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08 Novembre 2021


Stragi mafiose e responsabilità dei mandanti: la Corte nissena ravvisa (con qualche difficoltà) il concorso morale anche di Matteo Messina Denaro

C. ass. Caltanissetta, sent. 20 ottobre 2020 (dep. 19 agosto 2021), Pres. Serio, Est. Serio-Petralia, imp. Messina Denaro



1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’assise di Caltanisetta ha per la prima volta condannato all’ergastolo anche l’allora vertice della c.d. commissione provinciale mafiosa trapanese, Matteo Messina Denaro, per le stragi di Capaci e di Via d’Amelio ordite e realizzate dai clan corleonesi, ritenendo provato con certezza il suo coinvolgimento nelle fasi deliberative iniziali.

Come ogni decisione chiamata a ricostruire tramite le lenti del diritto e del processo penale mandanti ed esecutori materiali di quei tragici attentati mafiosi dei primi anni Novanta, nonché i protagonisti di altri accadimenti collaterali ad essi strettamente connessi, anche questa ha alimentato narrazioni pubbliche dai contenuti e dai toni diametralmente opposti.

Da un lato, c’è chi ha tessuto le lodi di una sentenza finalmente in grado di fare luce su anni bui della storia repubblicana e su uno dei pochi grandi boss ancora in libertà, esaltando le capacità dei giudici e delle strutture investigative antimafia nel ricostruire in maniera cartesiana, anche a distanza di lungo tempo, i luoghi ed i momenti cruciali in cui sono state adottate dai vertici di alcune delle principali consorterie mafiose siciliane le decisioni stragiste[1], e, dall’altro, chi ha apertamente criticato il provvedimento giudiziario, tacciandolo di aver provato a riscrivere la storia cercando un capro espiatorio comodo come un latitante di lungo corso impossibilitato a difendersi dalle accuse e considerandolo l’ennesimo prodotto di una antimafia più retorica che reale[2].

In ambo i casi, il fuoco dell’attenzione è stato appuntato sui passaggi mediaticamente più suggestivi della decisione di primo grado concernenti la trattativa Stato-mafia, seppure del tutto secondari (per non dire praticamente irrilevanti) nel percorso argomentativo seguito dalla densa parte motiva delle conclusioni in fatto e in diritto, rischiando così di deformarne i contenuti, fuorviarne la valutazione ed allungare ombre sulla fondatezza anche di questo processo. È appena il caso di osservare che le pronunce delle Corti nissena e palermitana, rispettivamente sulle stragi e sulla c.d. trattativa, pur concernendo fatti storicamente coevi e tra loro correlati, non possono e non devono essere accomunate per le evidenti differenze nelle impostazioni accusatorie, nei fatti accertati, nei delitti contestati e nei ragionamenti probatori seguiti in sede di giudizio[3].

In questa circostanza, invece, ciò che deve essere oggetto di discussione e riflessione sono le interessanti statuizioni in punto di diritto della sentenza in commento e, precisamente, il riconoscimento della corresponsabilità per le stragi mafiose di un vertice di una commissione provinciale diversa da quella dei corleonesi ai sensi del combinato disposto degli artt. 110 e 422, comma 1, c.p.

Tralasciando ogni altra considerazione meta-giuridica, dunque, è su questi aspetti che occorre soffermare lo sguardo per evidenziare gli snodi principali dell’articolato ed originale ragionamento seguito dalla Corte per fondare la propria decisione e per segnalarne, al contempo, talune sue criticità.

 

2. In questa prospettiva, i punti più interessanti della sentenza sono essenzialmente due:

a) la previa qualificazione delle drammatiche vicende di Capaci e via D’Amelio ai sensi del delitto di strage di cui all’art. 422, comma 2, c.p., piuttosto che di quello di omicidio plurimo di cui all’art. 575 c.p.;

b) la successiva ascrizione di tale fattispecie ai sensi dell’art. 110 c.p., sub specie concorso morale, anche a Matteo Messina Denaro, apicale di una commissione provinciale diversa da quella ideatrice ed esecutrice degli ‘omicidi eccellenti’ di Falcone e Borsellino.

Sullo sfondo si staglia anche un terzo aspetto problematico di non secondo momento, di carattere però prevalentemente processuale, relativo alla prova indiretta ed al ragionamento inferenziale che non può essere approfondito in questa sede, ma che sicuramente meriterebbe di essere affrontato fundite.

 

3. Sotto il primo profilo, la sentenza – dopo aver operato una complessa ed analitica ricostruzione dei fatti storici posti alla base della decisione e, soprattutto, dei rapporti illo tempore esistenti tra le cosche delle diverse aree siciliane e tra i loro apicali, grazie anche alla comprovata esistenza di organi di autogoverno regionali con poteri deliberativi sulle vicende più rilevanti – procede ad una attenta attività di sussunzione degli attentati dell’epoca decisi in quelle sedi inter-provinciali nel delitto di strage di cui all’art. 422, comma 1, c.p. in modo da fissare preliminarmente la fattispecie rispetto alla quale verificare l’apporto eziologico consapevole, penalmente rilevante ai sensi dell’art. 110 c.p., fornito da Messina Denaro.

Con una argomentazione rigorosa e lineare, chiarisce la differenza strutturale – nonostante l’apparente sovrapponibilità – tra il delitto di strage e quello di omicidio doloso plurimo, per un verso, segnalando che il primo si caratterizza rispetto al secondo sul versante oggettivo per la presenza tra gli elementi costitutivi del pericolo (concreto) per l’incolumità pubblica, richiedendo, quindi, per la sua configurabilità che sia sempre accertato tale aspetto tenendo conto “delle modalità esecutive della condotta e delle circostanze ambientali che la caratterizzano” (p. 952) e, per altro verso, precisando che il delitto di strage è contraddistinto sul piano soggettivo da un doppio dolo, diretto e specifico, ed esige, dunque, tanto la volontà di compiere atti idonei a mettere in pericolo la pubblica incolumità, quanto il fine di attentare alla vita di una o più persone (954)[4].

