Scheda  
01 Agosto 2020


Ancora sulle modifiche in peius della disciplina penitenziaria: tre nuove decisioni della Corte costituzionale


Enrico Andolfatto

Corte costituzionale, sentenza 21 luglio 2020 (dep. 31 luglio 2020), n. 193, Pres. Morelli, Rel. Viganò — ordinanza 21 luglio 2020 (dep. 30 luglio 2020), n. 183, Pres. Morelli, Rel. Viganò — ordinanza 22 luglio 2020 (dep. 30 luglio 2020), n. 184, Pres. Morelli, Rel. Viganò


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Per leggere l'ordinanza 183/2020, clicca qui.

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0. Le tre pronunce qui segnalate si pongono in stretta continuità con la sentenza n. 32 del 2020 che, come a suo tempo segnalato in questa Rivista[1], per la prima volta ha affermato che il divieto di applicazione retroattiva della legge penale – di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione – concerne anche modifiche normative che inaspriscano il trattamento penitenziario in maniera così intensa da determinare una «trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato».

 

1. La sentenza n. 193/2020 risponde ai dubbi di legittimità costituzionale che la Corte di assise d’appello di Brescia, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva sollevato – in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione (quest'ultimo in relazione all'articolo 7 CEDU) – sull’articolo 3-bis del d.l. n. 18 febbraio 2015, n. 7, come convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43. La questione, per l’appunto, nasce dalla modifica normativa del 2015: la novella, includendo il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit., ha precluso ai condannati per il delitto in questione la possibilità di ottenere la sospensione dell’ordine di esecuzione; l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. dispone infatti che «la sospensione dell'esecuzione […] non può essere disposta: a) nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'articolo 4 bis» delle norme sull’ordinamento penitenziario.

Dunque, come ha riferito il giudice rimettente, l’istanza di sospensione dell’ordine di esecuzione avanzata dal condannato nel giudizio a quo non avrebbe potuto trovare accoglimento, nonostante il fatto che costui avesse commesso il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in epoca anteriore alla modifica in peius della disciplina penitenziaria ostativa; e ciò, in forza della granitica giurisprudenza di legittimità da tempo formatasi sul punto.

La Consulta individua la sentenza n. 32/2020 quale precedente rilevante per la soluzione della questione: la Corte riconosce che, effettivamente, «prima di tale sentenza, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità era costante nel senso della non riconducibilità all’alveo dell'articolo 25, secondo comma, Cost. delle norme sull’esecuzione della pena, e conseguentemente nel senso della pacifica applicabilità di modifiche normative di segno peggiorativo anche ai condannati che avessero commesso il reato prima dell’entrata in vigore delle modifiche stesse».

Tuttavia, la citata sentenza «ha modificato il principio espresso dal diritto vivente» e perciò, in assenza di disposizioni di diritto intertemporale in seno al decreto-legge n. 7/2015, «nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena […] così come declinato da questa Corte».

La Consulta, in definitiva, rileva la forza conformativa che il proprio precedente ha esercitato sul diritto vivente. In questo senso, appare degna di nota la tecnica decisoria adottata: scegliendo una strada diversa da quella percorsa in occasione della sentenza n. 32/2020, la Corte ritiene che non sia necessario assumere una nuova decisione di accoglimento e dichiara, al contrario, l’infondatezza delle questioni «nei sensi di cui in motivazione», affermando comunque esplicitamente che «l’art. 3-bis, comma 1, del d.l. n. 7 del 2015 dovrà dunque trovare applicazione ai soli fatti di reato commessi successivamente alla sua entrata in vigore con riferimento alla disciplina del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione».

 

2. Anche l’ordinanza n. 183/2020 si occupa del regime ostativo imposto dall’art. 4-bis ordin. penit. al delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: in questo caso, però, la Corte costituzionale esamina le questioni sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Lecce, chiamato a delibare l’istanza di concessione di permesso premio ex art. 30-ter ordin. penit. avanzata da un condannato per fatti di cui all’art. 12 T.u. immigrazione, commessi e giudicati – anche in questo caso – prima dell’entrata in vigore delle modifiche peggiorative introdotte all’art. 4-bis ordin. penit. ad opera del d.l. 7/2015.

La Corte, nel dare conto degli argomenti spesi dalle parti costituite avanti a sé, rileva come la sentenza n. 32/2020 non abbia direttamente risolto i profili di illegittimità evocati dal Magistrato di sorveglianza di Lecce, dato anzi che, in quel contesto, si sono ritenuti «sottratti alla garanzia di irretroattività dell’art. 25, secondo comma, Cost. i riverberi sulla concedibilità del permesso premio derivanti dall’inclusione di nuovi titoli di reato nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.». In buona sostanza, la disciplina dei permessi premio è rimasta – anche dopo la sentenza n. 32 del 2020 – quella in vigore al momento dell’esecuzione della pena, anche se più sfavorevole per il condannato rispetto a quella vigente al momento del fatto.

Ciononostante, i giudici delle leggi rilevano come «risult[i] evidente che le censure [del rimettente] sono strettamente intrecciate con il tema dell’assolutezza della presunzione di perdurante pericolosità sociale del condannato che l'articolo 4-bis, comma 1, ordin. penit. riconnetteva alla mancata collaborazione con la giustizia». Tale presupposto interpretativo è però «profondamente modificato dalla sopravvenuta sentenza n. 253 del 2019, che ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. proprio per quel che attiene all’assolutezza di tale presunzione».

Come si ricorderà, in effetti, la sentenza n. 253 del 2019[2] ha ritenuto costituzionalmente illegittima la presunzione assoluta di perdurante pericolosità sociale contenuta nell’art. 4-bis ordin. penit., e correlata alla mancata collaborazione con la giustizia (art. 58-ter ordin. penit.), concedendo anche ai condannati per reati c.d. “ostativi” che non abbiano collaborato con la giustizia la possibilità di beneficiare di un permesso premio «allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti».

La Corte dispone pertanto la restituzione degli atti al rimettente, invitandolo implicitamente a valutare se – ove sussistano i presupposti fissati dalla sentenza n. 253 del 2019 – il condannato possa comunque essere ammesso al permesso premio richiesto.

 

3. Poche battute, infine, sull’ordinanza n. 184/2020: esattamente com’è accaduto in occasione della sentenza n. 32/2020 e dell’ordinanza n. 49/2020, la Corte costituzionale – oggi adita da ben sette ordinanze di rimessione, pronunciate da quattro diversi giudici dell’esecuzione – è stata nuovamente chiamata a vagliare la legittimità costituzionale dell’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione (avvenuto ad opera della legge c.d. “spazzacorrotti”, in assenza di qualsiasi disposizione di diritto intertemporale) all’interno del catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., con particolare riferimento – per ciò che qui rileva – alla disciplina del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.

Nell’odierna decisione, la Consulta si limita a ricordare quanto affermato nella sentenza n. 32/2020, dalla quale è derivato il divieto di applicazione retroattiva delle modifiche in peius apportate al citato art. 4-bis ordin. penit. anche in relazione alla disciplina, poc’anzi indicata, del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione: rilevato che tutti i giudizi a quibus risultano pendenti nei confronti di condannati per fatti commessi in epoca anteriore alla legge “spazzacorrotti”, la Corte restituisce gli atti ai giudici rimettenti affinché valutino autonomamente l’incidenza della sopravvenuta pronuncia nei giudizi di loro competenza, così suggerendo – seppur implicitamente – la suscettibilità di sospensione degli ordini di esecuzione in tutti i giudizi a quibus.