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23 Novembre 2020


Legittima la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere per l'associazione con finalità di terrorismo

Corte cost., sent. 31 luglio 2020, n. 191, Pres. Cartabia, Red. Viganò



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1. Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere stabilita dall’art. 275 co. 3 c.p.p., nei confronti degli imputati per associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico di cui all’art. 270-bis c.p.

Com’è noto, infatti, il secondo periodo dell’art. 275 co. 3 c.p.p., nel prevedere che, quando sussistono esigenze cautelari in relazione ai delitti di cui all’art. 270, 270-bis e 416-bis c.p., è applicata la custodia cautelare in carcere, non fa salva altresì l’ipotesi in cui risulti che le esigenze cautelari presenti nel caso concreto possano essere soddisfatte con altre misure.

Pur essendo questa la prima volta in cui la Corte si è pronunciata sulla compatibilità costituzionale di siffatta presunzione in relazione al delitto di cui all’art. 270-bis c.p., sono numerose le pronunce in cui la Corte si era occupata dell’art. 275 co. 3 c.p.p., dichiarandone la parziale illegittimità, con riferimento alle singole figure delittuose, comprese nel catalogo della norma, che venivano di volta in volta in rilievo nelle varie ordinanze di rimessione[1].

Al fine di recepire le pronunce della Corte costituzionale, il legislatore è intervenuto sul dettato normativo dell’art. 275 co. 3 c.p.p. con la legge n. 47 del 2015, che ha trasformato la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere da assoluta a relativa per i reati sottoposti al regime derogatorio, con la sola eccezione delle ipotesi delittuose di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis c.p.

Su questo sfondo si innesta la pronuncia in commento, con cui la Corte ha convalidato la scelta del legislatore del 2015, discostandosi, almeno apparentemente, dai suoi precedenti in materia.

 

2. Veniamo alle prospettazioni contenute nell’ordinanza di rimessione.

La Corte di assise di Torino ha ritenuto che la questione fosse rilevante poiché era stata investita da una richiesta di revoca o di attenuazione della custodia cautelare avanzata da parte di un soggetto imputato per il delitto di cui all’art. 270-bis c.p. e già condannato dalla medesima Corte, per il reato in questione, con sentenza del 24 aprile 2019, alla pena di 5 anni di reclusione. L’interessato si trovava in carcere da oltre tre anni ed aveva ricoperto un ruolo di mero ausilio all’interno di un’associazione di stampo anarchico, da considerare non più operativa per effetto dell’individuazione degli altri partecipi. Secondo il giudice a quo, dunque, pur in presenza di una residua pericolosità dell’imputato, l’attenuazione delle esigenze cautelari avrebbe reso congrua la misura degli arresti domiciliari, la cui applicazione risultava però preclusa proprio per effetto del disposto di cui all’art. 275 co. 3 c.p.p.

In punto di non manifesta infondatezza, la Corte remittente ha richiamato i numerosi precedenti con cui la Consulta è pervenuta alla dichiarazione di incostituzionalità del meccanismo presuntivo in relazione alle figure di reato che venivano di volta in volta in rilievo, sempre operando una distinzione tra queste ultime e la figura dell’associazione mafiosa, rispetto alla quale la validità della presunzione non è mai stata posta in dubbio. Ebbene, secondo la Corte di assise di Torino, la mancanza degli elementi che contraddistinguono il fenomeno mafioso – quali “la forza intimidatrice del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, la diffusività territoriale” – e l’eterogeneità delle forme organizzative che possono in concreto assumere le associazioni terroristiche, così come quelle finalizzate al narcotraffico, non consentirebbe di enucleare una regola di esperienza in base alla quale solo la carcerazione preventiva è in grado spezzare i legami tra associato e organizzazione criminale di appartenenza.

Per tali ragioni, la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere stabilita dall’art. 275 co. 3 c.p.p. violerebbe l’art. 3 Cost., data l’ingiustificata parificazione del trattamento per gli imputati per il delitto di cui all’art. 270-bis c.p. e quelli per delitti di mafia; l’art. 13 Cost., quale referente normativo fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà, nonché l’art. 27 co. 2 Cost., per l’attribuzione alla coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena.

