Scheda  
13 Ottobre 2021


Osservatorio Corte EDU: settembre 2021


Alessandro Faina
Serena Chionna

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale


A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Serena Chionna (artt. 5, 6 e 8 Cedu) e Alessandro Faina* (artt. 8 e 10 Cedu)

In settembre abbiamo selezionato pronunce relative a: ingiustificato ritardo nella revoca di un mandato di cattura (art. 5 Cedu); declaratoria di inammissibilità del ricorso in Cassazione viziata da eccessivo formalismo (art. 6 Cedu); inefficace prevenzione e repressione di condotte reiterate di cyberviolence (art. 8 Cedu); sproporzione dell’espulsione e del divieto di reingresso disposti a seguito di condanna penale (art. 8 Cedu); compatibilità con la libertà di espressione della condanna penale del titolare di account Facebook liberamente accessibile al pubblico per mancata cancellazione di post incitanti all’odio o alla violenza razziale (art. 10 Cedu).

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, 21 settembre 2021, Kerem Çiftçi c. Turchia

Diritto alla libertà e alla sicurezza – detenzione in custodia di polizia sulla base di un mandato di cattura già revocato – ritardo nell’esecuzione della revoca del mandato – violazione

Nell’ambito di un’indagine sul Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), il tribunale turco aveva emesso un mandato di arresto a carico del ricorrente al fine di ottenere dichiarazioni concernenti le accuse mosse nei suoi confronti (minaccia all’unità dello Stato, partecipazione ad un’organizzazione terroristica e danneggiamento di proprietà pubbliche e private). Qualche mese più tardi, a seguito di un deferimento di giurisdizione, la Corte territoriale raccoglieva in udienza le dichiarazioni dell’accusato e richiedeva al pubblico ministero il ritiro del mandato d’arresto prima della sua esecuzione (§ 7). Nonostante tale decisione fosse stata trasmessa all’ufficio del procuratore capo, il ricorrente apprendeva di essere ricercato dalla polizia. Insieme al suo avvocato, quindi, si presentava in questura dove, alle 11.50 circa, senza alcuna motivazione e nonostante avesse con sé la decisione di revoca del mandato di arresto, veniva trattenuto in custodia. Come risulta dal verbale di rilascio, il ricorrente era stato deferito all’ufficio del pubblico ministero, esaminato da un medico legale e, successivamente, rilasciato (introno alle 13 e 50). Presentava, quindi, una richiesta di risarcimento per detenzione illegale che veniva respinta dalle corti interne in ragione della brevità della permanenza in vinculis, considerata tutto sommato giustificabile, in virtù del tempo fisiologicamente necessario per lo svolgimento degli adempimenti istituzionali e burocratici necessari per la revoca del mandato di arresto. La Corte di Strasburgo, adita dal ricorrente, ha ribadito che l’art. 5 comma 1 Cedu richiede che qualsiasi detenzione debba essere “legittima”, rispetto alle norme sostanziali e procedurali interne, e, in ogni caso, non arbitraria (§ 27). A questo proposito, la C.edu ha affermato che quando la privazione della libertà personale non trova, fin dall’inizio, un fondamento giuridico, è necessario un approccio rigoroso nel verificare la violazione. Nel caso di specie, la Corte europea ha constatato che i giudici nazionali, nel respingere la richiesta di risarcimento, si erano basati esclusivamente sulla brevità dell’ingiusta detenzione, senza fornire alcuna motivazione che giustificasse il ritardo nella comunicazione della revoca del mandato di arresto (§ 31). In ogni caso, la Corte di Strasburgo ha sostenuto che né il termine per l’attuazione della revoca del mandato previsto dalla normativa interna, né il periodo relativamente “breve” (1 ora e 35, circa) possono in alcun modo giustificare l’illegittimità della detenzione subìta (§§ 31-34). Per questi motivi, nel caso di specie è stata riconosciuta la violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu (§ 34). (Serena Chionna)

 

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 21 settembre 2021, Willems e Gorjon c. Belgio

Equità processuale – diritto d’accesso al tribunale – inammissibilità del ricorso per Cassazione per violazione di norme procedurali – formalismo eccessivo - violazione

