo: guardarsi dagli equivoci. – La questione affrontata dalla sentenza delle Sezioni Unite («se l’ipotesi di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., sia applicabile al convivente more uxorio») sembra involgere due temi estremamente sensibili. L’uno concerne la parificazione dinanzi alla legge, e in particolare dinanzi alla legge penale, della famiglia “di fatto” a quella fondata sul matrimonio: tema che interessa oggi in larga misura la popolazione e che vede la tensione tra il valore dell’affettività e quello della formalizzazione del vincolo, tra un’aspirazione personalistica e libertaria molto sentita ed un’esigenza istituzionale di certezza non meno importante. L’altro tema ha forse meno risonanza nell’opinione pubblica, ma non è meno decisivo per l’ordinato funzionamento di un sistema politico-istituzionale fondato sul primato della legalità e sulla divisione dei poteri: si tratta, cioè, in definitiva del ruolo assunto oggi dalla giurisdizione, ed in particolare da quella di legittimità, nella disciplina dei rapporti sociali rispetto al legislatore e a quell’organo paralegislativo che sempre più è la Corte costituzionale.

Ma, dicevamo, sembra, o meglio potrebbe sembrare, che i due grandi e sensibilissimi temi siano coinvolti dal perspicuo argomentare del Supremo Collegio: sì, perché, come contiamo di dimostrare subito, il collegamento è più apparente che reale. E, anzi, avrebbe potuto essere un pernicioso equivoco quello di affrontare e risolvere la questione specifica sotto il condizionamento preponderante di quei due nodi problematici. Così che il grande pregio di questa lucidissima sentenza pare proprio quello di non essere caduta in quell’equivoco: ed è vivamente auspicabile che anche i commenti che sicuramente seguiranno questa decisione delle Sezioni Unite non si facciano trascinare in quell’equivoco. In effetti, dinanzi alla persuasiva acribia con cui la Corte ha motivato il “gran passo”, insistere nel fraintendimento potrebbe indurre qualche sospetto – non diciamo sulla “buona fede”, ma – sulla disponibilità dei commentatori ad ascoltare le ragioni espresse dalla Cassazione.

 

2. Art. 384 c.p. e principio di colpevolezza. Il punto fondamentale è che l’art. 384, primo comma, c.p. non è una norma a tutela della famiglia, ma è espressione del principio di colpevolezza sub specie della inesigibilità di un comportamento conforme al precetto: una inesigibilità che il legislatore ha ritenuto ragionevolmente esistente quando venga in gioco la pressione psicologica di legami affettivi particolarmente forti. La norma in questione, insomma, non concorre a definire la disciplina della famiglia, ma attiene ad un elemento essenziale del reato qual è la colpevolezza. Per rendersene conto è sufficiente confrontarla con un’altra previsione di “non punibilità” in materia di famiglia, l’art. 649 c.p., che – come noto – prevede l’esclusione della punibilità per i reati patrimoniali commessi a danno di congiunti. La ratio di quest’ultima disposizione risponde invece all’esigenza appunto di tutelare la famiglia, la cui compagine armonica ed unitaria, già messa in crisi dal fatto criminoso commesso nel suo seno, potrebbe essere definitivamente devastata dall’irrompere della conflittualità dell’intervento punitivo. Diversamente, nell’art. 384, primo comma, c.p. la famiglia viene in gioco non già quale oggetto di tutela o scopo di disciplina, ma come presupposto di una situazione psichica individuale capace di condizionare il requisito della colpevolezza. Insomma, la causa di non punibilità dell’art. 649 c.p. ha una natura per così dire sociale e comunitaria, mentre quella di cui all’art. 348 c.p. ha una natura per così dire individualistica e psicologica. Tradotto nei termini della dogmatica penalistica, ciò significa che le due ipotesi di non punibilità, sebbene entrambe qualificate nominalmente come “cause di non punibilità”, hanno in realtà una natura giuridica profondamente diversa: l’art. 384, primo comma, c.p. è annoverabile più propriamente tra le cause di esclusione della colpevolezza (o scusanti) e quindi del reato, mentre l’art. 649 c.p. è ascrivibile alle cause di non punibilità in senso stretto, che lasciano sussistere il fatto illecito introducendo solo delle eccezioni alla sua punibilità per ragioni di opportunità. Le incertezze forse tuttora presenti nella individuazione della esatta natura giuridica dell’art. 384, primo comma, c.p. sono dovute essenzialmente al fatto che il principio di colpevolezza, soprattutto nella sua componente di inesigibilità, ha solo di recente sviluppato tutte le sue potenzialità nella prassi giurisprudenziale: una tendenza, questa, che va salutata con estremo favore e incoraggiata nella prospettiva di una sempre più completa attuazione di un principio costituzionale fondamentale del nostro sistema penale.

