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  Scheda  
17 Giugno 2020


Detenzione domiciliare speciale e interesse superiore del minore

Cass., Sez. I, 25 maggio 2020 (dep. 4 giugno 2020), n. 16945, Pres. Di Tomassi, Rel. Renoldi



1. Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione mette finalmente a frutto i principi sanciti dalla Consulta in tema di detenzione domiciliare speciale, stabilendo che l’interesse superiore del minore debba essere valutato come preminente anche rispetto alle esigenze di sicurezza della collettività. Così facendo la Suprema Corte pone un limite alla valutazione del Tribunale di sorveglianza sul pericolo di commissione di ulteriori reati da parte della madre detenuta, che costituiva oramai l’unico serio ostacolo alla concessione della misura della detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47-quinquies o.p. Rispetto alle numerose condizioni che ne circoscrivevano originariamente l’ambito di applicazione, questa particolare misura alternativa ha assunto nel corso del tempo nuovi contorni, per la progressiva affermazione del superiore interesse del minore a crescere con i genitori in un ambiente normale, lontano dal carcere: hanno contribuito a questo risultato sia alcune modifiche legislative, sia numerose pronunce della Corte costituzionale, volte ad abbattere le  preclusioni legislative che sacrificavano in modo automatico l’interesse del minore a vantaggio di presunte esigenze di difesa della collettività[1].

 

2. Come è noto, il legislatore italiano, accogliendo le sollecitazioni provenienti dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa 1469 (2000) su “madri e bambini in carcere”, con la legge n. 40 del 2001 ha cercato di limitare il fenomeno della carcerizzazione degli infanti prevedendo la nuova misura alternativa della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies o.p. Con l’introduzione dell’art. 47-quinquies o.p. è stata ampliata la possibilità di espiare la pena in detenzione domiciliare che l’art. 47-ter o.p. già offriva alle madri di bambini fino a 10 anni, che avessero una pena da espiare (anche residua) inferiore a quattro anni – alle detenute madri (e ai padri, in caso di impossibilità della madre) condannate a pene superiori a quattro anni. Il ricongiungimento con i figli nella propria abitazione poteva però essere concesso solo “dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno 15 anni in caso di ergastolo”, e a condizione che non sussistesse “un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti”. Una condizione, quest’ultima, non espressamente prevista per la detenzione domiciliare ordinaria dell’art. 47-ter o.p. e che, imponendo di formulare una prognosi sulla possibile ricaduta nel reato della donna, subordina l’interesse del minore a esigenze di difesa della collettività basate su una valutazione che, come sappiamo, è del tutto ipotetica, per la difficoltà di fare previsioni attendibili sul comportamento della persona[2].

 

3. Con l’introduzione del comma 1-bis nell’art. 47-quinquies o.p., ad opera della legge n. 62 del 2011, si è poi previsto che la misura possa essere applicata sin dall’inizio della esecuzione della pena e che siano a tal fine utilizzabili anche altri luoghi, diversi dal domicilio, nei quali la madre (o il padre in sua vece) possa restare accanto al figlio minore degli anni 10: gli istituti a custodia attenuata per detenute madri (I.C.A.M.) ovvero, “se non sussiste un concreto pericolo di commissione di altri delitti o di fuga”, le case famiglia protette. L’obiettivo di ampliare così la possibilità, per le madri condannate a pena detentiva superiore ai 4 anni, di assistere i loro figli fuori dal carcere non è stato tuttavia pienamente conseguito, essendo rimasto invariato il presupposto dell’accertamento, da parte del Tribunale di sorveglianza, dell’assenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte della detenuta. Si tratta di una condizione restrittiva molto rilevante, perché l’esperienza insegna che le principali destinatarie della nuova misura alternativa sono donne nomadi, con pene elevate per la reiterazione nel tempo di piccoli reati contro il patrimonio e con numerosi bambini al seguito: donne rispetto alle quali è molto difficile che la prognosi di recidiva abbia un esito positivo. La valutazione rigorosa di questo presupposto da parte del Tribunale di sorveglianza ha infatti fino ad ora limitato l’ambito di applicazione dell’istituto, subordinando di fatto l’interesse superiore del minore a (ritenute) esigenze di tutela della collettività dal pericolo di recidiva[3].