I ricorrenti proponevano, tramite il loro difensore, ricorso per Cassazione avverso la sentenza di condanna emessa nei loro confronti per diversi illeciti di natura tributaria. La Corte di cassazione belga dichiarava tali ricorsi inammissibili poiché non era stato depositato, entro i termini previsti dalla normativa interna, il certificato di formazione richiesto per gli avvocati patrocinanti in Cassazione ai sensi dell’art. 425 §1 comma 2 del Code d’instruction criminelle (§ 11).  Entrambi i ricorrenti si sono rivolti alla C.edu, sostenendo che il rigetto dei loro ricorsi era dovuto a un eccesso di formalismo che li aveva privati del diritto di accesso alla Corte di cassazione. L’avvocato, infatti, pur non avendolo tempestivamente prodotto, era in possesso del certificato richiesto dalla normativa processuale interna. Nella sentenza in commento, i giudici di Strasburgo hanno ribadito che il diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’art. 6 comma 1 Cedu, deve essere concreto ed effettivo e non teorico e illusorio (§ 77). Per questa ragione, le norme che limitano l’accesso a un tribunale e le procedure che disciplinano l’esercizio del potere di impugnazione devono essere chiare e prevedibili agli occhi del ricorrente, nonché proporzionate dal punto di vista delle conseguenze che derivano dalle violazioni di norme processuali (§§ 79-80). Nel caso di specie, la Corte europea ha rilevato, in primo luogo, che il deposito del certificato che attesta la formazione dell’avvocato non era previsto a pena di inammissibilità del ricorso dal codice di rito e che, pertanto, non era sufficientemente prevedibile. In secondo luogo, ha constatato che la titolarità del certificato era facilmente reperibile mediante lo stesso sito web della Corte di cassazione belga (§§ 83-86). Alla luce di tutto ciò, la Corte europea ha ritenuto l’atteggiamento del giudice belga eccessivamente formalistico, in quanto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso rappresenta una conseguenza sproporzionata rispetto all’esiguità dell’errore procedurale commesso (§ 88). Stante la lesione del giusto equilibrio tra il rispetto degli obblighi formali e il diritto di accesso al giudice, si è verificata una violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. (Serena Chionna)

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Violazione della difesa tecnica ed equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1211; G. Sorio, Diritto al doppio grado di giudizio e prevedibilità dei suoi limiti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1563.

 

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 14 settembre 2021, Volodina c. Russia (n° 2)

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – obblighi positivi – inerzia e ritardi nelle indagini da parte delle autorità russe su condotte reiterate di cyberviolence – prescrizione del reato – violazione

La ricorrente, vittima di reiterate violenze domestiche e online da parte dell’ex compagno, si era già rivolta in precedenza alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale aveva condannato lo Stato russo in quanto riconosciuto privo di un quadro giuridico capace di offrire adeguata protezione a tali gravi forme di ingerenza nella vita privata ex art. 8 Cedu (C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 9 luglio 2019, Volodina c. Russia). Nella decisione in commento, la Corte di Strasburgo è stata invece chiamata a verificare se le modalità con le quali è stata applicata la legislazione russa in materia abbiano dato luogo a una nuova violazione del dettato convenzionale. La Corte europea ha ribadito, anzitutto, che il concetto di vita privata include l’integrità fisica e psichica di una persona, che gli obblighi di protezione derivanti dall’art. 8 Cedu sono validi anche se la minaccia proviene da soggetti privati, e che la violenza online è strettamente collegata alla violenza “reale” e va considerata come un aspetto ulteriore del complesso fenomeno della violenza domestica (§§ 47 e 48). Posta l’indubbia applicabilità dell’art. 8 Cedu al caso di specie, la Corte europea ha rimarcato come gli obblighi discendenti da tale articolo non si limitano all’istituzione di un quadro giuridico adeguato, ma impongono anche che questo sia attuato con misure ragionevoli e con indagini efficaci sugli atti di violenza (§ 49). A questo riguardo, la Corte ha constatato, in primo luogo, che la risposta delle autorità russe al rischio di violenza è stata manifestamente inadeguata a causa dell’inerzia nella conduzione delle indagini e della mancata adozione di misure dissuasive (§ 61). In secondo luogo, ha rilevato che il procedimento penale era stato avviato con indebito ritardo, così che il reato si era inevitabilmente prescritto (§ 62-67). La Corte di Strasburgo ha, quindi, ravvisato un’ulteriore violazione dell’art. 8 Cedu e degli obblighi positivi che da questa discendono in capo agli Stati. (Serena Chionna)

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1192; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli organi inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. it. dir. pen., 2020, p. 2112.