Orbene, se è vero che l’art. 384, primo comma, c.p. non è una norma che concorre alla disciplina, sotto il profilo penale, della famiglia, ne viene che sono inconferenti molte delle obiezioni mosse all’estensione di quella norma ai conviventi more uxorio. Non c’è dubbio, infatti, che la Corte costituzionale ha ragione quando ritiene che famiglia matrimoniale e famiglia di fatto siano due realtà differenti, riconducibili a due norme costituzionali diverse come sono rispettivamente l’art. 29 e l’art. 2 Cost., ma la distinzione è rilevante ai fini appunto della disciplina della famiglia e della sua tutela giuridica. Così come inconferente è l’obiezione che estendere la portata dell’art. 384 c.p. ai conviventi di fatto significherebbe produrre indirettamente effetti in malam partem in quanto l’allargamento della nozione di prossimi congiunti reagirebbe sulle norme penali a tutela della famiglia, come segnatamente ad esempio l’art. 570 c.p.: è chiaro, infatti, che nessun automatismo è possibile, in quanto l’estensione della non punibilità avverrebbe in nome di una ratio (il difetto di colpevolezza) che non ha niente a che fare con la ratio di tutela della famiglia sottesa alle norme incriminatrici; insomma, l’estensione non coinvolgerebbe l’art. 307 c.p. nella sua globale portata applicativa ma solamente nel suo rapporto con l’art. 384 c.p.. E ancora, parimenti inconferente sarebbe obiettare che il “silenzio” della recente legge Cirinnà sulla tutela della famiglia di fatto sarebbe indizio sicuro della volontà legislativa di non parificarla alla famiglia matrimoniale: ancora una volta, infatti, va ribadito che la legge Cirinnà si muove appunto nella prospettiva della tutela della famiglia e delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, mentre l’art. 384 c.p. si muove sul piano della colpevolezza del reato.

Dunque, deve essere rimosso l’equivoco che l’eventuale estensione dell’art. 384 c.p. ai conviventi di fatto si muova nella logica della parificazione della famiglia matrimoniale a quella di fatto sul piano del loro riconoscimento giuridico e della conseguente tutela: su questo piano, nonostante il frammentario e asistematico affiorare di riconoscimenti normativi della famiglia di fatto, rimangono differenze significative riconducibili ai due diversi parametri costituzionali di riferimento, così come rimangono del tutto legittimi i margini di opinabilità sulla opportunità di una integrale parificazione, che solo l’intervento del legislatore potrà risolvere. Ma, ripetiamolo ancora una volta, si tratta di problema completamente diverso da quello dell’estensione del campo applicativo dell’art. 384 c.p.

 

3. I conviventi more uxorio tra tutela della famiglia e principio di colpevolezza. –  Sgombrato il terreno dal primo equivoco, rimane la questione più insidiosa. E cioè: quali i percorsi interpretativi che possono giustificare l’estensione dell’art. 384, primo comma, c.p. ai conviventi more uxorio senza intaccare le regole fondamentali dell’interpretazione (e, in fondo, la stessa legalità)?

Preliminarmente, va ribadito che la natura di causa di esclusione della colpevolezza, da riconoscere all’art. 384 c.p., impedisce che essa possa essere considerata necessariamente una norma eccezionale, come sarebbe invece se avesse natura di causa di non punibilità in senso stretto. Anzi, non è superfluo sottolineare con forza che il principio di colpevolezza, di cui l’art. 384 c.p. è espressione, va oggi considerato non solo “regolare”, ma anche in via di progressiva espansione, sempre più circolante nell’ordinamento ad opera di quella giurisprudenza, comune e costituzionale, che mostra di intendere bene il senso e la direzione della storia in cui si muove la civiltà giuridico-penale.