Sulla scorta di tale actio finium regondurum, si arriva alla logica conclusione di ritenere sussumibili gli attentati ascritti all’imputato a titolo concorsuale nel delitto di strage di cui all’art. 422, comma 1, c.p., peraltro in conformità a quanto già fatto in passato dalla Corte di Cassazione in altre sentenze ad esse inerenti per diversi imputati[5], dal momento che i mezzi utilizzati, in primis le ingenti quantità di tritolo, e tutte le altre modalità dell’azione denotano in modo inequivoco sia la loro oggettiva potenzialità lesiva per l’incolumità pubblica, sia la finalità di causare la morte di un numero indeterminato di persone.

 

3.1. Risulta, invece, troppo risoluto il passaggio successivo, relativo alla costatazione della mancata maturazione della prescrizione per i delitti contestati. Ed invero, lasciando irrisolto il dibattito sulla natura giuridica autonoma o circostanziale dell’art. 422, comma 1, c.p., si afferma correttamente con nettezza che, in ogni caso, comunque si qualifichi questa fattispecie da un punto di vista dommatico, la regola della imprescrittibilità dei reati puniti con la pena dell’ergastolo si applicherebbe sempre in questo caso, pur essendo stati commessi i fatti di strage in oggetto anteriormente alla novella legislativa di cui alla l. 5 dicembre 2005, n. 251, con cui la stessa regola è stata espressamente sancita, dopo che, in passato, era stata ricostruita interpretativamente, con un ragionamento a fortiori, dalla previsione della regola opposta della prescrittibilità rispetto ai soli reati puniti con pene di durata o pecuniarie.

La loro imprescrittibilità, difatti, viene desunta in modo non del tutto lineare, da un lato, richiamando una decisione della Corte di Cassazione del 2016 relativa ad un caso di strage per il quale, all’esito del giudizio di bilanciamento delle circostanze, era stata inflitta una pena detentiva di durata in luogo dell’ergastolo e, dall’altro, in modo ancor più forzato[6], evocando l’art. 7, § 2 CEDU, nella parte in cui stabilisce una deroga alla operatività del principio di retroattività della lex mitior per i crimini contro l’umanità (p. 953).

In realtà, entrambi questi passaggi non sono del tutto convincenti, sebbene le conclusioni sulla imprescrittibilità siano esatte e condivisibili.

In primo luogo, sarebbe stato opportuno richiamare a sostegno della tesi della imprescrittibilità dei delitti in questione, piuttosto che la decisione di legittimità dello stesso anno menzionata dalla sentenza in commento inerente ad un analogo caso relativo ad un delitto di strage, la pronuncia delle Sezioni unite del 2015 con cui è stato affermato, in via generale, che la disciplina introdotta con la c.d. legge ex-Cirielli del 2005 nell’art. 157 comma 8 c.p. sulla imprescrittibilità dei delitti puniti astrattamente con la pena dell’ergastolo (a prescindere dalla loro natura autonoma o circostanziale), deve valere sempre, anche per i fatti pregressi ai quali è stata applicata in concreto una pena detentiva temporanea in presenza del riconoscimento di una circostanza attenuante[7].

Sulla scorta di questo principio di diritto, infatti, si sarebbe sostenuta ancora più agevolmente la mancata decorrenza dei termini di prescrizione per il delitto in parola; se per il massimo organo nomofilattico nella sua più autorevole delle composizioni sono imprescrittibili i fatti pregressi astrattamente puniti con l’ergastolo, ma in concreto puniti con pena a tempo determinato, a maggior ragione lo devono essere quei fatti commessi prima dell’entrata in vigore della novella del 2005, come quelli oggetto della decisione, rispetto ai quali non è stata riconosciuta alcuna attenuante prevalente o equivalente sulle concorrenti aggravanti e la pena effettivamente irrogata è quella perpetua.

Se già, dunque, poteva risultare incontrovertibilmente provata la mancata prescrizione delle stragi oggetto del processo, a maggior ragione sembra poco pertinente il successivo richiamo all’art. 7 § 2 CEDU quale ulteriore argomento ad adiuvandum, perché ne amplifica la portata e la funzione ben oltre quella del tutto residuale ed eccezionale riconosciutagli dal diritto convenzionale europeo.

In primo luogo, difatti, il delitto di strage non pare ascrivibile nella ristrettissima categoria dei crimini contro l’umanità manifestamente ingiusti per i quali non vale la garanzia dell’irretroattività, dal momento che al suo interno vengono tendenzialmente ascritti reati gravissimi di matrice, prevalentemente, politico-ideologica e perpetrati dallo Stato in danno di fasce della popolazione dietro l’usbergo del potere e della previsione di norme speciali che li facoltizzano, come, ad esempio, il genocidio, i crimini di guerra e la tortura.

Tale impressione è vieppiù rafforzata da una recente decisione della Corte EDU che ha addirittura affermato che la ratio sottesa al § 2 dell’art. 7 CEDU sia esclusivamente quella di legittimare la punizione degli efferati crimini rimasti impuniti durante e per via della Seconda Guerra Mondiale, e non vada interpretata invece come deroga generale al principio di irretroattività applicabile ogniqualvolta una condotta sia qualificabile come crimine secondo i principi del diritto internazionale. Al più, secondo parte della dottrina, la regola potrebbe essere estesa in futuro a quei crimini, analoghi a quelli perpetrati in epoca nazista, che rimarrebbero altrimenti impuniti per via dell’incapacità e dell’instabilità politica nazionale di un paese membro, a patto ovviamente che tali crimini siano così gravi da essere riconosciuti dall’intera comunità internazionale[8].