 

4. Si comprende dunque la portata innovativa della pronuncia in esame che incide proprio sul requisito della prognosi positiva di non ricaduta nel reato, stabilendo che l’interesse del minore debba essere valutato come preminente rispetto alle esigenze di sicurezza della collettività. La Corte di Cassazione ritiene manifestamente illogica la motivazione posta alla base del rigetto da parte del Tribunale di Sorveglianza di un’istanza di detenzione domiciliare speciale, ai sensi dell’art. 47-quinquies o.p., presentata dalla madre di tre bambini di età inferiore ai 10 anni, che aveva una pena da espiare per reati contro il patrimonio pari a 6 anni, 2 mesi e 10 giorni. Il rigetto era motivato dai numerosi precedenti penali della donna, alcuni dei quali relativi a reati commessi – come sottolinea il Tribunale di sorveglianza – “durante la maternità o il puerperio”. La Corte, dopo aver richiamato la finalità della misura, volta a soddisfare l’interesse del minore a crescere con i genitori in un ambiente il più possibile normale, afferma che a tale interesse si deve dare rilievo preminente anche nel bilanciamento con le esigenze di tutela della collettività. E nel caso in esame il Tribunale non aveva spiegato perché la misura della detenzione domiciliare non appariva idonea a contenere la pericolosità della donna, soprattutto considerando che il nucleo familiare era composto da tre bambini tutti in tenera età e che la donna aveva trascorso positivamente ben tre anni in detenzione domiciliare ordinaria ex art. 47-ter o.p. prima che sopraggiungesse una ulteriore sentenza di condanna, che rendeva la pena da scontare superiore a 4 anni di reclusione. 

 

5. Proprio quest’ultimo aspetto della vicenda giudicata dalla Suprema Corte offre l’occasione per un’ulteriore riflessione sugli ostacoli legislativi che ancora si oppongono al mantenimento del rapporto della madre (o del padre, in sua vece) con i figli, qualunque sia la pena da scontare e a condizione che si tratti di bambini di età inferiore ai 10 anni. La donna beneficiava infatti della misura della detenzione domiciliare ordinaria (art. 47-ter o.p.) quando è diventata definitiva un’ulteriore condanna per furto in abitazione che, cumulata a quella in espiazione, portava a un residuo di pena da scontare superiore a 4 anni; le veniva quindi revocata la misura e proseguiva l’esecuzione della pena in carcere, interrompendosi, da un giorno all’altro, la convivenza con i suoi figli. Questa soluzione ‘obbligata’ discende dal fatto che in base all’art. 656, comma 5, c.p.p. il Pubblico Ministero può chiedere la sospensione dell’ordine di esecuzione solo se la pena da espiare non supera i quattro anni, consentendo così di poter chiedere dalla libertà l’applicazione della sola misura della detenzione domiciliare ordinaria (art. 47-ter o.p.) e non anche di quella – del tutto identica nella finalità - dell’art. 47-quinquies o.p., costituendo così un ulteriore scoglio legislativo al rispetto del superiore interesse del minore a crescere con la madre. Questo significa che tutte le istanze di detenzione domiciliare speciale, ex art. 47-quinquies o.p., devono essere presentate solo una volta iniziata l’espiazione della pena all’interno di un istituto penitenziario, obbligando in questo modo la madre a lasciare da soli i figli in tenera età, sia pure per il solo tempo necessario ad ottenere la misura[4]: un tempo che oggi, grazie alla pronuncia della Cassazione in esame, potrebbe risultare sensibilmente abbreviato.

 

[1] Si vedano, in particolare, le pronunce della Corte costituzionale n. 239 del 2014 e n. 76 del 2017 che hanno rimosso gli impedimenti alla concessione della misura, derivanti dal fatto che la madre fosse stata condannata per uno dei reati indicati nell’art. 4-bis o.p.; la sentenza n. 187 del 2019, che ha eliminato un ulteriore ostacolo alla concessione della misura, nelle ipotesi previste dall’art. 58-quater o.p.; da ultimo, la decisione n. 18 del 2020 che ha reso possibile il ricongiungimento con un figlio affetto da “handicap totalmente invalidante” a prescindere dalla sua età.

[2] C. Pecorella, La detenzione delle donne madri: la difficoltà di garantire l’interesse superiore del minore. Trenta anni di riforma per ridurre il numero di bambini dietro le sbarre, in N. Gandus e C. Tonelli (a cura di), Doppia pena, il carcere delle donne, Mimesis, 2019, p. 35.

[3] F. Fiorentin, Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, in Giur. merito, 2011, p. 2618.

[4] Si segnala che quando può essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p. – cioè fino al compimento dei tre anni del bambino – il Tribunale di sorveglianza può permettere alla detenuta di scontare la condanna in detenzione domiciliare ordinaria, ex art. 47-ter comma 1-ter o.p., a prescindere dal quantum di pena da espiare, stabilendo un termine di durata che può essere prorogato. Tale ipotesi non ricorreva tuttavia nel caso sottoposto all’attenzione della Corte di cassazione, in quanto anche l’ultimo figlio della donna aveva compiuto il terzo anno di età quando è diventata definitiva la sentenza, che ha determinato la revoca della detenzione domiciliare ordinaria in corso.