Ciò posto, la Corte si è trovata al bivio: ripercorrere la strada di un’interpretazione estensiva dell’espressione “prossimi congiunti”, come del resto già fatto da alcuni precedenti puntualmente ricordati, ovvero battere francamente la strada dell’analogia. La prima soluzione, qualificata come quella di un’“interpretazione valoriale”, in sintonia con l’evoluzione sociale e – con un minimo di forzatura – accreditata come un’interpretazione costituzionalmente orientata, sarebbe stata forse più tradizionale, meno impegnativa e tutto sommato più conforme alle cautele sempre osservate dalla Cassazione quando si muove nel campo minato dell’interpretazione. Ma sarebbe stata anche una scelta, non solo meno coraggiosa e trasparente, ma anche nella sostanza meno rispettosa delle regole ermeneutiche e dunque della stessa legalità. Sì, perché a ben vedere qui non si sarebbe trattato di interpretare estensivamente l’espressione “prossimi congiunti”, il cui campo semantico è tutto sommato abbastanza elastico, bensì la specificazione contenutistica fornita dall’art. 307, quarto comma, c.p. E quest’ultima elencazione, in verità, appare stringente ed univoca, e dunque refrattaria ad un’interpretazione qualificabile come meramente estensiva.

In effetti, anche se la questione posta alla Corte riguarda il campo applicativo dell’art. 384 c.p., è difficile negare il coinvolgimento anche dell’art. 307, quarto comma, c.p.: non è cioè possibile ignorare il fatto che la nozione di prossimi congiunti fornita da quest’ultima disposizione sia data in generale “agli effetti della legge penale”. E, dunque, il raccordo, il combinato disposto tra le due disposizioni è inevitabile. E sta proprio qui la scaturigine delle difficoltà: lo spettro applicativo dell’art. 307 è generale, onnicomprensivo, non selettivo e, pertanto, riguarda tutte le norme in cui compare quell’espressione, potendosi trattare di norme ispirate a rationes molto diverse, non solo di tutela della famiglia ma anche di attuazione di altri principi, come – nel caso – quello di colpevolezza. Insomma, l’art. 307, quarto comma, c.p. è riferibile tanto a norme rispetto alle quali la parificazione tra famiglia di fatto e famiglia matrimoniale incontri le resistenze opposte dalla diversificazione di disciplina e di tutela; quanto a norme rispetto alle quali – invece – il principio di colpevolezza prema univocamente nel senso della parificazione (senza che vengano minimamente in gioco quelle legittime esitazioni verso la parificazione).

Dunque, posto che la via della interpretazione semplicemente estensiva non sarebbe stata consentita dalla lettera della legge (art. 307, quarto comma, c.p.), alla Corte non rimaneva che sperimentare con coraggio e chiarezza quella dell’analogia, astrattamente possibile in quanto chiaramente in bonam partem. E su questa strada sembrerebbe profilarsi un altro ostacolo.

 

4. Analogia e norme tassative. – Ribadito che l’art. 384, primo comma, c.p. non è una norma eccezionale in quanto espressione del principio generale di colpevolezza sub specie della inesigibilità, l’impossibilità di utilizzare l’analogia potrebbe semmai discendere da altra caratteristica della norma. In effetti, l’ineludibile collegamento con l’art. 307, quarto comma, c.p. («agli effetti della legge penale…») sembra finire per attribuire all’art. 384, primo comma, c.p. un carattere tassativo, visto e considerato che la definizione di “prossimi congiunti” è fornita dall’art. 307 c.p. in modo elencativo: il che potrebbe far concludere che venga in gioco il divieto di analogia delle disposizioni tassative, a sua volta fondato sul fatto che la formulazione tassativa della disposizione sarebbe sicuro indizio della voluntas legis nel senso di delimitarne l’applicazione esclusivamente ai casi previsti espressamente e non oltre.