Se l’eccezione al comma 1 dell’art. 7 CEDU, dunque, vede il proprio ambito circoscritto in base alle contingenze storiche da cui è stato dettato o a situazioni analoghe, e non è applicabile al di fuori di esse, sicuramente non potrebbe essere invocata nel caso in esame[9].

In questa circostanza non si discorre di punibilità sopravvenuta di fatti gravissimi lasciati, per scelte arbitrarie del legislatore pregresso, impuniti o puniti con pene così poco adeguate al crimine gravissimo che si prefiggono di reprimere, da far venir meno il concetto di sanzione stessa, ma al massimo di applicare un trattamento sanzionatorio leggermente più severo rispetto a quello esistente al momento dei fatti, ma comunque non di particolare favore.

 

4. Sicuramente più complessa, articolata e, in qualche punto, problematica, è invece la ricostruzione della responsabilità concorsuale di Messina Denaro nei suddetti delitti di strage.

Questo snodo cruciale della decisione si fonda, infatti, su un sillogismo in cui le premesse sono strettamente consequenziali solo prima facie, dal momento che l’inciso finale con cui si chiude sembra marcare una differenza sensibile tra la premessa maggiore e quella minore che ne scalfisce la coerenza.

Ed invero, la Corte in prima battuta afferma con nettezza logico-deduttiva che “se  risulta pacifica in capo agli esecutori materiali e ai concorrenti morali che hanno assunto le deliberazioni di dettaglio (attuative) dei due attentati l’esistenza del dolo specifico connotato dal proposito di provocare la morte di specifici soggetti ed esporre a pericolo la vita e l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone non preventivamente individuate o individuabili – in considerazione del significativo quantitativo di materiale esplosivo recuperato e lavorato in vista di due soluzioni o poche altre, dei luoghi prescelti, aperti al passaggio di terzi estranei (tratto autostradale e strada in zona fortemente urbanizzata), e delle modalità di nascondimento del tritolo e di attivazione della carica a distanza volutamente insidiosi – l’inferenza può ben essere estesa a quei concorrenti morali che hanno aderito al piano stragista di Riina”.

Tuttavia, subito dopo, precisa che mentre gli esecutori materiali ed i decisori delle stragi conoscevano il contenuto analitico dei piani criminali attuati, i vertici delle altre commissioni provinciali presumibilmente incontrati non conoscevano “i dettagli esecutivi in termini di esatta indicazione degli uomini, dei mezzi e delle modalità operative” (p. 956).

Per la Corte, infatti, “il contributo causale alla verificazione dell’evento criminoso non richiede la compiuta conoscenza da parte del singolo concorrente e, segnatamente, di colui che partecipi alla sola fase preparatoria, di tutti i dettagli del delitto da compiere, poiché è sufficiente la volontà dell’agente di prestare il proprio apporto nella consapevolezza della finalizzazione di esso al fatto criminoso comune; ciò che conta è la conoscenza del singolo concorrente che il segmento di condotta da lui posto in essere si inserisce in una più ampia azione criminosa, distribuita tra più soggetti investiti di compiti diversi, proporzionati per numero e qualità alla complessità dell’impresa da realizzare” (p. 963).

Ad integrare un’ipotesi di concorso morale penalmente rilevante, secondo i parametri della c.d. causalità agevolatrice che, com’è noto, sostituisce secondo il diffuso orientamento della giurisprudenza nei reati plurisoggettivi eventuali quella condizionalistica tipica dei reati d’evento[10], è stata ritenuta sufficiente (in ragione delle peculiarità del contesto e delle relazioni mafiose) la ricostruzione indiretta, con un ragionamento a contrario, di una condivisione ‘silenziosa’ o ‘accondiscendente’ da parte di Messina Denaro, quale nuovo e giovanissimo vertice mafioso della provincia trapanese (era da pochissimo succeduto al padre), “dell’oggetto e della portata del piano criminale di attacco allo Stato e di destabilizzazione delle sue Istituzioni”, sortendo tale consenso “l’effetto di rafforzare il proposito criminale del Riina” e del gruppo dei corleonesi (p. 973). Ad avviso della giurisprudenza prevalente, infatti, la complicità di tipo psichico può manifestarsi in maniera abbastanza libera ed elastica, potendo consistere tanto in una condotta esteriore che faccia sorgere o rafforzi il proposito criminoso altrui e, cioè, nelle attività del determinatore e dell’istigatore, quanto in una condotta che più genericamente agevoli la preparazione o l’esecuzione del delitto pianificato e realizzato da altri e, quindi, in una istigazione solamente indiretta[11].

Pur non essendoci, per espressa ammissione della Corte, prove inconfutabili circa la partecipazione effettiva dell’imputato agli incontri della cupola regionale e/o interprovinciale in cui si è discusso, almeno per sommi capi, di quegli attentati, la stessa è stata desunta da una pluralità di indicatori esterni, come, ad esempio, la messa a disposizione in quegli anni da parte di Messina Denaro del supporto e del sostegno alle attività stragiste e alla latitanza di affiliati alle consorterie dei corleonesi, nonché della progettazione, poi mai eseguita, di un attentato con modalità similari nei confronti di Borsellino.

Come già fatto in altre decisioni in materia di mafia, in cui le pur comprensibili istanze di difesa sociale sono state anteposte a quelle antagoniste e di pari rango del garantismo individuale, sminuendo la portata dei principi costituzionali di personalità della responsabilità penale e di presunzione di non colpevolezza teoricamente isonomici, anche in questa pronuncia la condanna del vertice di un mandamento sembra essere stata ricostruita prescindendo da una stringente verifica della sua effettiva e reale incidenza sulle decisioni stragiste degli esecutori materiali, ma ragionando in una prospettiva generale ed astratta[12].

