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  Opinioni  
08 Agosto 2023


Intercettazioni e criminalità organizzata: quando a voler precisare si finisce per complicare

Note a caldo a margine dell'art. 1 del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105



* Il presente contributo, pubblicato nel fascicolo n. 7-8/2023, è stato aggiornato l'11 agosto 2023.

 

1. Con l'art. 1 del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105 si interviene chirurgicamente sulla disciplina delle intercettazioni – telefoniche, informatiche e ambientali – nei procedimenti per reati di criminalità organizzata (sul tema v. i contributi di G. Amarelli e G. Tessitore pubblicati nei giorni scorsi dalla nostra Rivista). La necessità e l’urgenza dell’intervento sarebbero motivate – secondo quanto anticipato in un comunicato stampa del Consiglio dei Ministri a metà luglio – dalle implicazioni che l’applicazione generalizzata dei principi affermati in una sentenza della Prima Sezione della Cassazione (n. 34895/2022) potrebbe avere nei procedimenti in corso, comportando “l’inutilizzabilità del materiale probatorio acquisito sulla base dell’interpretazione precedente, che consentiva l’utilizzo degli strumenti previsti per la lotta alla criminalità organizzata anche in assenza della contestazione del reato associativo”.

La disposizione su cui si interviene è l’art. 13 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152 che, in deroga all’art. 267 c.p.p., prevede per autorizzare le intercettazioni, quando si procede per un delitto di criminalità organizzata, presupposti meno stringenti rispetto a quelli ordinari. Al posto di “gravi indizi” bastano “sufficienti indizi” di reato; il ricorso alle intercettazioni deve essere “necessario” e non “indispensabile”; può procedersi a intercettazioni nel domicilio “anche se non vi è motivo di ritenere che si stia svolgendo l’attività criminosa”. Questa disciplina è ispirata all’idea che nel bilanciamento tra tutela della riservatezza e tutela dell’ordine pubblico prevale la seconda, quando si tratta di criminalità organizzata. Le garanzie ordinarie si allentano in ragione della spiccata pericolosità del fenomeno criminale da combattere. E’ una logica notoriamente diffusa nel c.d. doppio binario della legislazione di contrasto alla criminalità organizzata.

 

2. Ma qual è l’ambito di applicazione di questa disciplina speciale, assai meno garantista di quella ordinaria prevista dal codice di procedura penale per la generalità dei reati? Arriviamo così alla questione oggetto della citata sentenza della Cassazione e del decreto-legge.

La lettera della legge non brilla per precisione: l’art. 13 d.l. n. 152/1991 fa infatti generico riferimento al concetto di delitti di “criminalità organizzata”, senza indicare puntualmente un elenco di norme incriminatrici. E’ indubbio che nel concetto di criminalità organizzata rientrino le fattispecie associative (come l’associazione per delinquere e l’associazione di tipo mafioso); non è invece indubbio se a quel concetto siano riconducibili i delitti monosoggettivi (come l’omicidio o l’estorsione) aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 c.p. per l’impiego del c.d. metodo mafioso o dalla finalità di agevolare un’associazione di tipo mafioso, ovvero, ancora, le ipotesi di mero concorso nei delitti facenti capo a un’associazione a delinquere (non aggravato da modalità o agevolazione mafiosa).

Semplificando un problema complesso, va segnalato quel che è rimasto sullo sfondo del dibattito pubblico in questi giorni e cioè che il diritto vivente, rappresentato dalle Sezioni Unite della Cassazione – aveva già fornito una risposta al problema nel 2016, con la sentenza Scurato (n. 26889/2016). Il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, come si legge nella massima, è questo: “in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, ai fini dell'applicazione della disciplina derogatoria delle norme codicistiche prevista dall’art. 13 del d.l. n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. nonché quelli comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato”.

Tra i delitti elencati nell’art. 51, co. 3-bis e 3-quater c.p.p., richiamato dalle Sezioni Unite Scurato, figurano anche quelli monosoggettivi aggravati dal c.d. metodo mafioso o dalla finalità di agevolare un’associazione mafiosa o commessi con finalità di terrorismo. Dunque, per le Sezioni Unite la disciplina derogatoria dell’ordinario regime di autorizzazione delle intercettazioni riguarda anche quei reati.  

Di diverso avviso – e torniamo all’attualità – è però la sentenza n. 34895/2022 della Prima Sezione della Cassazione, secondo cui – andando subito all’osso – la sentenza delle Sezioni Unite Scurato, nel richiamare l’art. 51, comma 3-bis e 3-quater c.p.p., avrebbe inteso riferirsi solo ai delitti associativi annoverati nel relativo elenco e non agli altri (quelli monosoggettivi aggravati dal metodo mafioso, come nel caso di specie l’omicidio). Ciò in quanto dalla complessiva motivazione della sentenza Scurato – dice la Prima Sezione – si evince che “indefettibile…per integrare la nozione di delitti di ‘criminalità organizzata’…è la contestazione di una fattispecie associativa, anche comune, con la sola esclusione del concorso di persone nel reato”.

