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19 Giugno 2023


Concorsi pubblici “turbati”: per la Cassazione è configurabile l’abuso d’ufficio ma non la turbativa d’asta: un esemplare caso di vuoto di tutela che si prospetta con l’abrogazione dell’art. 323 c.p.

Cass. Sez. VI, 10.5.2023 (dep. 16.6.2023), n. 26225, Pres. Fidelbo, Rel. Gallucci, ric. M.



*Contributo destinato alla pubblicazione nel fascicolo n. 6/2023. 

 

1. Succede questo. Il giovedì il Consiglio dei Ministri approva un disegno di legge per abrogare la norma che incrimina l’abuso d’ufficio sul presupposto che vi sarebbero tante archiviazioni e assoluzioni e pochissime condanne per quel reato e che – con le parole del Ministro Nordio in conferenza stampanon si realizzerebbe alcun vuoto di tutela “perché l’arsenale normativo di cui disponiamo per combattere i pubblici amministratori infedeli è il più aggressivo d’Europa…concetto che ho espresso l’altro giorno al Commissario Europeo Reynders”. Il venerdì la Sesta Sezione della Corte di cassazione deposita una sentenza (pronunciata all’udienza del 10 maggio scorso) con la quale conferma una condanna per abuso d’ufficio (a riprova che esistono ancora condanne per quel reato che resistono fino al terzo grado di giudizio) e, nell’annullare una condanna per turbativa d’asta in relazione ad altro capo d’imputazione, si preoccupa di precisare come non si determini alcun vuoto di tutela perché le condotte contestate erroneamente come turbativa d’asta sono riconducibili alla norma che incrimina l’abuso d’ufficio.

Come a dire: quel che non è turbativa d’asta può essere abuso d’ufficio. Non è inesatto allora, come invece ha sostenuto il Ministro Nordio, affermare che con l’abrogazione della norma sull’abuso d’ufficio si realizzerebbero vuoti di tutela. La Cassazione ne ha infatti individuato il giorno dopo già uno: i fatti non riconducibili a turbativa d’asta perché relativi a procedure che riguardano non l’acquisizione di beni o servizi ma l’assunzione di personale nella pubblica amministrazione con procedure che implicano una valutazione comparativa: i concorsi pubblici

 

2. Procediamo per gradi partendo dai fatti oggetto della sentenza. Il direttore di un ente pubblico (un ente-parco) viene condannato dal Tribunale e poi dalla Corte d’Appello di Milano nell’ambito di una vicenda relativa a una procedura di mobilità del personale interna alla pubblica amministrazione. Il direttore, che aveva uno stabile rapporto sentimentale con una donna interessata al posto di Istruttore direttivo tecnico messo a bando per mobilità interna, viene in particolare condannato in primo e in secondo grado per abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e per turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.).

La condanna per abuso d’ufficio è motivata in ragione dell’omissione dell’obbligo di astensione del direttore del Parco, imposto, tra l’altro, dal codice di comportamento dei dipendenti pubblici avendo egli un conflitto di interessi derivante dal rapporto sentimentale con la candidata al posto, alla quale procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale. La candidata, che si trovava in graduatoria in un concorso presso un comune, è stata infatti assunta presso il Parco. Un ulteriore addebito, per tentato abuso d’ufficio, riguarda poi l’illegittima attribuzione di un contratto di consulenza a un possibile concorrente al posto in mobilità, per evitare che questi presentasse domanda. Tutti fatti – si noti per inciso – che con l’abrogazione dell’art. 323 c.p. non costituirebbero più reato.

La condanna per turbata libertà degli incanti è stata motivata, invece, in ragione dell’allontanamento di altri possibili candidati, della riduzione illegittima del termine di pubblicazione del bando e di condizioni immotivatamente restrittive per la presentazione delle domande, tali da ostacolare la partecipazione.

 

3. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Sesta Sezione della Corte di cassazione conferma la condanna per abuso d’ufficio e annulla invece la condanna per turbata libertà degli incanti. Secondo la S.C., i concorsi per l’accesso a impieghi pubblici o le connesse procedure di mobilità del personale tra diverse amministrazioni non rientrano nelle “gare” tutelate dall’art. 353 c.p., che è applicabile solo a procedure per l’acquisizione di beni o servizi. Con una interpretazione costituzionalmente orientata, la Cassazione afferma che all’estensione applicativa della turbativa d’asta alle procedure per l’assunzione/reclutamento di personale “osta il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale”. La Cassazione richiama il divieto di analogia in malam partem e i principi affermati dalla Corte costituzionale, di recente, nella sentenza n. 98 del 2021, che ha ricordato come non è tollerabile che la sanzione penale colpisca l’individuo “per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore”. Secondo la Cassazione, l’applicazione dell’art. 353 c.p. a procedure che non concernono l’acquisizione di beni e servizi da parte della p.a. eccede in modo evidente l’ambito dei significati attribuibili alla nozione di “gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche amministrazioni” utilizzato dal legislatore nella fattispecie incriminatrice.