 

5. Nonostante l’apprezzabile tentativo della Corte di muoversi in un guado paludoso intriso di dichiarazioni de relato di pentiti e coimputati e di indicatori che lasciano supporre un coinvolgimento di tutti i principali gruppi mafiosi siciliani nelle stragi, questa parte della sentenza presenta due punti critici di non poco momento:

1) la dimostrazione, in conformità con il principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, comma 1 Cost., della effettiva sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi di un contributo concorsuale di tipo psichico penalmente rilevante;

2) l’individuazione degli elementi probatori in grado di corroborare tali conclusioni in punto di diritto.

 

5.1. Sotto il primo versante, si sarebbe dovuta motivare in maniera più distesa la rilevanza penale ai sensi del combinato disposto degli artt. 110 e 422, comma 1, c.p. della condotta di Messina Denaro, come si è detto consistita soprattutto nella (supposta) partecipazione silenziosa e accondiscendente a taluni incontri della c.d. commissione regionale o interprovinciale della mafia siciliana dei primi anni Novanta, in cui i vertici delle cosche corleonesi avevano sommariamente illustrato agli altri intervenuti il piano stragista per avere il loro tacito avallo ed assicurarsi una compattezza del ‘blocco mafioso’ locale contro lo Stato.

In particolare, piuttosto che polarizzare il ragionamento sul piano probatorio nel tentativo (peraltro non del tutto riuscito come si dirà meglio infra § 6) di delineare gli elementi da cui inferire l’esistenza di un concorso morale dell’imputato, sarebbe stato opportuno concentrarsi sui requisiti costitutivi della partecipazione psichica nel delitto altrui che consentono di distinguerla dalla mera connivenza penalmente irrilevante[13] e dalla responsabilità oggettiva c.d. da posizione del ‘capo’ mafioso[14], tenendo conto anche della recente giurisprudenza relativa alla responsabilità dei vertici associativi per i delitti commessi dagli affiliati, nonché chiarire contenuto e caratteri del dolo che sorreggeva il contributo concorsuale apportato.

Se, secondo le acquisizioni generali in materia di compartecipazione criminosa e di causalità psichica concorsuale[15], coerentemente al principio di personalità della responsabilità di cui all’art. 27, comma 1, Cost., inteso a far data dalle storiche sentenze nn. 364 e 1085 del 1988 nella duplice accezione di divieto di responsabilità per fatto altrui e di necessaria rimproverabilità soggettiva del reo, un contributo morale penalmente rilevante è sempre e solo quello che si riferisca ad un fatto ben determinato e a ben definiti destinatari, con i caratteri della effettività e specificità, nonché dotato all’esito di un vaglio ex post di incidenza effettiva e causale sulla realizzazione (anche in forma meramente agevolatrice) di quel reato e non di uno ex ante meramente prognostico sulla sua mera idoneità, la sentenza avrebbe dovuto diffondersi meglio su quali fossero gli elementi capaci di confermare entrambi tali aspetti nella vicenda in esame.

Di recente, infatti, in altri arresti di legittimità si è chiarito che, in ossequio al principio di colpevolezza non derogabile neanche in queste circostanze, non può essere riferito alla c.d. cupola di un’organizzazione mafiosa ogni ‘delitto eccellente’, presumendosi sempre sussistente il consenso esplicito o tacito alla realizzazione in ragione della sua cruciale rilevanza strategica[16], ma solo quello in ordine al quale ci sia stata: a) una preventiva conoscenza delle articolazioni concrete del progetto delittuoso e delle connesse modalità esecutive; b) una conseguente manifestazione di approvazione, ovvero una mancanza di manifesto dissenso[17].

Nella decisione in esame, invece, aderendo al diverso orientamento interpretativo prima richiamato, non solo non si è fornita una prova diretta del consenso anche tacito dell’imputato alle decisioni delittuose stragiste di terzi appartenenti ad altre commissioni provinciali, ricavandolo (come si vedrà tra breve) solamente da un ragionamento indiretto per quanto plausibile, ma non sembra essere stata appurata la preventiva conoscenza dei dettagli del proposito delittuoso da parte del concorrente, essendo stata comunicata agli altri apicali mafiosi, in occasione delle riunioni della commissione regionale siciliana, unicamente e genericamente l’intenzione di uccidere Falcone e Borsellino, senza fare cenno alcuno ad un progetto stragista di inusitata violenza, da attuare con massicce quantità di esplosivo in grado di provocare la morte di più  persone ed un altissimo pericolo per l’incolumità pubblica[18].

A difettare, infine, sembra essere stato anche il vaglio della incidenza eziologica di tale atteggiamento presunto di Messina Denaro sulle deliberazioni stragiste della cupola regionale siciliana, tramite un giudizio esplicativo ex post ritenuto da larga parte della dottrina contemporanea, dopo le incertezze del passato che avevano fatto propendere alcuni Autori per un giudizio idoneativo ex ante[19], ineludibile anche sul terreno più lasco del concorso morale[20].

Ed invero, la sentenza pare aver ritenuto che la conoscenza dettagliata della preordinazione dei delitti di strage poi realizzati fosse in questa circostanza in re ipsa, dal momento che l’unica ragionevole possibilità per attuare concretamente quel piano criminale genericamente illustrato nelle riunioni mafiose era quella di fare ricorso a materiale esplosivo e, quindi, tramite attacchi eclatanti allo Stato, capaci di coinvolgere molte più persone dei soli bersagli diretti. Inoltre, ha considerato l’assenso tacito ipoteticamente prestato da Messina Denaro a quegli omicidi eccellenti come concausale rispetto alla decisione dei capi promotori dell’iniziativa stragista, integrando una ipotesi di causalità da rafforzamento psichico[21].

Al contrario, non sembra aver scrutinato in modo adeguato né la preventiva conoscenza del progetto delittuoso e delle sue dettagliate modalità esecutive da parte del concorrente morale in questione, né l’esistenza e l’incidenza del suo consenso ancorché solo tacito sulla deliberazione omicidiaria altrui.