Orbene, il divieto di applicazione analogica delle disposizioni tassative non è espressamente previsto dalla legge, ma risponde chiaramente ad un’esigenza logica, nei limiti però in cui questa sussista realmente e non sia invece addirittura sconfessata dall’assetto normativo di riferimento. L’impossibilità di applicazione analogica di norme tassative, insomma, sussiste nel presupposto che la ratio della norma sia “esaurita” nel perimetro, tassativo appunto, delineato dal legislatore, magari perché l’esclusione dei casi simili che ne deriva risponda ad altre e prevalenti esigenze. Ma sarebbe un assurdo impedire l’analogia della norma ancorché tassativa allorquando non solo quella stessa ratio sia suscettibile di espansione ma l’evoluzione dell’ordinamento escluda che sussistono contro-ragioni alla sua estensione e, anzi, siano presenti chiari indizi normativi per autorizzare l’estensione. E questo sembra proprio essere il caso dell’art. 384, primo comma, c.p. rispetto all’ipotesi dei conviventi more uxorio.

L’assunto presuppone una brevissima riflessione sul congegno normativo costituito dall’art. 384, primo comma, c.p. Ebbene, ribadito ancora una volta che esso è espressione del principio di inesigibilità di un comportamento diverso (e non già di una disciplina di tutela della famiglia), va però precisato che ad oggi siffatto principio non è affermato ed utilizzabile in quanto tale dal giudice, non è cioè direttamente operativo in tutta la sua potenzialità scusante rispetto a qualsiasi situazione di fatto in cui il giudice ravvisi in concreto l’inesigibilità del comportamento diverso. Insomma, non è direttamente rimesso nelle mani del giudice, ma passa sempre per un tramite legislativo mediante il quale il legislatore appunto individua situazioni determinate in cui è ritenuta la inesigibilità. Diversamente operando, cioè rendendo l’inesigibilità un istituto direttamente maneggiabile dal giudice in tutta la sua dirompente portata applicativa, si sarebbe aperta una grossa breccia nella legalità del sistema. Da qui la formulazione dell’art. 384, primo comma, c.p. che, non solo ritaglia una determinata e circoscritta situazione di possibile inesigibilità (quella derivante dal vincolo affettivo di parentela), ma, in sostanza, fissa una sorta di presunzione legale di inesigibilità, esonerando il giudice da un accertamento in concreto della reale esistenza dell’affectio e della sua concreta influenza sul processo motivazionale del reato. Una tecnica legislativa, questa, del tutto plausibile e ragionevole in considerazione del carattere particolarmente ampio, discrezionale e indeterminato del principio di inesigibilità in quanto tale.

L’operazione compiuta dalla Cassazione con questa sentenza non si pone al di fuori di questa logica, tutt’altro. Essa non dà ingresso a situazioni eterogenee rispetto alle quali si ponga una possibile inesigibilità, né tantomeno rende l’inesigibilità un giudizio in concreto rimesso alla discrezionalità giudiziale. Con questa sentenza ci si limita a prendere atto che oggi è diffuso nella realtà sociale un vincolo interpersonale del tutto identificabile, ai fini della inesigibilità, con quello di coniugio e che, soprattutto, questo vincolo è riconosciuto dall’ordinamento nella sua omogeneità a quello matrimoniale, come risulta chiaramente dalla pur frammentaria ma inequivoca legislazione in materia di convivenza more uxorio puntualmente ricordata dalla Corte. Particolarmente significativo, al riguardo, è il parallelo effettuato con il secondo comma dell’art. 384 c.p. e con l’art. 199 c.p.p., proprio in quanto instaurabile sullo stesso piano di fondo della inesigibilità. Non avrebbe senso alcuno e sarebbe del tutto irragionevole prevedere la non punibilità del convivente more uxorio, che avrebbe potuto astenersi dal deporre o avrebbe dovuto essere avvertito della sua facoltà di astenersi dal rendere dichiarazioni, e punirlo invece quando rende dichiarazioni mendaci al di fuori di tali situazioni ma egualmente condizionato dall’affectio della convivenza more uxorio.