 

4. La Cassazione, dopo aver annullato la condanna per turbata libertà degli incanti “perché il fatto non sussiste”, si è preoccupata di aggiungere che condotte come quelle contestate possono essere ricondotte all’art. 323 c.p. e integrare, pertanto, un abuso d’ufficio. Nessun vuoto di tutela, dunque, almeno finché l’art. 323 c.p. non sarà abrogato.

***

5. La sentenza della Sesta Sezione è interessante per più aspetti, e lo è ancor più all’indomani della proposta governativa di abolire il reato di abuso d’ufficio. Il dato più importante – la notizia – è che la Cassazione, chiamata ad affrontare un caso di turbativa d’asta relativo a un concorso per il personale della p.a. messo a bando con procedura di valutazione comparativa, mette uno stop all’interpretazione estensiva del concetto di “gara” accolta nella propria giurisprudenza: per quanto possa essere esteso, quel concetto, in ossequio al divieto di analogia in malm partem, non può comprendere le procedure di valutazione comparativa per l’assunzione del personale, nell’ambito di concorsi pubblici.

E’ un principio molto rilevante, che promette ulteriori applicazioni, a cominciare da quella dei concorsi universitari. Alcuni procedimenti penali relativi alla “turbativa” di concorsi per professori universitari, avviati da diverse procure, ruotano infatti attorno a contestazioni del delitto di cui all’art. 353 c.p. (o del delitto di cui all’art. 353 bis c.p., quanto alla formazione del bando; un delitto che pure, come afferma in un obiter dictum la sentenza qui annotata, non può riguardare procedure concorsuali per il reclutamento del personale).

I concorsi “turbati” per avvantaggiare o danneggiare un candidato, senza un corrispettivo in denaro o altra utilità, non integrano le fattispecie di corruzione e, afferma la sentenza qui annotata, non sono nemmeno riconducibili alla turbativa d’asta, che riguarda solo procedure per l’acquisizione di beni o servizi. Arriviamo allora al punto, di scottante attualità. La Sesta Sezione tiene a precisare che non vi è alcun vuoto di tutela perché la turbativa di quei concorsi integra un abuso d’ufficio. E proprio questo reato è stato ad esempio contestato nella nota vicenda del commissario del concorso per magistratura recentemente denunciato per un tentativo di broglio, teso ad avvantaggiare un candidato (l’imputato, da quanto si apprende dalla stampa, è sottoposto alla messa alla prova e sta quindi così rispondendo del reato addebitatogli).  Qui però adesso casca l’asino: se venisse abrogato l’art. 323 c.p. nessuna sanzione penale sarebbe applicabile a chi “turba”  concorsi pubblici.

I pubblici ministeri sanno, da ora, che la contestazione della turbativa d’asta – avanzata in non pochi procedimenti per concorsi pubblici, anche universitari – rischia di cadere in Cassazione, mentre quella dell’abuso d’ufficio rischia di cadere nel nulla per effetto dell’abrogazione da parte del Parlamento, se il disegno di legge presentato dal Ministro Nordio non sarà emendato. Chi è intenzionato a turbare i concorsi ha meno paura; non è la paura della firma dei sindaci, cui pensa il Governo, ma è una paura che viene meno – con preoccupanti conseguenze sul piano della prevenzione – per effetto della proposta di una incondizionata e cieca abolizione di una fattispecie di chiusura del sistema che, come mostra la sentenza annotata, lascerebbe intollerabili e irragionevoli vuoti di tutela.

 

6. Vi è poi un altro aspetto che emerge dalla sentenza annotata, del tutto negletto nel dibattito di questi giorni. La pur criticabile riforma del 2020 (sulla quale sia consentito rinviare a un nostro intervento pubblicato nell’immediatezza su questa Rivista) non si era spinta così avanti da privare di rilevanza penale la condotta di abuso d’ufficio realizzata mediante l’omessa astensione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio in presenza di un conflitto di interesse. Quella condotta era penalmente rilevante prima del 2020 e lo è ancora oggi; non lo sarebbe più, invece, se venisse accolta dal Parlamento la proposta del Governo. E’ ragionevole e accettabile, in un Paese che peraltro ha una travagliata storia nei rapporti con il conflitto di interessi e la relativa regolazione, cancellare la previsione dell’abuso d’ufficio che punisce il conflitto di interesse dell’amministratore pubblico, evidentissima in casi come quello oggetto della sentenza annotata? Per quanto si possa essere favorevoli, come lo è in via di principio chi scrive, a un ritrarsi del diritto penale rispetto a strumenti di tutela offerti da altri rami dell’ordinamento, è lecito in questo caso dubitarne. Il problema della "paura della firma" e della c.d. burocrazia difensiva può e deve, ragionevolmente, trovare una soluzione diversa dall'abrogazione secca dell'art. 323 c.p.: è la soluzione facile ma dannosa a un problema complesso.

Perché allora – sia consentita una provocazione finale – non abrogare anche l’art. 2634 c.c., che punisce come “infedeltà patrimoniale” il conflitto di interesse nella sfera privata del diritto penale di imprese e società? E’ ragionevole punire il conflitto di interesse dei soli amministratori privati e non anche di quelli pubblici? E’ verosimile, d’altra parte, che anche i dati sulle condanne per quest'altro reato evidenzino numeri risicati…