Il giudizio di accertamento della responsabilità penale per concorso morale nelle stragi pare arrestarsi al piano della causalità generale e della valutazione della astratta idoneità ex ante, consistendo di fatto nella elaborazione di una massima di esperienza di tipo sociale, ragionevole e plausibile (piuttosto che in una più attendibile legge scientifica di copertura), in forza della quale progetti criminali come quelli stragisti di quegli anni dovevano necessariamente trovare il consenso di tutti i gruppi mafiosi siciliani per poter riuscire e, quindi, sicuramente anche di Matteo Messina Denaro.

Manca, tuttavia, una compiuta dimostrazione ex post della effettiva incidenza agevolatrice della condotta dell’imputato anche sul piano concreto della causalità individuale, in modo da provare che l’assenso tacito (presumibilmente) prestato da Messina Denaro alle stragi mafiose e considerato astrattamente idoneo, in una prospettiva prognostica, a rafforzarne i convincimenti dei suoi ideatori abbia veramente agevolato la loro realizzazione, o quanto meno ridotto le incertezze della loro riuscita[22].

Invero, la Corte, accedendo già nella parte motiva della sentenza dedicata al concorso di persone nel reato ad una impostazione diafana della causalità psichica concorsuale[23], non pare cimentarsi meticolosamente con la prova della rilevanza eziologica del contributo concorsuale offerto da Messina Denaro, rinunciando prima di tutto ad individuarlo precisamente.

Sul punto, infatti, la Corte d’assise omette di puntualizzare se, come e quando sarebbe stato concretamente prestato l'assenso dal concorrente, prospettando in proposito tre ipotesi alternative – a) l'imputato ha partecipato alle riunioni personalmente; b) a mezzo di nuncius; c) ha prestato il proprio assenso separatim in occasione di presumibili incontri con Riina (p. 532) –, senza tuttavia stabilire in definitiva quale tra queste sia quella effettivamente verificatasi.

Non fissato in modo certo, il primo termine del rapporto causale – i.e. il contributo hic et nunc prestato dal Messina Denaro –, giocoforza nel prosieguo si è affidata a ragionamenti prognostici per dimostrare l’incidenza su quei delitti commessi da terzi, dal momento che, in suo difetto, non sembra possibile verificarne il legame reale con il pur individuato secondo termine del nesso – i.e. la commissione delle stragi[24].

 

5.2. Sempre in ossequio al principio costituzionale di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, comma 1 Cost., sub specie colpevolezza, la decisione avrebbe dovuto profondere un maggiore sforzo anche nella individuazione dell’elemento soggettivo e, quindi, del dolo di concorso dell’imputato rispetto al delitto di strage di cui all’art. 422 c.p. deliberato dai vertici dei clan corleonesi, per evitare di dare vita ad una ipotesi di responsabilità oggettiva.

Più precisamente, avrebbe potuto richiamare in modo più espresso a sostegno delle sue conclusioni sul piano dell’elemento psicologico del reato, la recente giurisprudenza (velocemente elencata nella parte ricostruttiva della pronuncia dedicata al concorso morale in generale – p. 311) che ha ribadito la configurabilità di un concorso a titolo di dolo generico in un reato a titolo di dolo specifico anche quando il soggetto che apporti un contributo materiale o morale non sia animato dalla specifica finalità richiesta, purché uno degli altri concorrenti agisca con tale intenzione e di tale finalità sia consapevole il primo[25].

Partendo da tale richiamo giurisprudenziale, si poteva più agevolmente desumere l’esistenza di un dolo di concorso in questa circostanza, avendo l’imputato condiviso negli incontri considerati per avvenuti la realizzazione del delitto di strage, pur non perseguendo anch’egli necessariamente la finalità di arrecare un pericolo per la pubblica incolumità.

Ma soprattutto, avrebbe dovuto chiarire meglio l’oggetto del dolo, dal momento che da quanto emerge dalla sentenza questo sembra essere rappresentato in via alternativa dagli omicidi plurimi e dalle stragi, anche se però il piano varato dalla commissione regionale era tutt’altro che ben definito nei suoi dettagli e modalità operative, sembrando evocare così la vecchia categoria del dolo generale.

 

6. Infine, la sentenza lascia qualche perplessità sul fronte dello standard probatorio utilizzato per fondare la decisione di condanna.

In primo luogo, è controverso se sussistano gli indicatori minimi in presenza dei quali considerare integrata una compartecipazione di un terzo nei delitti di strage decisi e realizzati da altri.

Risulta, invero, problematico considerare la notorietà acquisita nell’arco di circa un decennio negli ambienti di Cosa Nostra, soprattutto dei suoi vertici, del proposito omicidiario di Falcone e Borsellino (la Corte riporta agli “inizi-metà degli anni Ottanta” le prime manifestazioni degli intenti stragisti – p. 958) elemento sufficiente a dimostrare in modo indiretto, con un ragionamento di tipo inferenziale, la condivisione dolosa da parte di Messina Denaro dei delitti di strage poi commessi da Riina e dagli altri vertici dei corleonesi. Quel proposito delittuoso, infatti, non è univoco e non lascia desumere che l’unica modalità per dargli attuazione sia l’impiego di mezzi di inusitata violenza tipici della strage, ben potendo essere rivelatore del diverso delitto di omicidio doloso plurimo.

Per ammissione della stessa Corte, infatti, “era prevedibile”, ma non è stato accertato, che i piani criminali descritti contemplassero come modalità realizzativa il ricorso ad esplosivi di ampia portata capaci di esporre a pericolo anche la pubblica incolumità, avendo ad oggetto bersagli istituzionali costantemente seguiti da scorta armata (p. 960).

In secondo luogo, appare leggermente claudicante la prova del concorso morale nella fase di ideazione del piano stragista, sub specie di causalità psichica agevolatrice da rafforzamento.