 

3. Tuttavia, il ragionamento del giudice a quo non convince la Corte.

Preliminarmente, la Corte si preoccupa di chiarire che nelle sue precedenti pronunce in materia non è mai stata affermata l’assoluta incompatibilità con i principi costituzionali di ogni ipotesi di presunzione assoluta stabilita dal legislatore.

Piuttosto, l’irragionevolezza della presunzione è stata sempre motivata in relazione alle specifiche caratteristiche della figura di reato che veniva in rilievo, rispetto alla quale risultava agevole immaginare casi in cui le esigenze cautelari, pur presenti nel caso concreto, potessero essere soddisfatte anche con misure meno restrittive.  

La valutazione di legittimità costituzionale è sempre stata condotta tenendo come punto fermo la validità della presunzione assoluta in relazione al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, ribadita da ultimo nell’ordinanza n. 136 del 2017, e differenziando di volta in volta la struttura e la connotazione criminologica che caratterizzano quest’ultima rispetto alle singole figure di reato che venivano in rilievo.

Anche in questa occasione, prima di entrare nel merito della questione, la Corte ribadisce un consolidato insegnamento della giurisprudenza costituzionale, secondo cui la ragionevolezza della presunzione non può essere valutata facendo riferimento alla gravità astratta del reato, che rileva solo in sede di giudizio di colpevolezza, né all’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale, che è piuttosto una funzione istituzionale della pena[2].

Fondamentale per escludere l’irragionevolezza della presunzione è invece la puntuale dimostrazione della sua corrispondenza all’id quod plerumque accidit e quindi della circostanza che, laddove siano ritenute sussistenti le esigenze cautelari nei confronti di imputati per il delitto di cui all’art. 270-bis, queste non possano essere fronteggiate con misure diverse dalla custodia cautelare in carcere.

Al fine di effettuare tale verifica, la Corte prende in considerazione i requisiti dell’associazione terroristica, così come interpretati dal diritto vivente, concentrandosi non già sulla generalità dei reati compiuti con finalità di terrorismo ma esclusivamente sulle condotte di promozione, costituzione, organizzazione, direzione, finanziamento e mera partecipazione contemplate dall’art. 270-bis c.p.

Per quanto riguarda la finalità, l’associazione terroristica deve proporsi il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Tale definizione trova specificazione nell’art. 270-sexies c.p., che considera “condotte con finalità di terrorismo” quelle che sono in grado di arrecare “grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale” e che sono compiute al triplice scopo di intimidire la popolazione, di costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale al compimento o al mancato compimento di un atto e infine di destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale.

Per quel che concerne invece il modus operandi, l’associazione terroristica può assumere anche una struttura fluida o a rete, caratterizzata da cellule territoriali, non necessariamente organizzata gerarchicamente o insediata su un determinato territorio, essendo sufficienti ai fini di integrazione della norma anche organizzazioni rudimentali. Per ritenere rispettato il principio costituzionale di offensività, deve trattarsi in ogni caso di una struttura organizzativa in cui sia riscontrabile un minimo livello di effettività.

Infine, in relazione alle condotte, per poter ritenere integrata quella meno grave di mera partecipazione non basterà la prova di un’adesione ideale al programma criminoso, ma dovrà essere dimostrato l’effettivo inserimento in una struttura organizzata, tramite l’accertamento dell’esistenza di contatti operativi tra il singolo e l’associazione, nonché il compimento di attività preparatorie.

 

4. Alla luce di tali premesse, la Corte ritiene che vi sia una profonda differenza, quanto a struttura, tra associazione terroristica e associazione di stampo mafioso, visto che la prima, a differenza della seconda, può essere organizzata in modo semplice o addirittura rudimentale e in essa possono mancare delle precise regole d’ingresso, una rigida organizzazione gerarchica, o il controllo su un determinato territorio. 

Nondimeno, ciò che caratterizza l’associazione terroristica, assimilandola in ciò all’associazione mafiosa, è la presenza di un preciso collante ideologico che lega il singolo all’organizzazione. Questo peculiare vincolo di appartenenza, da un lato, qualifica l’adesione del partecipe all’associazione terroristica e, dall’altro, contraddistingue quest’ultima da altre figure di reato, anche associative, rispetto alle quali la presunzione è stata ritenuta illegittima.