 

3. Ecco allora il cuore del problema: una sentenza di una sezione semplice che ha reinterpretato un principio affermato da una sentenza delle Sezioni Unite. E’ qualcosa di normale, di fisiologico nei processi di formazione della giurisprudenza. Se di interpretazione sbagliata si tratta – come parrebbe leggendo il principio di diritto della sentenza Scurato –, essa vincola per le legge solo il giudice del rinvio. Nel caso di specie, la Cassazione ha annullato una sentenza rinviandola alla Corte d’Appello di Napoli per una nuova valutazione sul profilo della utilizzabilità delle intercettazioni ambientali disposte, in assenza di gravi indizi, in un procedimento per omicidio aggravato ex art. 416-bis.1 c.p.: senza la contestazione di un delitto associativo, per la Sezione Prima, non sarebbe applicabile la disciplina derogatoria e quindi, in assenza di gravi indizi e di un reato in corso nel domicilio, le intercettazioni effettuate non potevano essere autorizzate e non possono ora essere utilizzate a fini di prova. Giusto o sbagliato che sia, questo principio vincola solo la Corte d’Appello di Napoli nel procedimento oggetto della sentenza della Sezione prima.

Perché allora si è intervenuti con un decreto-legge? Le perplessità sono legittime, perché non si tratta di superare un principio affermato dalle Sezioni Unite e che, pertanto, è diritto vivente. Si tratta di superare un principio affermato un anno fa da una singola sentenza di una sezione semplice, che vincola un solo giudice. Certo, il rischio è che quella sentenza faccia giurisprudenza e inauguri un nuovo orientamento. Ed è un rischio che, nella fisiologia dei processi di formazione della giurisprudenza, viene normalmente affrontato dalla Cassazione, attraverso le riunioni di sezione o tra i presidenti di sezione e il ricorso eventualmente alle Sezioni Unite. Se si tratta di precisare un principio già affermato dalle Sezioni Unite è proprio necessario ricorrere a un decreto-legge? Non basta, nella logica e nelle dinamiche del sistema, sollecitare un nuovo intervento delle Sezioni Unite? Domande lecite, ancor più se è vero, come si legge nel comunicato della Presidenza del consiglio e sulla stampa, che l’intervento normativo sarebbe stato sollecitato da magistrati, cioè da attori del normale procedimento di formazione della giurisprudenza.

 

4. Quale che sia la ragione – compresa l’opportunità del Governo di mostrarsi sensibile all’antimafia, dopo la discussa uscita del Ministro Nordio sul concorso esterno, alla vigilia delle commemorazioni per la strage di Via D’Amelio – un ordinario problema di composizione di possibili contrasti giurisprudenziali viene ora affrontato con un intervento normativo. E il rischio è che la toppa possa essere peggiore del buco. A dimostrazione che sulle leve del penale bisognerebbe intervenire sempre con mano tremante, pensandoci molto bene. Non con un agostano decreto-legge omnibus.

L’art. 1, co. 1 del decreto-legge così stabilisce: “Le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, si applicano anche nei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies e 630 del codice penale, ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”.

Vengono richiamati delitti che sono tutti elencati nell’art. 51, co. 3-bis e 3-quater c.p.p., al quale hanno fatto espresso riferimento le Sezioni Unite Scurato: l’associazione per il traffico organizzato di rifiuti, il sequestro di persona a scopo di estorsione, i delitti aggravati dal metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa o di terrorismo. Viene quindi codificato per decreto-legge il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite Scurato: diventa legge nel 2023 quel che le Sezioni Unite hanno affermato nel 2016.

Nihl novi sub sole, apparentemente. Il diritto vivente diventa legge, con una forza vincolante ben maggiore di quella propria di una sentenza delle Sezioni Unite, peraltro erroneamente interpretata, a quanto pare, da una sentenza di una sezione semplice.

 

5. Senonché, la tecnica adottata per l’intervento normativo sembra porre nuovi problemi interpretativi e rischia di mancare l’obiettivo perseguito, cioè l’utilizzabilità delle intercettazioni disposte nei procedimenti in corso.

A metà luglio era stata annunciata una norma di interpretazione autentica, cioè una norma che avrebbe esplicitato, oggi, il significato originario della disposizione (vigente peraltro da decenni). Le norme di interpretazione autentica, per definizione, non sono innovative/modificative. Non introducono alcun novum normativo nell’ordinamento e sono applicabili ex tunc, cioè ora per allora (con efficacia da allora, cioè dal momento di entrata in vigore della disposizione autenticamente interpretata). Per avere questa efficacia, le norme di interpretazione autentica devono davvero essere tali e non, invece, delle norme modificative/innovative travestite da norme di interpretazione autentica per derogare agli ordinari principi in tema di successione di leggi nel tempo. Frodi delle etichette non sono ammissibili e su di esse è vigile la Corte costituzionale.