Non riuscendo a provare con certezza la partecipazione dell’imputato o di un suo delegato alle riunioni deliberative tenutesi ad Enna, ci si è accontentati della prova della sua presenza ad altra riunione in cui erano stati pianificati gli attentati, diversi e mai realizzati, di Roma in danno di Costanzo, Martelli, Falcone ed altri (p. 972). Si afferma anzi perentoriamente che Messina Denaro, “presente o non presente alle riunioni di Enna, delegante di un soggetto non individuato o del Riina stesso a quel consesso o finanche assentore in separata sede, condivise in pieno l’oggetto e la portata del piano criminale del Riina di attacco allo Stato e di destabilizzazione delle sue Istituzioni” (p. 973; n.b.: i neretti sono nostri), senza peraltro soffermarsi sulla efficacia eziologia di tale condivisione sulla decisione stragista e, dunque, non adducendo elementi indiziari utili a individuare la sussistenza dei requisiti di un contributo morale penalmente rilevante.

Infine, a destare le maggiori perplessità su questo versante è l’ammissione da parte della stessa sentenza, in primo luogo, della provenienza di tutte le informazioni relative alle riunioni della commissione regionale finalizzate a deliberare il piano stragista de relato da collaboratori di giustizia che non vi hanno preso parte (p. 529), in secondo luogo, della assenza di qualsiasi attestazione anche da parte di questi della presenza di Messina Denaro in quelle sedi.

È sulla base di un salto logico, ripetiamo: probabilmente ragionevole, ma pur sempre privo di supporti probatori adeguati, che si desume con certezza la sua adesione ai progetti stragisti; si ritiene cioè che, data la loro macroscopica portata, non potevano trovare attuazione senza la condivisione anche da parte dei capi delle commissioni di Trapani ed Agrigento: “l’uccisione dei due simboli dell’antimafia, appunto i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non poteva che richiedere l’unitaria adesione di Cosa Nostra, né Riina poteva – invero non nutriva interesse e convenienza nel non farlo – prescindere dalle manifestazioni di consenso di tutti i relativi rappresentanti”.

 

7. Alla luce di quanto detto, la sentenza si presta ad una lettura complessivamente chiaroscurale.

Per un verso, infatti, costituisce un ulteriore, significativo, tassello nell’opera di ricostruzione giuridica delle responsabilità penali per le tragiche stragi mafiose degli anni Novanta, arricchendo le acquisizioni già raggiunte in precedenti decisioni giudiziarie circa i loro mandanti diretti ed esecutori materiali con nuove conclusioni relative ad ulteriori ‘decisori’ indiretti, appartenenti a gruppi mafiosi di area geografica differente rispetto a quella dei corleonesi.

Tuttavia, per altro verso, presenta taluni punti sdrucciolevoli, sia sul piano del diritto penale sostanziale che su quello del diritto penale processuale.

Sotto il primo fronte, avrebbe dovuto chiarire meglio la rilevanza penale ai sensi del combinato disposto degli artt. 110 e 422, comma 1, c.p. dei contributi forniti da Messina Denaro, tracciando una linea di demarcazione netta rispetto alla connivenza e tenendo in giusto conto la giurisprudenza sulla responsabilità dei vertici mafiosi, per evitare di costruire una forma di responsabilità da posizione potenzialmente confliggente con il principio di colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, Cost.

Sotto il secondo fronte, infine, avrebbe dovuto utilizzare basi argomentativo-dimostrative dei fatti penalmente rilevanti contestati più rigorose e pertinenti, evitando di affidarsi in modo pressoché esclusivo a ragionamenti di tipo inferenziale e a dichiarazioni de relato e provando anche a corroborare la tesi del coinvolgimento morale rafforzativo dell’imputato con una verifica concreta della causalità individuale.

Se, infatti, risulta verosimile secondo massime di esperienza il ragionamento elaborato dalla Corte su un piano generale ed astratto, sembra tuttavia difettare una sua concreta conferma nella specifica vicenda oggetto di giudizio.

In ogni caso, al di là di questi punti che saranno sicuramente approfonditi nei successivi gradi di giudizio, la decisione costituisce una importante pietra da cui partire per provare a fare ulteriore chiarezza sulle vicende più sconvolgenti della nostra storia repubblicana e sui loro mandanti, sostituendo mere dòxa dal carattere debole e cedevole, con una ben più solida e fondata epistème, e, cioè, seguendo in tale percorso decisionale un paradigma rigorosamente giuridico di stampo normativo-valutativo e rifuggendo da giudizi ‘a campo libero’ dal sapore al più storico-politico, come quelli di recente affiorati in altre decisioni relative alla trattativa scaturita dagli attentati.

La strada per una affermazione della responsabilità penale di tipo concorsuale è tracciata, bisognerà vedere se la si riuscirà a battere ancora meglio dopo questa prima ‘spianata’, chiarendo e puntualizzando tutti gli aspetti ancora incerti in precedenza segnalati. Oppure se, sulla base del compendio probatorio a disposizione, non sarà possibile affermare ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, al termine del gravame e del giudizio di legittimità, la responsabilità di Messina Denaro per le stragi mafiose.

Molto dipenderà dal modello prescelto nel prosieguo del processo per ascrivere i reati ai mandanti mafiosi, dal momento che, attualmente, sembrano convivere sul piano della responsabilità dei vertici di sodalizi mafiosi per delitti-scopo eccellenti due orientamenti discordanti, uno più rigoroso (condiviso dalla sentenza in commento) che, valorizzando l’innegabile peculiarità e la rigidità gerarchica dei rapporti mafiosi, tende a enfatizzare il ruolo apicale del capo-clan ed affermare la inevitabile riconducibilità alle sue decisioni, anche tacite, di tutti i reati ‘strategici’; l’altro più garantista che, invece, in modo forse più rispettoso dei principi di personalità della responsabilità penale e della presunzione di innocenza, propende per ascrivergli solamente i delitti in ordine ai quali sia effettivamente accertato un suo concreto contributo anche solo tacito ‘da rafforzamento’ nella fase deliberativa di terzi.