In definitiva, l’applicazione analogica dell’art. 384, primo comma, c.p. non si pone per nulla contro il divieto d’analogia delle norme tassative. In primo luogo, la ratio di quella norma non si esaurisce nel perimetro definito dall’art. 307, quarto comma, c.p., che in effetti è tracciato anche e prevalentemente a fini diversi (di disciplina e di tutela penale della famiglia) da quelli sottostanti alla causa di inesigibilità. In secondo luogo, l’ipotesi del convivente more uxorio è – sotto il profilo dell’inesigibilità – più che simile identica a quella del rapporto coniugale, anche se la sua rilevanza sociale si è manifestata dopo la formulazione originaria dell’art. 384 c.p. In terzo luogo, la legittimità di questa valutazione di similitudine o addirittura identità, a determinati fini, delle due forme di rapporto interpersonale è consacrata dallo stesso ordinamento attraverso una serie di norme sparse ma univoche nell’instaurare il parallelo. Così che l’operazione analogica effettuate dalla Cassazione sull’art. 384, primo comma, c.p., lungi dal porsi in tensione con la legalità, si muove addirittura nel solco tracciato negli anni recenti dal legislatore.

Un’ultima notazione prima di concludere sul punto. Rimane fermo naturalmente il fatto che la parificazione tra le due situazioni non è totale, cioè, che le due istituzioni della famiglia matrimoniale e della famiglia di fatto continuano ad essere disciplinate e tutelate diversamente. L’applicazione analogica dell’art. 384, primo comma, c.p. non mette minimamente in discussione tutto ciò sul versante della disciplina penale. In effetti, l’operazione effettuata dalla Cassazione non concerne l’art. 307, quarto comma, c.p. in sé e per sé: cioè non opera una dilatazione della nozione di famiglia a tutti i possibili effetti penali. Più limitatamente e semplicemente, l’applicazione analogica riguarda il primo comma dell’art. 384 c.p., certamente come integrato dalla definizione di prossimi congiunti di cui all’art. 307 c.p. Ma la portata espansiva dell’operazione si limita all’art. 384 c.p., senza coinvolgere nessun’altra norma a tutela della famiglia e, pertanto, senza produrre nessun effetto indiretto in malam partem.

 

5. Diffidenze ingiustificate verso l’analogia in bonam partem. – Nel nostro mondo penalistico l’analogia è bandita in malam partem e da una parte minoritaria ma autorevole della dottrina è vista con diffidenza e sospetto anche quando sia in bonam partem a causa della componente di incertezza dei confini del punibile che essa comunque comporterebbe. Ma l’analogia è strumento di giustizia: non va dimenticato che, specie in un mondo giuridico complesso in cui il legislatore fatica a star dietro all’evoluzione sociale, il sacrificio implicato dal divieto di analogia è grande. È un sacrificio doveroso quando è in funzione di tutela della libertà, ma non si vede perché esitare e manifestare diffidenza verso l’analogia quando non produce effetti sfavorevoli. Sarebbe davvero inconcepibile se ci si accostasse alla sentenza in esame con una diffidenza critica dovuta al fatto che essa fa francamente ricorso all’analogia in bonam partem. Ci siamo ormai assuefatti a tante posizioni giurisprudenziali in cui si gabella per interpretazione estensiva vere e proprie applicazioni analogiche in malam partem (in tema di truffa per omissione, di corruzione, di momento consumativo del reato, ecc.), e dovremmo invece rifiutare una decisione in cui si fa buon governo delle regole interpretative con chiarezza ed onestà?

E poi, nel caso di specie, qualunque diffidenza nei confronti del procedimento analogico pare proprio non avere alcuna ragion d’essere. È vero: nell’analogia c’è una componente di incertezza dovuta al fatto che l’apprezzamento delle somiglianze o differenze tra il caso regolato e quello sub iudice, la loro affermazione o negazione, dipende in sostanza dal criterio valutativo prescelto dal giudice e dalla preliminare identificazione della ratio legis da estendere al caso non previsto. E molto spesso capita che i criteri valutativi siano molteplici e diversi e la ratio non sia agevolmente e univocamente identificabile. Ma questo non è proprio il caso dell’art. 384, primo comma, c.p.: come abbiamo visto, la norma è senza dubbio espressione del principio di colpevolezza sub specie della inesigibilità; la portata assiologica, regolativa di questo principio non trova, nella fattispecie, nessun limite in principi od esigenze contrapposte poiché esso non mette minimamente in crisi la tutela privilegiata della famiglia matrimoniale; l’elemento d’identità tra l’ipotesi prevista e quella non prevista, cioè l’affectio che lega coniugi e conviventi more uxorio, è apprezzato come tale dall’ordinamento in tutte le norme sparse che riconoscono rilevanza giuridica alla famiglia di fatto proprio in ragione del valore personalistico di quell’affectio. In qualche modo si potrebbe dire che il ragionamento analogico, in questa situazione, lungi dall’essere connotato da incertezza, si svolge piuttosto lungo “rime obbligate” o binari tracciati inequivocabilmente dall’ordinamento giuridico.

