Scheda  
22 Luglio 2022


La difficile posizione delle vittime di violenza sessuale: l’insostenibile confronto con il pregiudizio sulla scarsa attendibilità della persona offesa e lo stereotipo dello stupratore modello


Elena Biaggioni

C. app. Torino, Sez. IV penale, sent. 31 marzo 2022 (dep. 20 aprile 2022), n. 2277


1. È di particolare interesse la sentenza della Corte di Appello di Torino del 31 marzo 2022 qui pubblicata perché, se da un lato arricchisce la riflessione che abbiamo avviato, sin dal primo numero dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, sul tema della violenza sessuale e del suo accertamento in sede giudiziaria, dall’altro lato offre l’ennesima testimonianza della difficoltà con la quale gli insegnamenti della Corte di Cassazione – così come quelli della Corte Europea dei Diritti Umani  riescono ad affermarsi nella giurisprudenza di merito.

2. Il fatto oggetto del giudizio ha come protagonista un giovane uomo che, avendo accompagnato per gentilezza fino alla soglia del bagno di un locale pubblico una amica di vecchia data, tra l’altro non in gran forma per le numerose bevande alcoliche assunte insieme nel corso del pomeriggio, si approfittava della situazione precaria nella quale la donna si trovava (si trattava di un bagno alla turca, situato in un locale «di dimensioni molto anguste», che le avevano impedito di portare con sé la borsa, trovandosi poi nella necessità di chiedere all’amico, che stava dietro la porta socchiusa, che le passasse dei fazzoletti di carta presenti nella borsa stessa) per introdursi anche lui nel bagno e costringere la donna a subire atti sessuali. Benché in passato tra i due amici ci fosse stata qualche effusione, era chiaro ad entrambi che la donna non era disponibile ad intraprendere una relazione con l’amico, da lui invece desiderata, come le aveva espressamente dichiarato proprio quel giorno.

Secondo la ricostruzione offerta nella sentenza, il giudice di primo grado aveva ritenuto la persona offesa attendibile e valorizzato il suo racconto anche grazie ai riscontri esterni: la coincidenza del racconto da lei fatto al Pronto soccorso, poi alle Forze dell’Ordine, alle amiche e alla sorella, così come, per altro verso, con la testimonianza della dipendente del locale pubblico, che confermava che la ragazza non stava bene prima di andare in bagno. Il giudice riportava anche la versione offerta dall’imputato, e perveniva tuttavia alla sua condanna, osservando che la reazione della giovane escludeva la consensualità dell’atto e che le aporie nel suo racconto non erano tali da incidere sulla sua attendibilità. Riteneva inoltre che non ci fossero ragioni di acredine che potessero portare la donna ad accusare falsamente l’imputato.

3. L’appello proposto dalla difesa dell’imputato si è concluso con la riforma della sentenza di primo grado e quindi con una pronuncia di assoluzione. La sentenza, tuttavia, sembra discostarsi da molti principi consolidati in materia di consenso agli atti sessuali, di valutazione della prova e in particolare di valutazione dell’attendibilità della persona offesa nei processi per violenza sessuale. Sorprende per il vero l’assenza di qualsiasi riferimento espresso a norme o a orientamenti giurisprudenziali. La decisione della Corte si snoda in una sorta di narrazione alternativa rispetto alle dichiarazioni della persona offesa, in presenza di due versioni dei fatti contrapposte: quella della vittima e quella resa dall’imputato. Non vi sono riferimenti espressi al vaglio di credibilità della persona offesa o all’attendibilità delle sue dichiarazioni. Sono piuttosto riportate asserzioni e valutazioni, probabilmente quelle che la Corte ritiene massime di esperienza, che non sono peraltro mai esplicitate.

La Corte di Cassazione ha in proposito più volte affermato che la decisione può avvalersi e basarsi su valutazioni di carattere logico, massime di esperienza o fatti notori, che devono però essere espressamente indicati nella motivazione. Sono ovviamente principi necessari a tratteggiare l’interpretazione del piano normativo, ma servono anche ad esplicitare la tenuta logico argomentativa della valutazione operata dal giudicante. Nella sentenza allegata si leggono frasi come queste: «È sorprendente che dopo avere passato tutto un pomeriggio in un bar, alla [persona offesa] sia insorto il bisogno fisiologico, non appena si allontanarono dal bar dove avevano sostato una buona parte del pomeriggio»; ancora, e con riferimento all’imputato: «trattasi di comportamento che sembra molto lontano da quello che caratterizza lo stupratore». Entrambe le “massime” mostrano limiti logici (cosa c’è di sorprendente nel rendersi conto del bisogno di andare in bagno subito dopo aver lasciato un bar e dopo aver bevuto molto?) e gravi stereotipi sullo stupro (quale sarebbe il comportamento che caratterizza lo stupratore?)[1]. La stessa formulazione lessicale della sentenza è in alcuni passaggi puramente narrativa: perché mai la Corte ripete ben tre volte l’espressione «Si badi?». A chi si rivolge?