Proprio la circostanza che esso sia destinato a rimanere inalterato, quantomeno durante la fase delle indagini preliminari, rende ragionevole la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, a maggior ragione se si tiene in considerazione la possibilità che il soggetto agli arresti domiciliari riprenda i contatti con l’esterno, anche attraverso internet e social network, ricevendo o impartendo ordini ovvero commettendo reati in esecuzione dell’originale programma criminoso. Il giudice potrà, in ogni caso, valutare il permanere dell’esigenze cautelari e disporre la revoca della misura qualora risulti che esse siano venute meno.

 

5. È noto l’orientamento della giurisprudenza costituzionale in materia di meccanismi presuntivi a carattere assoluto. È stato infatti in più occasioni affermato che “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, è stato posto in rilievo che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa[3].

Tale principio è stato da ultimo ribadito nella storica sentenza n. 253 del 2019 che, come è noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis ord. pen., che stabiliva un’insindacabile equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità del detenuto, impendendo ai condannati per i delitti contemplati dalla norma di accedere ai benefici penitenziari. Secondo la generalizzazione posta alla base della presunzione, ora trasformata in relativa e quindi superabile con prova contraria, la scelta di non collaborare non poteva che dipendere dalla persistenza di rapporti tra condannato e associazione mafiosa[4].

Quello che si può in questa sede rilevare è che con la sentenza n. 191 del 2020 la Corte, pur partendo dal medesimo criterio dell’id quod plerumque accidit, decide di non censurare le scelte del legislatore del 2015, salvando così il carattere assoluto della presunzione[5].

In effetti, la scelta di operare un self restraint è in questo caso comprensibile se si tiene in considerazione la diversità delle fasi in cui opera la presunzione: mentre nella fase di esecuzione della pena ha valore determinante il trascorrere del tempo, che comporta inevitabilmente delle trasformazioni della personalità del condannato cui deve necessariamente corrispondere un adattamento delle modalità di espiazione della pena, in fase cautelare prevalgono ragioni di urgenza, che rendono maggiormente tollerabile l’operatività della presunzione, il cui effetto principale è quello di semplificare la valutazione di idoneità della misura cautelare effettuata dal giudice nell’immediatezza del fatto[6].

Se con la sentenza n. 253 sembra che la Corte abbia definitivamente sbarrato la strada alla possibile operatività durante la fase esecutiva di meccanismi presuntivi a carattere assoluto, in fase cautelare essi permangono[7].

 

6. Per quanto riguarda, in particolare, la previsione della carcerazione obbligatoria per gli imputati del delitto associativo punito all’art. 416-bis c.p., la sua legittimità è stata da ultimo ribadita nell’ordinanza n. 136 del 2017 ed è sempre stata motivata sulla base della caratteristica di indissolubilità del vincolo che lega il singolo al gruppo criminale di appartenenza[8].

Come affermato dalla stessa Corte a partire dalla sentenza n. 265 del 2010, infatti, l’associazione mafiosa si distingue da altre figure associative non solo per le caratteristiche strutturali che deve in concreto assumere per essere riconosciuta come tale, ma anche e soprattutto “per le caratteristiche del legame, capace di permanere inalterato nonostante le vicende personali dell’associato e di mantenerne viva la pericolosità”. Tale elemento distintivo fornisce una congrua base statistica alla presunzione assoluta stabilita nei confronti degli indiziati di tale delitto, rendendola ragionevole[9].

Del resto, proprio la circostanza che nei delitti aggravati dal metodo mafioso e nel concorso esterno nell’associazione non vi sia quello stabile inserimento del singolo all’interno dell’organizzazione ha consentito alla Corte di differenziare il trattamento in fase cautelare degli imputati per tali delitti rispetto a quello riservato agli imputati per partecipazione all’associazione mafiosa, trasformando la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare da assoluta a relativa[10]

Secondo la Corte, quindi, di fronte ad un soggetto imputato per aver preso parte ad un’associazione mafiosa, alla luce delle caratteristiche di quest’ultima, è legittimo presumere, senza possibilità di prova contraria, che nonostante le indagini o il processo in corso, il soggetto resti stabilmente legato al gruppo criminale di appartenenza e che, pertanto, in nessun caso le esigenze cautelari risultino fronteggiabili con misure diverse dalla custodia cautelare in carcere.

 

7. Considerazioni non dissimili conducono la Corte, nella sentenza in commento, a ritenere giustificata l’operatività della presunzione assoluta anche rispetto a soggetti indiziati del delitto di associazione con finalità di terrorismo.