Un ultimo dubbio potrebbe insinuarsi nel coscienzioso interprete. Sarebbe stata preferibile la strada di una (eventuale) dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 384, primo comma, c.p. nella parte in cui non prevede anche il convivente more uxorio? Quesito certamente legittimo e un poco urticante, al quale però non ci sembra difficile rispondere. La via della dichiarazione di incostituzionalità avrebbe avuto senz’altro il vantaggio di mirare ad un risultato dotato di efficacia erga omnes: un vantaggio indubbiamente nient’affatto trascurabile per la certezza del sistema. Si osservi, peraltro, che la dichiarazione di incostituzionalità “nella parte in cui non prevede…” nessun contributo di certezza avrebbe potuto comunque recare nella precisazione della nozione e dei requisiti della convivenza more uxorio rilevanti ai fini dell’esimente: al contrario, forse la sentenza d’incostituzionalità avrebbe potuto essere meno prodiga di indicazioni al riguardo di quanto ha fatto la sentenza delle S.U. quando si è opportunamente dilungata sugli indici e criteri di accertamento della convivenza more uxorio.

D’altronde, va realisticamente considerato il fatto che la Corte costituzionale avrebbe potuto trovarsi un po’ impigliata in quei suoi precedenti negativi molto condizionati dall’equivoco di aver considerato l’art. 384 c.p. espressione della disciplina e della tutela (penale) della famiglia anziché del principio di colpevolezza. Ma a parte ciò e per contro, va piuttosto considerata l’eventualità – a nostro avviso, anzi, inevitabile – che la Corte costituzionale avrebbe ben potuto rispedire al mittente la questione dichiarandola inammissibile in quanto risolvibile dal giudice comune attraverso il ricorso, appunto, all’analogia.

Evocare, e preferire, l’intervento della Corte costituzionale significa presupporre e sottolineare particolarmente il carattere “para-legislativo” della decisione delle Sezioni Unite. Ma siamo davvero in presenza di un’operazione interpretativa che rischia di esorbitare dalle competenze del giudice comune? A parte il fatto che qualunque applicazione analogica, ancorché del tutto legittima, ha intrinsecamente un carattere “para-legislativo”, a noi pare che l’operazione ermeneutica delle Sezioni Unite s’inserisca pienamente nelle prerogative della Corte quale supremo organo della nomofilachia: anzi, si direbbe che tale operazione costituisca quasi un caso prototipico di esercizio della funzione nomofilattica (che, detto tra parantesi, è di per sé una funzione para-legislativa, di cui oggi si esaltano viepiù i pregi per la sana vita dell’ordinamento). Si consideri, infatti, che la “fattispecie non prevista” su cui si è esercitata la legittima analogia delle Sezioni Unite, quella del convivente more uxorio, non è costituita da un caso particolare, difficilmente ripetibile nella sua identità. Ma, al contrario, è una species facti caratterizzata da una sua evidente generalità tipologica, destinata a ripetersi sostanzialmente invariata nel suo significato “valoriale” al di là delle possibili forme di manifestazione in concreto. Ebbene, non è proprio su queste “tipologie di fatti” che è destinata a svolgersi la funzione nomofilattica della Cassazione? L’uniformità (tendenziale) dell’ordinamento si pone come obiettivo proprio della Suprema Corte proprio là dove il problema interpretativo sia suscettibile di generalizzazione in quanto relativo ad un dato di realtà capace di ripresentarsi come una fattispecie tipologicamente identificabile oltre la contingenza. Ed è proprio ciò di cui si trattava nella questione interpretativa rimessa al giudizio del nostro organo di nomofilachia. Così che il carattere “tipologico” della fattispecie decisa può garantire quel risultato sostanzialmente erga omnes, caratteristico dell’intervento nomofilattico della Cassazione a Sezioni riunite.