La condotta della vittima viene analizzata e le si addossano delle responsabilità: quando richiese di accedere al bagno, «provocò l’avvicinamento [dell’amico]»; poi «si trattenne nel bagno, senza chiudere la porta, così da fare insorgere l’idea che questa fosse l’occasione propizia che la giovane gli stava offrendo»; in seguito «la [persona offesa] non cacciò [l’amico] (…) lo invitò a chiamare i suoi familiari e non disdegnò affatto che lui le stesse vicino, fino all’arrivo dei suoi zii». La motivazione mostra di parametrare la condotta della persona offesa a una condotta tipica o ideale della vittima di stupro, discostandosi tra l’altro dal costante orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale non è possibile desumere il consenso della persona offesa dai suoi comportamenti successivi alla violenza[2].

Interessante è anche il fatto che lo stato di ubriachezza della vittima, ritenuto pacifico dalla Corte di appello, non sia minimamente considerato né per la qualificazione del fatto entro l’ipotesi di cui all’art. 609-bis n. 2 c.p., come più volte affermato dalla Cassazione[3], né in relazione alla possibilità che essa fosse in condizioni tali da poter esprimere il proprio consenso agli atti sessuali. È proprio la Corte ad affermare che: «è certo che al momento dei fatti era alterata per un uso smoderato di alcool. È quindi altamente probabile che non fosse pienamente in sé»; ancora, con riguardo al «rapidissimo atto sessuale», si dice che «la stessa [persona offesa] non è stata in grado di descriver[lo], a causa del suo stato di alterazione (per sua stessa ammissione ai medici del PS)». Vale la pena a questo proposito ricordare ciò che l’art. 36 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza domestica e di genere (c.d. Convenzione di Istanbul) richiede, affinché si possa escludere la sussistenza della violenza sessuale (anche nella forma dello stupro): «il consenso deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto». D’altra parte, e sulla stessa linea, proprio con riguardo all’ipotesi del compimento di atti sessuali ai danni di donna ubriaca o drogata, la Corte di Cassazione già dal 2017 ha avuto modo di sottolineare la necessità di considerare nella motivazione «se al momento dei fatti la ragazza era o no capace di esprimere il consenso»[4].

Niente si dice, invece, - sia detto per inciso - su un aspetto del comportamento dell’uomo, che pure avrebbe potuto assumere rilevanza nella ricostruzione di quanto accaduto: il fatto, cioè, che «da quel giorno l’imputato non si fece più vedere». Secondo la logica dello stupratore modello assunta dalla Corte, si tratta di un comportamento molto frequente, che testimonia dell’indifferenza nei confronti della vittima dell’aggressione sessuale oppure - come forse anche nel caso qui in esame – della vergogna e del senso di colpa per aver usato violenza su una persona amica, in quanto tale priva di difese (e magari anche in condizioni di difficoltà), per soddisfare un proprio desiderio che, evidentemente, si sapeva in partenza non essere condiviso.

Viceversa, si legge nella sentenza che l’imputato avrebbe agito «nella consapevolezza di non aver fatto nulla di male, ma di aver semplicemente equivocato la volontà della giovane», sì da giustificare la sua assoluzione perché il fatto non costituisce reato, per mancanza dell’elemento soggettivo. L’asserito equivoco sulla volontà della donna, basato sul fatto che «la giovane abbia dato delle speranze, facendosi accompagnare in bagno, facendosi sporgere i fazzoletti, tenendo la porta socchiusa, aperture lette certamente dall’imputato come un invito ad osare», meritava tuttavia almeno un cenno di spiegazione su come egli avesse potuto interpretare quei comportamenti come consenso agli atti sessuali, considerato lo stato di ubriachezza manifesta nel quale l’amica si trovava.

 

 

 

[1] Si veda in proposito l’Opinion del Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) in Vertido vs. Philippines, pubblicata in italiano (traduzione non ufficiale a cura di E. Biaggioni e S. Lupi) in C. Pecorella (a cura di), Donne e Violenza. Stereotipi culturali e prassi giudiziarie, Giappichelli, 2021, p. 113 ss.

[3] Nel senso che lo stato di incoscienza o, comunque, di inferiorità della vittima anche conseguente all’assunzione spontanea di alcolici, rientri tra le condizioni di «inferiorità psichica o fisica» previste dall’art. 609-bis n. 2 c.p., Cass. III, 21 giugno 2021, n. 24865, che cita a sua volta: Cass. III, 13 febbraio 2018, n. 16046, S., CED 273056; Cass. III, 21 giugno 2016, n. 39800, C., CED 267757; Cass. III, 5 dicembre 2019, n. 8981, H., CED 27840.

[4] Cfr. Cass. III, 11 gennaio 2017, n. 45589.