Scheda  
26 Febbraio 2020


Ancora sul caso Cappato: qualche considerazione sulla "non punibilità" dell'aiuto al suicidio introdotta dalla Corte costituzionale


Pietro Bernardoni

Corte d’Assise di Milano, sent. 23 dicembre 2019 (dep 30 gennaio 2020), n. 8/2019, Pres. Mannucci Pacini, Est. Mannucci Pacini – Simi, imp. Cappato


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N.d.r.: in conformità al Codice etico di Sistema penale, si segnala che, nell’ambito del procedimento penale a carico di Marco Cappato in cui è intervenuta la sentenza in commento, l’autore di questo contributo ha avuto un ruolo attivo come tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso l’ufficio del Pubblico Ministero.

 

1. Con la sentenza depositata il 30 di gennaio, la Corte d’Assise di Milano ha definito il processo a carico di Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, iniziato nel settembre 2017, che vedeva l’esponente del Partito Radicale imputato ex art. 580 c.p. per aver rafforzato il proposito suicidario di Fabiano Antoniani, in arte DJ Fabo, e per averne agevolato l’esecuzione accompagnandolo in Svizzera presso la clinica Dignitas, luogo ove il suicidio si è verificato sotto la supervisione dei sanitari elvetici[1]. La sentenza, che sancisce una – prevedibile – assoluzione piena per l’imputato, pare interessante soprattutto per il fatto di costituire la prima applicazione del dettato della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, con cui la Consulta ha riconosciuto un’area di “non punibilità” all’interno della fattispecie di cui all’art. 580 c.p., definendo il giudizio incidentale promosso nell’ambito del processo chiusosi con la sentenza in esame.

 

2. La vicenda è nota, e può essere utilmente approfondita negli ormai numerosi contributi pubblicati al riguardo[2]: in breve, Marco Cappato era sottoposto a processo per aver rafforzato il proposito suicidario di Fabiano Antoniani, tetraplegico e cieco in seguito ad un incidente stradale, e per averne agevolato l’esecuzione accompagnandolo presso la clinica svizzera Dignitas, dove Antoniani si è tolto la vita mediante un’iniezione letale da lui stesso attivata. Nell’ambito del processo, su richiesta tanto dei Pubblici Ministeri quanto dei difensori, la Corte d’Assise, esclusa la componente di istigazione, riteneva di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., sostenendo un duplice profilo di incostituzionalità della norma: da un lato, infatti, i giudici milanesi chiedevano alla Corte costituzionale di valutare la compatibilità con la Costituzione e la CEDU del reato di istigazione e aiuto al suicidio “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione, e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”; dall’altro lato, poi, si argomentava l’incostituzionalità della norma sotto il profilo sanzionatorio, per l’equiparazione tra condotte di istigazione e condotte di mera agevolazione materiale.

La Corte costituzionale si è quindi pronunciata sulla questione dapprima con ordinanza n. 207 del 2018, con cui ha riconosciuto, in sostanza, l’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio per il suo contrasto con la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie; secondo la Consulta, tale diritto fondamentale si fonda sul combinato disposto tra gli artt. 3, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione. L’incostituzionalità della norma, pur riconosciuta, non è stata dichiarata immediatamente dalla Corte, che ha optato per il rinvio della decisione ad una successiva udienza fissata a quasi un anno di distanza dalla prima, in modo da consentire al legislatore di intervenire per sanare il vulnus di costituzionalità e, al contempo, garantire un’efficace e ponderato bilanciamento tra i vari interessi in gioco.