A ben vedere, però, ci sembra che – utilizzando sempre come punto di partenza il criterio dell’id quod plerumque accidit – anche rispetto alla regola posta alla base della presunzione di stabilità del vincolo sottesa al comma 3 dell’art. 275 c.p.p. e riferita agli imputati per associazione terroristica, sia agevole ipotizzare delle eccezioni.

Uno spunto di riflessione viene offerto dalle considerazioni contenute nella sentenza n. 231 del 2011, che ha dichiarato l’illegittimità della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere stabilita nei confronti degli imputati per associazione finalizzata al narcotraffico di cui all’art. 74 stup., ritenendo che l’eterogeneità delle fattispecie riconducibili alla previsione rendesse impossibile enucleare una regola di esperienza ricollegabile alle varie declinazioni criminologiche del fenomeno.

Il confronto ci pare opportuno alla luce del fatto che, tanto nell’art. 74 stup. quanto nell’art. 270-bis c.p., a differenza di quanto non sia per l’art. 416-bis c.p., vengono descritte fattispecie aperte, in cui viene specificato solo lo scopo dell’associazione, al cui interno possono essere ricomprese ipotesi criminose assolutamente diverse tra loro, quanto a contesto, modalità lesive e intensità del legame tra singolo e organizzazione criminale. Si pensi alla differenza tra il terrorismo di stampo islamico, che ha caratteristiche di transnazionalità e conta al suo interno un numero elevatissimo di partecipi, pronti a sacrificare la loro vita in nome dei loro ideali, ed il terrorismo di matrice anarchica, che può anche operare in un territorio ristretto e basarsi sull’apporto di poche persone.

Anche in questo caso, quindi, ci sembra che non sia possibile stabilire una regola di esperienza che sia ricollegabile a tutte le declinazioni criminologiche del fenomeno, secondo cui la custodia cautelare sarebbe l’unico strumento idoneo a far fronte alle esigenze cautelari che vengono di volta in volta in rilievo.

Se infatti è vero che nella maggior parte dei casi, qualora sussistano esigenze cautelari nei confronti di un individuo legato ad un gruppo terroristico transnazionale, l’unica misura idonea a soddisfarle è la custodia cautelare in carcere, è altrettanto vero che possono esserci casi, come quello oggetto della pronuncia in commento, in cui un soggetto sia imputato per aver preso parte ad un’associazione terroristica che, nel corso del processo, risulti non più attiva per effetto dell’individuazione degli altri responsabili: in tali ipotesi il vincolo di appartenenza tra singolo e associazione potrebbe essersi in concreto attenuato e le esigenze cautelari potrebbero essere contenute con misure minori.

In conclusione, quindi, pur accettando che nella fase cautelare l’assolutezza della presunzione prevista dall’art. 275 co. 3 c.p.p. debba ritenersi legittima in quanto giustificata da prevalenti ragioni di urgenza, permane la sensazione che, nella valutazione della Corte circa la sua operatività rispetto al delitto di cui all’art. 270-bis c.p., potrebbe aver influito la considerazione dell’estrema gravità del reato in oggetto e del particolare allarme sociale suscitato da tale fattispecie criminosa.

 

 