Per come formulato, l’art. 1 del decreto-legge n. 105/2023 non pare tuttavia una norma di interpretazione autentica. Non solo perché manca la consueta formula che introduce quel tipo di norme (“l’art. 13…deve essere interpretato nel senso che…”), ma anche perché è accompagnato, al secondo comma, da una disposizione transitoria di questo tenore: “la disposizione del comma 1 si applica anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Questa norma transitoria sembra aver senso solo sul presupposto che la norma introdotta non sia di interpretazione autentica; che sia, cioè, una disposizione nuova e che, come tale, avrebbe effetto solo per il futuro se non fosse, per l’appunto, derogata dalla norma transitoria stessa che la rende applicabile ai processi in corso.

Ora, se di norma nuova si tratta, il decreto-legge finisce paradossalmente per sconfessare le Sezioni Unite Scurato e per confermare la bontà dell’interpretazione della criticata sentenza della Prima Sezione penale, che ha escluso l’applicabilità dell’art. 13 d.l. n. 152/1991 ad ipotesi solo ora – questo è il punto – riconducibili alla nuova formulazione della disposizione.

A meno di non voler sostenere la tesi della inutilità della nuova disposizione, che si limita ad affermare quel che implicitamente, come riconosciuto dalle Sezioni Unite, era già affermato prima dal diritto vivente. Sarebbe però una inutilità dannosa, perché fornisce argomenti per sostenere che l’estensione dell’ambito applicativo della disciplina derogatoria delle intercettazioni è stato realizzato solo ora e non può valere per il passato, cioè per le intercettazioni già disposte.

Si può obiettare che, con la disposizione transitoria, il Governo ha comunque salvato gli effetti dell’estensione della norma anche per il passato, quanto meno per i procedimenti oggi in corso. Qui, tuttavia, mi sembra prospettabile un problema di costituzionalità.

Se la norma non è innovativa (è una norma di interpretazione autentica mal scritta) nulla quaestio: potranno essere utilizzate le intercettazioni antecedentemente disposte per i reati in essa considerati.

Se però la norma è innovativa (non è una norma di interpretazione autentica) vale per le modifiche a disposizioni processuali il principio tempus regit actum: gli atti da compiere sono regolati dalla nuova disciplina, quelli già compiuti restano regolati dalla vecchia. Ciò significa, a me pare, che intercettazioni illegittimamente disposte prima della modifica normativa non possono adesso essere considerate legittime e utilizzabili a fini di prova. La nuova norma potrà quindi interessare i procedimenti in corso nei quali ancora non siano state autorizzate intercettazioni e debbano esserlo.

L’intervento del Governo, in altri termini, non può valere come una sanatoria per intercettazioni illegali nel momento in cui sono state disposte (a voler accedere alla tesi della Prima Sezione della Cassazione, che sembra confermata, indirettamente quanto paradossalmente, dal decreto-legge). Se la norma transitoria intende dire questo, a mio parere è di più che dubbia legittimità costituzionale perché gli artt. 15 Cost. e 8 Cedu consentono limitazioni alla riservatezza nei limiti e con le garanzie stabilite dalla legge; una legge che, evidentemente, deve preesistere rispetto al momento in cui quelle limitazioni sono disposte.

Se invece la norma non è innovativa, perché ribadisce quel che le Sezioni Unite avevano correttamente affermato già nel 2016, e la disposizione transitoria si limita a ribadire il principio tempus regit actum, allora siamo di fronte a un intervento che potrebbe risultare più dannoso che inutile perché per fugare il pericolo di una interpretazione di una sezione semplice della Cassazione, contraria alle Sezioni Unite, crea il pericolo, ben maggiore, di numerosi ulteriori problemi interpretativi. Nei procedimenti in corso in cui non sono contestati reati associativi ma delitti aggravati dal metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa, e sono state autorizzate intercettazioni ai sensi dell’art. 13 .l. n. 152/1991, le difese potranno ora eccepire l’illegittimità delle intercettazioni posto che solo da oggi è in vigore una norma che le consente. Si potrà obiettare che quella norma ha solo recepito il preesistente diritto vivente (S.U. Scurato)…ma è evidente che vi sarà spazio per molti dubbi e altrettante obiezioni.

Al paziente lettore che sia arrivato a leggere sin qui verrà forse spontanea una domanda: ma era proprio il caso di intervenire o non sarebbe stato meglio tenere nel cassetto la penna del legislatore e lasciar fare alla giurisprudenza?