ISSN 2704-8098
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04 Maggio 2021


Torna all’attenzione del legislatore il problema dei bambini in carcere al seguito delle loro madri

Disegno di legge A.C. n. 2298



1. Il 23 febbraio scorso è iniziato alla Commissione Giustizia della Camera l'esame di una proposta di legge, d’iniziativa dei deputati Siani e altri (A.C. n. 2298), volta a ridurre la presenza di minori all’interno degli istituti penitenziari, al seguito delle loro madri.

Obiettivo di fondo della proposta è quello di potenziare il ricorso alle case famiglia protette nei casi in cui la madre di un figlio minore di 6 anni non abbia una abitazione nella quale poter usufruire degli arresti domiciliari durante il processo o poter espiare la pena, una volta divenuta esecutiva la sentenza di condanna. A tal fine si propone di abrogare quella disposizione della legge 62/2011 che, nell’indicare le case famiglia protette come luogo equiparabile alla “propria abitazione” negli artt. 284 c.p.p. e 47-ter e -quinquies o.p., precisa che la loro istituzione debba avvenire “senza oneri per lo Stato” (così l’art. 4 comma 2 della legge): una limitazione che ha di fatto impedito la diffusione di queste strutture sul territorio nazionale[1] e quindi contribuito, verosimilmente, alla presenza di minori in carcere, per l’assenza di un’adeguata soluzione abitativa da parte della madre. Allo stesso tempo si propone di intervenire sull’art. 275 c.p.p., per escludere che la custodia cautelare in carcere possa eseguirsi in luoghi diversi dagli istituti a custodia attenuata per detenute madri (ICAM) ai sensi dell’art. 285-bis c.p.p. e, in modo similare, sugli artt. 146 e 147 c.p., per rendere il differimento della pena – sia esso obbligatorio o facoltativo ed esteso fino al compimento dei 6 anni di età del minore – derogabile soltanto per la reclusione in un ICAM ovvero per l’ingresso in una casa famiglia protetta, a seconda della maggiore o minore serietà del pericolo di recidiva della madre[2].

 

2. A distanza di dieci anni dalla legge 62/2011 si torna dunque a riflettere sulla penosa condizione dei minori ‘ristretti’ in carcere con la loro madre: una questione più volte affrontata in passato dal legislatore, che ad essa ha dedicato ben cinque diversi interventi, nell’arco di 25 anni (tra il 1986 e il 2011), senza peraltro arrivare a ridurre la loro presenza ‘dietro le sbarre’.

I numeri parlano chiaro: nonostante l’introduzione della detenzione domiciliare ‘umanitaria’ (art. 47-ter o.p.) ad opera della legge Gozzini nel 1986, il numero dei minori di 3 anni in carcere al 30 giugno 1993 era di 61 (al seguito di 59 madri); l’ampliamento dell’ambito di applicazione della misura, dapprima attraverso la legge 296/1993 e poi con la legge 165/1998 (c.d. legge Simeone) – che l’ha resa tra l’altro applicabile alle madri di minori fino ai 10 anni di età – ha prodotto una leggera flessione di quelle presenze, che si è però ben presto rivelata del tutto occasionale, perché al 30 giugno 2001 i minori nelle sezioni nido degli istituti penitenziari avevano raggiunto il picco di 83 (al seguito di 79 madri). La legge Finocchiaro (l. 40/2001), dal canto suo, ha voluto ovviare al problema dei limiti di pena troppo angusti della misura alternativa esistente (4 anni di reclusione, sia pure solo residui), introducendo la detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies o.p.). Tuttavia, nei dieci anni trascorsi prima dell’ulteriore intervento legislativo, si sono registrate ancora presenze massicce di minori in carcere (71 nel 2004 e 75 nel 2009), che hanno reso evidente l’inadeguatezza degli strumenti messi in campo sino a quel momento, alla luce delle caratteristiche delle destinatarie principali di quella disciplina: donne nomadi, condannate a pene detentive anche molto lunghe, per la ripetizione nel tempo di reati contro il patrimonio di solito di esigua gravità, accompagnate da uno o più figli in tenerissima età e talvolta nuovamente in stato di gravidanza.

In questo scenario la novità più rilevante è stata apportata proprio dalla legge 62/2011, che ha esteso l’operatività della detenzione domiciliare speciale, sia pure con grande cautela[3], e soprattutto ha dato riconoscimento giuridico agli ICAM - di cui a quell’epoca si conosceva solo il modello milanese, ancora oggi unico nel suo genere - e alle case famiglia protette, come già ricordato: dopo questa legge, anche per le donne nomadi, ospiti numerose e assidue dei nostri istituti penitenziari insieme ai più piccoli dei loro numerosi figli, si sono idealmente aperte le porte del carcere, avendo il legislatore previsto una soluzione abitativa alternativa a quella del loro ‘campo’ (giudicato tradizionalmente inidoneo dalla magistratura) dove poter scontare la pena nelle forme della detenzione domiciliare. Tuttavia, il numero dei minori in carcere e nei (pochi) ICAM nel frattempo istituiti[4], se è andato un po’diminuendo negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della legge, era ancora molto (troppo) elevato nel 2018: erano infatti presenti 66 minori, al seguito di 57 madri.

