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16 Marzo 2020


Detenzione domiciliare ordinaria: non illegittima la preclusione per i reati di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario

Corte cost., sent. 12 marzo 2020, n. 50, Pres. Carosi, Rel. Viganò, Red. Zanon



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Diamo sintetica notizia, in attesa di eventuale commento critico, d’una rilevante sentenza della Corte costituzionale in materia di detenzione domiciliare ordinaria: della misura cioè prevista dal comma 1-bis dell’art. 47-ter della legge di ordinamento penitenziario, che consente di eseguire nel domicilio del condannato le pene detentive di misura non superiore a due anni, anche se costituenti parte residua di maggior pena, quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che la misura di detenzione domiciliare sia idonea ad evitare il pericolo che l’interessato commetta nuovi reati. Nel linguaggio corrente di parla di misura generale od ordinaria per distinguerla dal trattamento “umanitario” che la legge riserva a soggetti particolari (comma 1 dello stesso art. 47-ter), cioè persone di età giovanile o avanzata, di condizioni di salute particolari, o gravate da responsabilità genitoriale.

La detenzione domiciliare quale misura a carattere generale, nondimeno, incontra un vistoso limite in forza dell’ultimo inciso della norma che la prevede, con il quale il legislatore ha escluso la sua applicazione quando l’esecuzione riguardi pene inflitte per i reati di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario.

 

1. La norma censurata.

Recita in particolare il comma 1-bis dell’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975: «La detenzione domiciliare può essere applicata per l'espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all'articolo 4-bis». Quindi non v’è possibilità di detenzione domiciliare ordinaria in piana applicazione della norma che istituisce e regola l’istituto (norma a suo tempo inserita ex art. 4 della legge n.  165 del 1998, poi modificata dall'art. 7 della legge n. 251 del 2005 ed infine novellata ex art. 2 del decreto-legge n. 78 del 2013, come convertito, con modificazioni, nella legge n. 94 del 2013).

Si è discusso, per la verità, circa la portata del richiamo all’art. 4-bis da parte della norma censurata: se cioè tale riferimento recepisca l’intera disciplina della disposizione richiamata, con la conseguenza che si applicherebbero anche le previsioni eccezionali che consentono l’accesso ai benefici in presenza di determinate condizioni (ad esempio, la collaborazione con la giustizia), e che dunque la detenzione domiciliare sarebbe ammessa in quei casi particolari; oppure se, piuttosto, il richiamo valga solo a recepire in modo sintetico un elenco di reati, da assoggettare tutti e solo alla disciplina dell’art. 47-ter, con la conseguenza che la detenzione domiciliare non sarebbe mai applicabile per l’esecuzione delle pene relative, quand’anche ricorressero le condizioni eccezionali delineate all’art. 4-bis.

Va detto subito che il diritto vivente ha recepito la seconda delle opzioni indicate, quella più restrittiva e severa (da ultimo, Cass., Sez. I, sentenza n. 20145 del 27/04/2011, in C.E.D. Cass., n. 250277). Si determina così, almeno in apparenza, la conseguenza immediata di un paradosso: per il delitto di rapina aggravata (è un esempio, tratto dal giudizio principale che ha occasionato la questione di legittimità) è possibile ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali, se mancano elementi tali da far ritenere collegamenti con la criminalità organizzata (comma 1-ter dell’art. 4-bis), ma non è possibile, a nessuna condizione, che la pena sia eseguita in regime di detenzione domiciliare.

 

2. I parametri costituzionali e le censure.

Proprio il trattamento deteriore in materia di detenzione domiciliare ha spinto la Corte di cassazione (Prima sezione penale) a sollevare la questione di legittimità che la Consulta, oggi, ha ritenuto non fondata.

Volendo riassumerlo in poche ed essenziali battute, il ragionamento della Cassazione si fonda su due caposaldi. Il primo qualifica la totale preclusione di accesso alla detenzione domiciliare quale frutto di una presunzione assoluta di pericolosità, non tollerabile in materia di esecuzione penale e comunque non ragionevole, poiché nel catalogo dell’art. 4-bis vi sono reati non necessariamente espressivi di livelli estremi di capacità criminale (ad esempio, una rapina compiuta da un elemento isolato valendosi di una pistola giocattolo e con profitto irrilevante o quasi). Per altro verso, la Cassazione individua un profilo di irragionevolezza nella graduazione dei divieti, perché il sistema, per l’identico fatto, consente in ipotesi una misura non custodiale (come l’affidamento in prova) ma non permette una misura custodiale (come la detenzione domiciliare), che pure dovrebbe consentire un maggior contenimento della pericolosità del soggetto preso in considerazione. Un divieto, quello censurato, che ostacola dunque, senza ragione, anche il pieno dispiegamento degli strumenti di risocializzazione del condannato.