Non è escluso (anzi, sarebbe auspicabile) che, proprio a causa di un simile contrasto sincronico orizzontale esistente nella giurisprudenza di legittimità, la questione sia sottoposta al vaglio delle Sezioni unite per un chiarimento dirimente.

Anche se, forse, laddove venisse rimessa al massimo organo nomofilattico, potrebbe verificarsi un esito analogo a quello sortito dalle questioni sollevate in materia di mafie delocalizzate[26]. Il Presidente della Suprema Corte potrebbe, cioè, decidere di non far decidere le Sezioni unite adottando una ordinanza in cui non rimette loro la questione per mancanza del dedotto contrasto ermeneutico in diritto e per l’esistenza di soli problemi di fatto e di prova, evitando così le eventuali ricadute intertemporali (in parte simili a quelle al centro della nota vicenda Contrada) che potrebbero discendere da una decisione delle Sezioni unite in bonam partem.

 

 

[1] G. Bongiovanni, Matteo Messina Denaro e la trattativa Stato-mafia, in www.antimafiaduemila.com, 20 agosto 2021.

[3] Sulle peculiarità e sulle criticità del processo sui fatti della trattativa, di recente acuite dalla decisione della Corte d’Appello non ancora depositata che ha ribaltato le statuizioni del giudice di primo grado, si rinvia per tutti alle lucide osservazioni di G. Fiandaca, La trattativa Stato-mafia tra processo politico e processo penale, in
Criminalia, 2012, 67 ss.; G. Fiandaca – S. Lupo, La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa, Roma, 2014, 69 ss. In argomento, sia consentito rinviare anche ai nostri G. Amarelli, La contiguità politico-mafiosa, Roma, 2017, 91 ss.; Id., Trattativa Stato-mafia: per il Tribunale di Palermo tutti i protagonisti sono responsabili del delitto di minaccia ad un corpo politico dello Stato di cui all’art. 338 c.p., in Dir. pen. cont., 25 luglio 2018.

[4] Per una lettura sostanzialmente coincidente degli elementi caratterizzanti il delitto di strage si veda in dottrina, ex multis, G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, Vol. I, 6 ed., Bologna, 2021, 540 ss.

[5] In tal senso cfr. Cass. pen., Sez. I, 13 maggio 2015, n. 43681; Cass. pen., Sez. I, 18 settembre 2008, n. 42990.

[6] Cass. pen., Sez. II, 11 febbraio 2016, n. 15107, in Dir. pen. cont., 5 luglio 2016, con una nota di S. Bernardi, Prescrizione e strage alla luce del diritto europeo: una nuova problematica sentenza della Cassazione.

[7] S.u., 24 settembre 2015, n. 19756, Trubia, in Dir. pen. cont., 13 luglio 2016, con una nota di I. Gittardi, Una discutibile sentenza delle Sezioni unite su prescrizione e reati punibili con l’ergastolo commessi prima del 2005.

[8] In tal senso L. Bin, “Formula di Radbruch”, principio di irretroattività e lex mitior, in Dir. pen. cont., 9 aprile 2014, 16.

[9] Così Corte EDU, Grande chambre, 18 luglio 2013, Maktouf e Damjanovic c. Bosnia Erzegovina, In argomento, cfr. F. Mazzacuva, La Corte europea torna sul principio di legalità della pena
e chiarisce la portata della c.d. formula di Radbruch
, in Dir. pen. cont., 17 settembre 2013; L. Bin, “Formula di Radbruch”, cit., 6.

[10] In tal senso si veda ex multis G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2020, 505 ss.; G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, Milano, 2021, 562 ss.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2020, 525.

[11] Di recente, in tal senso cfr. Cass., Sez. VI, 28 aprile 2017, n. 36739.

[12] Per una ricostruzione delle decisioni della giurisprudenza che hanno alleggerito la prova della responsabilità penale dei vertici dei gruppi criminali (mafiosi e non) per i delitti-fine strategici e cruciali per il perseguimento dei loro fini illeciti, si veda F. Rinaldini, Art. 110, in E. Dolcini – G.L. Gatta, a cura di, Codice penale commentato, vol. I, Milano, 2021, 1800 ss.

[13] M.N. Masullo, La connivenza. Uno studio sui confini con la complicità, Roma, 2013, 71 ss.

[14] Di recente, ricostruisce le criticità sottese a questa forma di responsabilità da posizione A. Corvi, Regole di esperienza e prova del concorso morale dei vertici dell’associazione mafiosa nei delitti commessi dagli altri sodali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 782 ss. F. Rinaldini, Art. 110, cit., 1801.

[15] In argomento, sulla categoria della causalità psichica nel concorso di persone nel reato si veda M.N. Masullo, La connivenza, cit., 78 ss.; D. Castronuovo, Fatti psichici e concorso di persone. Il problema dell’interazione psichica, in G. De Francesco – C. Piemontese – E. Venafro, La prova dei fatti psichici, Torino, 2010, 189 ss.; L. Risicato, La causalità psichica rispetto ai condizionamenti mentali, Torino, 2007; M. Ronco, Le interrelazioni psichiche nel diritto penale: in particolare sul concorso psichico, in Ind. pen., 2004, 821 ss.; L. Cornacchia, Il problema della c.d. causalità psichica rispetto ai condizionamenti mentali, in AA.VV., Nuove esigenze di tutela nell’ambito dei reati contro la persona, a cura di S. Canestrari – G. Fornasari, Bologna, 2001, 187 ss.