[1] La Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 275 co. 3 c.p.p.: in relazione ai delitti a sfondo sessuale con sentenza n. 265/2010; in relazione all’omicidio, con sentenza n. 164/2011; in relazione all’associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico, con la sentenza 231/2011 (a commento della quale cfr. G. Leo, Presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere nei procedimenti concernenti il delitto di associazione finalizzata al narcotraffico in Dir. pen. cont., 22 luglio 2011); in relazione al delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12 co. 3 TU stranieri, con sentenza n. 331/2011; in relazione al delitto di partecipazione ad associazione a delinquere finalizzata alla commissione dei delitti di cui agli artt. 473 e 474 c.p., con sentenza n. 110/2012; in relazione ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare le attività dell’associazione ivi prevista con sentenza n. 57/2013, (a commento della quale cfr. G. Leo, Illegittima la previsione della custodia “obbligatoria” in carcere per i reati di contesto mafioso, ma non per le condotte di partecipazione o concorso nell’associazione di tipo mafioso, in Dir. pen. cont., 7 aprile 2013); in relazione al sequestro di persona a scopo di estorsione, con la sentenza n. 213/2013; in relazione alla violenza sessuale di gruppo, con sentenza n. 232/2013); in relazione al concorso esterno in associazione mafiosa, con la sentenza n. 48/2015, (a commento della quale cfr. G. Leo, Cade la presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere anche per il concorso esterno nell’associazione mafiosa, in Dir. pen. cont., 30 marzo 2015. In relazione alla condotta di partecipazione all’associazione mafiosa di cui all’art. 416-bis c.p., la Corte in due occasioni è stata chiamata a valutare la legittimità della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in relazione agli indiziati di tale delitto e ha dichiarato in entrambi i casi l’infondatezza della questione: una prima volta, con l’ordinanza n. 450/1996 e, dopo l’intervento della legge del 16 aprile 2015 n. 47, con l’ordinanza n. 136/2017. Ancor prima di tali pronunce, la previsione di tale meccanismo in relazione ai delitti di mafia era stato ritenuta legittima dalla Corte EDU, nella sentenza del 6 novembre 2003, Pantano c. Italia;

[2] Si tratta di un’affermazione contenuta nella sentenza n. 265/2010 della Corte costituzionale e puntualmente ribadita nelle successive pronunce intervenute in materia.

[3] Cfr., ex multis, sentenze n. 139 del 1982; n. 333 del 1991; n, 41 del 1999; n. 139 del 2010; n. 57 del 2013; n. 213 del 2013; n. 232 del 2013; n. 185 del 2015; n. 268 del 2016; n. 253 del 2019.

[4] Per un approfondito commento della pronuncia si rinvia a S. Bernardi, Sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia: in margine a Corte cost., sentenza del 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, in Osservatorio AIC, fasc. 2/2020, 3 marzo 2020.

[5] Si noti, per inciso, che mentre la previsione della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di cui all’art. 416-bis c.p.  è rimasta immutata sin da quando fu introdotta ad opera della legge n. 203 del 1991, la sua operatività in relazione al delitto di cui all’art. 270-bis c.p. era stata eliminata per effetto della legge n. 332 del 1995, che ne circoscrisse l’ambito ai delitti di mafia, ed è stata ripristinata dal legislatore con la legge 38 del 2009, che estese il novero dei reati per cui essa opera a tutti quelli previsti dall’art. 51 co. 3-bis e co.3-quater c.p.p. e ad altri gravi delitti contro la persona. Per effetto del richiamo a quest’ultima norma, l’art. 270-bis c.p. è tornato ad essere assoggettato al regime derogatorio di cui all’art. 275 co. 3 c.p.p. e tale scelta è stata poi confermata dal legislatore con la legge 47 del 2015.

[6] Cfr. sentenza n. 253 del 2019, par. 8.3 del considerato in diritto.

[7] Del resto, è proprio la Corte stessa che, nella sentenza in commento, precisa sin dall’inizio della sua motivazione di non aver mai affermato “l’assoluta incompatibilità con i principi costituzionali, in materia di misure cautelari e tutela della libertà personale della persona indiziata di reato, di ogni presunzione assoluta stabilita dal legislatore”. Cfr. sentenza n. 191/2020, par. 4.1 del considerato in diritto.

[8] Le argomentazioni dell’ordinanza n. 136 del 2017, con cui è stata dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 275 co. 3 c.p.p. in relazione al 416-bis c.p. si pongono, infatti, in piena continuità rispetto alle motivazioni delle precedenti sentenze della Corte intervenute in materia, in cui si è pervenuti alla dichiarazione d’illegittimità operando puntualmente una distinzione tra le caratteristiche delle figure di reato oggetto delle ordinanze di rimessione e i requisiti dell’associazione mafiosa. Cfr, nota 1.

[9] Cfr. sentenza n. 265 del 2010, par. 10 del considerato in diritto, in cui si afferma che “l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice”. Da ciò deriva che, nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte solo con la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità); tali affermazioni vengono poi riprese nell’ordinanza n. 136 del 2017.

[10] Cfr. in relazione ai delitti aggravati dall’uso del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa, la sentenza n. 57 del 2013 con nota di G. Leo, cit., e, in relazione al concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso, la sentenza n. 48 del 2010 con nota di G. Leo, cit..