Queste, essenzialmente, le ragioni dell’asserito contrasto tra la norma censurata e gli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., «potendo dubitarsi della intrinseca ragionevolezza della preclusione assoluta così istituita, e della sua conformità ai principi di rieducazione e di personalità e proporzionalità che dovrebbero sorreggere la risposta punitiva in ogni momento della sua attuazione». Ovviamente, a proposito dell’art. 3 Cost., la Cassazione ha richiamato la giurisprudenza per la quale, specie in materia di diritti fondamentali, le presunzioni assolute violano il principio di uguaglianza (imponendo l’eguale trattamento di situazioni disomogenee), ogni qual volta sia agevole concepire, tra le fattispecie regolate, situazioni nelle quali fa difetto una giustificazione razionale della regola fondata sulla presunzione. Un assunto, questo, del quale ripetute applicazioni si sono fatte nella materia dell’esecuzione penale, alla luce del principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena. La Cassazione cita tra l’altro la sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 2018, secondo cui il principio deve «declinarsi nella fase esecutiva come necessità di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco dell’espiazione della pena».

Al fianco poi dell’asserita irrazionalità del meccanismo presuntivo – come accennato – il rimettente ha posto il paradosso del trattamento riservato ad un soggetto non collegabile alla criminalità organizzata, astrattamente abilitato ad una misura non detentiva, e però escluso dalla detenzione domiciliare.

Qui la questione coinvolge la natura del “beneficio” a suo tempo introdotto dal legislatore, cui si era negata, inizialmente, una qualunque funzionalità trattamentale, trattandosi piuttosto di far prevalere ragioni umanitarie. Proprio questa carenza funzionale, che marcherebbe ad esempio la differenza con l’affidamento in prova, varrebbe a giustificare l’esclusione della detenzione domiciliare per soggetti (presunti) pericolosi: una misura incapace di rieducare è per definizione inidonea alla riduzione del rischio di recidiva. Ammesso però che la svalutazione dell’istituto fosse giustificata al tempo delle sue origini – osserva la Cassazione – dovrebbe oggi constatarsi che la detenzione domiciliare è considerata una vera e propria forma di esecuzione della pena, partecipe a pieno titolo d’una finalità di rieducazione comune di tutte le misure alternative alla detenzione (e perseguibile anche con prescrizioni ad hoc: comma 4 dell’art. 47-ter dell’ordinamento penitenziario).

Resta dunque, secondo il giudice rimettente, il paradosso che sacrifica una efficace misura custodiale rispetto ad una meno costrittiva, proprio sul presupposto di una pericolosità più marcata del condannato.

 

3. La risposta della Corte.

Come già si è anticipato, il dispositivo della sentenza è nel senso della infondatezza delle questioni sollevate.

Va subito chiarito come la Consulta abbia recepito i presupposti interpretativi sottesi al ragionamento della Corte di cassazione, convenendo in particolare sul fatto che la detenzione domiciliare è preclusa anche nei casi in cui, per le varie “fasce” di reati delineate all’art. 4-bis, ricorrono le particolari condizioni idonee a legittimare l’applicazione di altri “benefici” penitenziari. Per quanto esplicitamente sollecitata in tal senso dall’Avvocatura dello Stato, la Corte ha dunque ricusato l’idea di una interpretazione adeguatrice della norma censurata (volta a recepire nella disciplina della detenzione domiciliare non solo i divieti dell’art. 4-bis, ma anche le relative eccezioni). Una interpretazione siffatta si sarebbe scontrata con il diritto vivente e, del resto, non avrebbe potuto dirsi imposta da una situazione di effettiva violazione della legalità costituzionale.