 

C. edu, sez. II, 14 settembre 2021, Abdi c. Danimarca

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – esplusione dello straniero all’esito di procedimento penale – proporzionalità dell’espulsione in combinazione con divieto di reingresso permanente – violazione

Il ricorrente, cittadino somalo residente in Danimarca, lamentava la violazione da parte delle autorità danesi del diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 Cedu, in relazione al provvedimento di espulsione con contestuale divieto di reingresso permanente, emesso nei suoi confronti all’esito di un procedimento penale per porto illegale di arma da fuoco (§§ 1, 6, 7, 9, 10, 11, 27). La Corte ha innanzitutto rilevato che vi è stata un’interferenza delle autorità nel diritto del ricorrente al rispetto della propria vita privata ex art. 8 Cedu, e che tale interferenza era prevista dalla legge e finalizzata al legittimo scopo di prevenire disordini e crimini (§ 30). Con riferimento alla necessità dell’interferenza in una società democratica, i giudici di Strasburgo hanno osservato come le autorità giudiziarie danesi avessero rilevato l’esistenza di gravissime ragioni giustificative del provvedimento di espulsione all’esito di uno scrupoloso esame di ciascun criterio previsto dalle disposizioni normative vigenti in materia (§ 32). Nell’esaminare se tali gravissime ragioni fossero state correttamente addotte dai tribunali domestici, la Corte si è soffermata in particolare sulla proporzionalità del provvedimento di espulsione con divieto di reingresso permanente rispetto all’esigenza di prevenire disordini e crimini, cui tale provvedimento era finalizzato (§ 38). Secondo i giudici di Strasburgo, il fatto che le precedenti condanne riportate dal ricorrente non ne indicassero una particolare pericolosità sociale, nonché la circostanza che il ricorrente non avesse in passato ricevuto ammonimenti preliminari o provvedimenti di espulsione condizionale, unitamente ai suoi forti legami con la Danimarca, hanno determinato la mancanza di proporzionalità del provvedimento di espulsione e del divieto di reingresso permanente disposti nei suoi confronti (§§ 40, 41, 43, 44). La Corte Europea ha quindi ravvisato la violazione dell’art. 8 Cedu da parte delle autorità danesi (§ 45). (Alessandro Faina)*

Riferimenti bibliografici: S. Santini, Espulsione di stranieri affetti da gravi patologie: una pronuncia coraggiosa della Corte di Strasburgo, in RIDPP 1 (2017), 360.

 

 

ART. 10 CEDU

C. edu, sez. V, 2 settembre 2021, Sanchez c. Francia

Libertà di espressione – condanna penale del titolare di account Facebook liberamente accessibile al pubblico per mancata cancellazione di post incitanti all’odio o alla violenza razziale – proporzionalità – no violazione

Il ricorrente, cittadino francese che all’epoca dei fatti ricopriva una carica politica locale ed era candidato alle elezioni legislative, lamentava la violazione della propria libertà di espressione da parte delle autorità francesi, in relazione alla condanna penale inflittagli per incitamento all’odio e alla discriminazione razziale a causa di alcuni post pubblicati da terzi sulla bacheca del suo account Facebook (§§ 1, 48). La Corte, dopo aver rilevato come l’interferenza nella libertà di espressione del ricorrente fosse prevista dalla legge (§§ 70‑73) e finalizzata allo scopo legittimo di proteggere la reputazione altrui (§ 74), è passata ad esaminare se la decisione delle autorità domestiche fosse basata su motivi pertinenti e sufficienti e se la sanzione comminata al ricorrente fosse proporzionata ai fatti contestatigli, al fine di determinare se l’interferenza fosse necessaria in una società democratica (§ 80). Secondo i giudici di Strasburgo, la natura illecita dei commenti pubblicati sulla bacheca dell’account Facebook del ricorrente (§ 81) – che non potevano trovare giustificazione nel dibattito politico in periodo pre-elettorale (§§ 84, 89) – nonché la loro mancata cancellazione da parte del ricorrente nonostante lo stesso fosse consapevole che la propria bacheca era liberamente accessibile al pubblico (§§ 95, 97), hanno costituito motivi pertinenti e sufficienti a legittimare la condanna del ricorrente, che ha dunque rappresentato un’interferenza necessaria in una società democratica (§ 104). La Corte europea, dopo aver altresì riscontrato la proporzionalità della pena pecuniaria comminata al ricorrente (§ 103), non ha pertanto ravvisato alcuna violazione della libertà d’espressione ex art. 10 Cedu da parte delle autorità francesi (§ 105). (Alessandro Faina)*

Riferimenti bibliografici: G. Spinelli, La tutela della pace religiosa interna può giustificare limitazione alla libertà di espressione, in RIDPP 1 (2019), 666; L. Rossi, Dall’uso all’abuso: quando la libertà di espressione sconfina nel negazionismo, in RIDPP 1 (2020), 369.

 

*The views expressed herein are those of the author and do not necessarily reflect the views of the Special Tribunal for Lebanon.