[16] In tal senso, Cass., 30 gennaio 1992, Abbate, in Foro it., 1993, II, 15, con nota di G. Fiandaca; Cass., 30 gennaio 1992, Altadonna, n. 190646, in Cass. pen., 1993, 1679.

[17] Così Cass., 26 febbraio 2015, n. 263568. A conclusioni simili giunge anche Cass., Sez. I, 6 marzo 2018, n. 10237, D.S.O.M.C., in cui si è precisato come in tema di reati associativi la posizione gerarchicamente dominante rivestita da taluno dei compartecipi non sia di per sé sola idonea a far presumere la sua automatica responsabilità per i delitti fine compiuti da altri appartenenti al sodalizio, ancorché si tratti di reati inseriti nel già condiviso programma criminoso: ciò in quanto di detti delitti rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, volontario e consapevole all'attuazione della specifica condotta criminosa. Per una ricostruzione della giurisprudenza sul punto cfr. A. Corvi, Regole di esperienza, cit., 782 ss.; A. Barazzetta, Art. 416-bis, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, Tomo II, Milano, 2021, 2184 ss.

[18] Anche in dottrina è stato sottolineato che per ravvisare un concorso morale non è sufficiente una generica volontà di eccitare le altrui inclinazioni criminose, ma è necessario che una concreta condotta esteriore del partecipe, precisamente individuata, quantomeno rafforzi la decisione di commettere uno specifico reato, anche se indicato in alternativa. In tal senso cfr. C. De Maglie, Teoria e prassi nei rapporti tra reati associativi e concorso di persone nei reati-fine, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 949, e G. Grasso, Art. 110, in M. Romano – G. Grasso, Commentario sistematico del codice penale, II, Padova, 2012, 161,

[19] F. Albeggiani, Imputazione dell’evento e struttura obiettiva della partecipazione criminosa, in Ind. pen., 1977, 416 ss.

[20] Sostengono la necessità di procedere anche nei casi di compartecipazione psichica nel reato, che pongono problemi di c.d. causalità psichica, ad un accertamento in concreto della effettiva incidenza eziologica (anche in termini di mero rafforzamento) del contributo del correo sulla deliberazione o esecuzione delittuosa di terzi, escludendo la utilizzabilità di criteri di generica idoneità ex ante, S. Seminara, Riflessioni sulla condotta istigatoria come forma di partecipazione al reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, 1123; G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., 562; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., 510. A conclusioni analoghe perviene anche M.N. Masullo, La connivenza, cit., 91 ss., segnalando che nel concorso morale non si può “accontentare di un criterio di accertamento di tipo prognostico volto ad eludere la necessaria e successiva verifica, di tipo diagnostico, in base alla quale poter affermare che, nel caso concreto, quell’istigazione, astrattamente idonea ad influenzare l’altrui psiche, abbia poi effettivamente sortito quell’effetto”.

[21] La problematicità dell’accertamento della causalità psicologica di rafforzamento di un altrui proposito criminoso è stata da tempo segnalata in dottrina, tra gli altri, da F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, 102; M. Donini, La partecipazione al reato tra responsabilità per fatto proprio e responsabilità per fatto altrui, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 221; C. De Maglie, Teoria e prassi nei rapporti tra reati associativi, cit., 927. Per eludere le difficoltà implicate dalla prova di un apporto causale su meccanismi psicologici altrui, alcuni Autori avevano proposto di abbandonare il paradigma causale, privilegiando quello prognostico, ritenendo così sufficiente l’accertamento della astratta attitudine della condotta ad influenzare i processi decisionali di terzi. In tal senso, si veda per tutti, F. Albeggiani, Imputazione dell’evento, cit., 416 ss.

[22] In tal senso cfr. Cass., Sez. VI, 13 maggio 2014, n. 36125; Cass., Sez. VI, 22 maggio 2012, n. 36818.

[23] Sul punto, citando una pronuncia assai risalente della Cassazione, la Corte d’assise afferma che, nell’accertamento della responsabilità a titolo di concorso morale “non può però esigersi – e la precisazione non è di poco conto ai fini della presente – la prova positiva, obiettivamente impossibile, che senza di esso quell’intendimento non sarebbe stato attuato, dovendosi invece accontentare della dimostrazione della obiettiva idoneità, in base alle regole della comune esperienza, della condotta consapevolmente posta in essere dal concorrente a persuadere, anche solo in modo modesto” (p. 308, corsivo nostro).

[24] Simili problemi sul piano della causalità pone altresì il congegno escogitato dalla giurisprudenza per reprimere la contiguità mafiosa, vale a dire il concorso esterno. Tipizzato dalle Sezioni Unite come un reato monosoggettivo di evento, presenta difficoltà simili circa la definizione di uno degli elementi del rapporto causale (il secondo, individuato nel macroevento del mantenimento in vita o del rafforzamento dell'associazione nel suo complesso) e l’individuazione di leggi di copertura del fenomeno. In argomento, T. Padovani, Note sul cd. concorso esterno, in Arch. pen., 2012, p. 1 ss.; V. Maiello, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale. Raccolta di scritti, Torino, 2014, passim; I. Giugni, Il problema della causalità nel concorso esterno, in Dir. pen. cont., 2017, p. 29 ss.

[25] Cass., Sez. II, 17 settembre 2019, n. 38277, Nuzzo, in questa Rivista, 19 marzo 2020, con nota di E. Zuffada; sul punto cfr. anche E. La Rosa, Anche la ricettazione può essere scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca?, in Giur. it., 2020, p. 171 ss.

[26] Si veda sul punto l’ordinanza di restituzione atti del Presidente aggiunto Cass., S.U., ex art. 172 disp. att. c.p.p., 17 luglio 2019, in questa Rivista, 18 novembre 2019, con nota di G. Amarelli, Mafie delocalizzate: le Sezioni unite risolvono (?) il contrasto sulla configurabilità dell’art. 416 bis c.p. ‘non decidendo’.