In effetti, secondo la Consulta, la norma censurata non è manifestamente irragionevole. La conclusione è raggiunta mediante un duplice percorso. In primo luogo, la preclusione opera per definizione (cioè già secondo la sua disciplina astratta) solo nei confronti di soggetti in concreto pericolosi, o comunque non contenibili con la detenzione in casa. Il passaggio chiave: più che di una presunzione assoluta di pericolosità, si tratta di una presunzione assoluta di inidoneità d’una particolare forma di esecuzione della pena, che però trova fondamento in un giudizio concreto e puntuale di segno sfavorevole al condannato.

Questi infatti giunge “avanti” al giudice della misura con una pena eseguibile, nonostante la relativa esiguità, il che è significativo almeno quando si tratta della sanzione così come inflitta in fase di cognizione, perché implica che non sia stata concessa la sospensione condizionale (dunque, prognosi negativa, o precedenti ostativi). Soprattutto, chi patisce la preclusione è persona non meritevole neppure dell’affidamento in prova, nonostante i valori di pena certamente compatibili, e dunque in ragione di un concreto giudizio di inidoneità della stessa misura a contenerne la pericolosità ed a favorirne la rieducazione. Senza quel giudizio, resterebbe escluso dalla detenzione domiciliare ma avrebbe accesso ad un trattamento (per certi versi almeno) più favorevole.

Qui si innesta il secondo perno del ragionamento seguito dalla Corte, la quale ha condiviso anche la considerazione della misura detentiva come forma piena ed ordinaria di esecuzione della pena, capace dunque di riprodurne l’effetto risocializzante. Tuttavia, i Giudici costituzionali hanno ricusato una logica di “graduatoria” delle misure alternative e dei cosiddetti benefici, lungo una scala che muova dalla maggiore analogia con la reclusione intramuraria (misura da riservare ai più pericolosi) a quella con l’analogia minore (concedibile a soggetti con basso rischio di recidiva). Ciò che esclude il fondamento della questione sollevata nella parte in cui denuncia l’irragionevolezza del “concedere il più” (cioè l’affidamento in prova) e “negare il meno” (cioè la detenzione domiciliare).

In realtà, ciascuna delle forme che può assumere il trattamento extramurario consta di una combinazione originale di elementi “contenitivi” (l’obbligo sanzionato di restare in casa, quello di non frequentare o di frequentare luoghi e persone determinati, ecc.) e di contenuti “rieducativi” (la partecipazione ad attività socialmente utili, ecc.), che il legislatore può modulare in base alla propria marcata discrezionalità in materia di sanzioni penali, regolando anche gli spazi giudiziali discrezionali per i singoli casi concreti.

Per restare vicini all’oggetto del giudizio principale, va notato che anche la misura dell’affidamento in prova può in concreto assumere connotazioni di severa restrizione della libertà (prescrizioni molto stringenti sull’uscita ed il rientro dall’abitazione, estesi divieti di frequentazione, ecc.), ed al tempo stesso implicare misure puntuali di forte impatto risocializzante. Per altro verso, la detenzione domiciliare può essere allentata da permessi di lavoro o concernenti le primarie esigenze di vita, senza tuttavia prestarsi con la stessa larghezza, in quanto pur sempre misura detentiva, all’imposizione di condotte utili in chiave di rieducazione del condannato.  Per usare l’esatta terminologia della Corte costituzionale, a questo fine, la seconda misura è “ancora meno articolabile” della prima. E allora, se il giudice del caso concreto ritiene che neppure l’ampia possibilità di articolare prescrizioni con l’affidamento in prova varrebbe a contenere il rischio della commissione di nuovi reati, il fatto che la stessa persona sia esclusa dalla detenzione domiciliare non dipende da una presunzione astratta ed insuperabile di pericolosità, ma, almeno in parte, dalla fisionomia del caso di specie.

Non è insomma manifestamente irragionevole (questo il parametro del giudizio), né contrario al principio di finalizzazione rieducativa della pena, che la misura dell’art. 47-ter resti preclusa nei suoi confronti.

Che poi sarebbe più ragionevole una diversa disciplina la Corte non lo afferma, ma neppure lo nega: ricorda in conclusione quanto già rammentato dalla Cassazione, e cioè che la cd. legge Orlando (n. 103 del 2017) aveva previsto l’eliminazione della norma preclusiva, con una previsione cui poi non è stato dato seguito.

È noto: tra la manifesta irragionevolezza e l’inopportunità sul piano politico e sistematico esiste uno spazio, della cui ampiezza e della cui fisionomia era e resta responsabile solo il legislatore.