 

3. Non essendoci evidenza di un incremento della criminalità femminile nell’arco degli ultimi trent’anni occorre interrogarsi sul fallimento di quelle leggi nel conseguimento del loro obiettivo, tanto più alla luce dell’importante contributo che alla loro più ampia applicazione è venuto dalla Corte costituzionale: in particolare, tra le diverse decisioni che sono intervenute per assicurare che la condanna a una pena detentiva non interrompa il legame tra la madre (o il padre in sua vece) e il figlio, minore di età o bisognoso di cure particolari perché affetto da handicap grave (o “totalmente invalidante”)[5], devono essere ricordate soprattutto le due sentenze con le quali è stata dichiarata l’illegittimità della preclusione alla fruizione della misura della detenzione domiciliare (‘umanitaria’ e speciale) per le madri condannate per uno dei reati indicati nell’art. 4-bis o.p.[6]. L’importanza di aver eliminato anche questa preclusione discende non tanto dalla numerosità di donne condannate per quei reati, quanto piuttosto per il messaggio che anche per questa via si è rivolto alla magistratura di sorveglianza, di privilegiare il più possibile l’interesse del minore a crescere fuori dal carcere con la propria madre e più in generale nel suo contesto familiare, rispetto ad esigenze di difesa sociale che, proprio di fronte alla commissione di reati inseriti nell’art. 4-bis o.p., potrebbero essere ritenute ‘necessariamente’ prevalenti.

 

4. Il fallimento di quelle leggi sembra in effetti da ricondurre alla scarsa applicazione di quelle disposizioni, introdotte per fare uscire dal circuito penitenziario le madri e i loro figli: il fatto di condizionarne l’applicazione a una prognosi positiva sul futuro comportamento della donna – talvolta su espressa indicazione del legislatore, che chiede all’autorità giudiziaria di accertare che “non sussista il concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti” – rende inidonee quelle misure a contrastare l’ingresso (anche solo per esigenze cautelari) e/o la permanenza in carcere (sia pure un ICAM) dei figli minori di 6 anni delle donne nomadi, le quali riescono con molta difficoltà a guadagnarsi la fiducia di operatori e giudici, vuoi per i numerosi precedenti penali che le caratterizzano, vuoi per il contesto culturale nel quale sono inserite. Eppure sono soprattutto i figli di quelle donne ai quali dobbiamo dare un futuro, aiutando al contempo le loro madri a trovare una via di uscita dalla condizione subalterna e passiva nella quale dichiarano quasi sempre di aver vissuto. Auguriamoci dunque che la riflessione sul tema, riaperta dalla Proposta Siani, trovi un rimedio a quest’ultimo ostacolo, invertendo il rapporto regola-eccezione tra detenzione e misure in libertà anche per queste donne e i loro figli e ponendo le premesse per un maggiore ricorso alle case famiglia protette sul territorio, affinché situazioni di grande disagio sociale non siano più confuse con quelle (poche) che davvero destano allarme sociale[7].

 

 

[1] Ad oggi sono state aperte solo due case famiglia protette: una è quella milanese, gestita dall’Associazione C.I.A.O., e l’altra è “Casa di Leda” a Roma.

[2] Stranamente nessun coordinamento con l’ordinamento penitenziario è stato prospettato nella Proposta di legge: in particolare, nessun riferimento espresso viene fatto all’art. 47-ter o.p., che già oggi consente di trascorrere in detenzione domiciliare, anziché in regime di differimento, la pena detentiva inflitta alla donna incinta o madre di minore fino a 3 anni, qualunque sia l’entità della pena da espiare.

[3] V. nota 6.

[4] Attualmente gli ICAM sono cinque: oltre a quello di Milano-San Vittore, sono stati istituiti negli istituti penitenziari di Venezia-Giudecca, Torino “Lorusso e Cutugno”, Avellino Lauro e Cagliari.

[5] Cfr. C. cost. 215/1990, 359/1993, 18/2020.

[6] Cfr. C. cost. 239/2014, avente ad oggetto lo stesso art. 4-bis o.p. e C. cost. 76/2017, che ha dichiarato illegittimo il riferimento all’art. 4-bis o.p. inserito nell’art. 47-quinquies o.p. dalla legge 62/2011 per escludere le donne condannate per uno dei reati in esso indicati dall’ampliamento di operatività della misura della detenzione domiciliare speciale, contestualmente introdotto con la medesima legge.

[7] Sul rischio che la prognosi di recidiva della donna madre si appiattisca sui suoi precedenti penali, sacrificando così l’interesse del minore a esigenze di difesa sociale del tutto teoriche, Cass., Sez. I, 25 maggio 2020 (dep. 4 giugno 2020), n. 16945, Pres. Di Tomassi, Rel. Renoldi, in questa Rivista, con nota di N.M. Cardinale.