A distanza di un anno, stante l’inerzia del legislatore e a disciplina invariata, la Corte costituzionale ha pronunciato la sentenza n. 242 del 2019, con cui ha dichiarato l’incostituzionalità della fattispecie di aiuto al suicidio “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

La Corte d’Assise di Milano, infine, è stata chiamata a confrontarsi con il caso concreto sottoposto al suo giudizio alla luce della disciplina dell’aiuto al suicidio rimaneggiata dalla Corte costituzionale. La decisione, peraltro, non sembra aver presentato profili di particolare complessità sotto questo aspetto, anche alla luce del fatto che la Consulta, definendo “paradigmatica […] la vicenda oggetto del giudizio principale”[3], ha ritagliato l’area di “non punibilità” dell’aiuto al suicidio su quelle “situazioni come quella oggetto del giudizio a quo: situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”[4].

In effetti, la Corte meneghina non ha difficoltà a verificare la ricorrenza nel caso concreto dei quattro requisiti individuati dal giudice delle leggi per rendere penalmente irrilevante la condotta agevolatrice del suicidio; anche rispetto alla procedura seguita per accertare ex ante la ricorrenza dei suddetti elementi, procedura ovviamente non modellata sulla disciplina della legge 219/2017 individuata dalla Corte costituzionale come la più idonea a garantire il contemperamento tra libertà di autodeterminazione e tutela del diritto alla vita, la Corte d’Assise ritiene che quella nel concreto seguita sia stata sufficientemente rigorosa da garantire la libertà e l’autonomia della scelta di Fabiano Antoniani.

L’aspetto giuridicamente più complesso della decisione, però, riguarda la natura della “non punibilità” introdotta dalla Corte costituzionale con la sent. n. 242 del 2019, aspetto su cui la Corte d’Assise prende posizione in modo piuttosto sbrigativo, definendola una questione che “interessa più gli studiosi del diritto penale che pubblici ministeri, avvocati e giudici”. L’Assise milanese, dovendo in ogni caso compiere una scelta in merito alla formula assolutoria, opta per quella più liberatoria e proscioglie l’imputato “perché il fatto non sussiste”, con questo ponendo ragionevolmente fine alla vicenda relativa al caso DJ Fabo-Marco Cappato.

* * *

 

3. In questa sede non è possibile soffermarsi su tutti i problemi che, a parere di chi scrive, l’incostituzionalità del 580 c.p. dichiarata da C. Cost. 242/2019 ha lasciato aperti, e che potrebbero in futuro essere forieri di ulteriori questioni di costituzionalità, oltre che di dibattito dottrinale. Ci si riferisce, in particolare, alle conseguenze del self restraint che ha guidato la Corte nella decisione di una questione complessa e delicata, emerso con chiarezza fin dalla scelta di rimettere l’armonizzazione della disciplina penalistica al dettato costituzionale all’opera del legislatore, ma poi anche nell’opera di chirurgica individuazione del perimetro di legittimità dell’aiuto al suicidio[5].

Tale prospettiva, pur apprezzabile in un ambito in cui il bilanciamento tra i diritti in gioco richiede una libertà d’azione che non è concessa al giudice delle leggi, ristretto nell’ambito di una valutazione di conformità costituzionale della disciplina vigente, non risolve alcuni problemi fondamentali, come i margini entro cui una prestazione di aiuto al suicidio può essere pretesa dall’individuo da parte di personale sanitario, né chiarisce se le considerazioni svolte in materia di aiuto al suicidio possano estendersi, ed in che misura, alla c.d. eutanasia attiva e alla disciplina dell’omicidio del consenziente[6]. Gli argomenti utilizzati dalla Consulta a sostegno dell’incostituzionalità dell’art. 580 c.p., infatti, fanno sorgere il dubbio che laddove nella situazione in cui la Corte ha ritenuto legittimo l’aiuto al suicidio si trovasse un soggetto che, non è in grado di darsi autonomamente la morte neanche con l’aiuto altrui, questi possa avere diritto ad ottenere un aiuto ancora più pervasivo, nella forma dell’eutanasia[7]. Su questo punto, però non pare opportuno spendersi oltre in questa sede, data la complessità della questione, che chiama in gioco problemi etici e filosofici, prima ancora che giuridici.

 

4. L’aspetto su cui ci sembra possibile fare qualche considerazione più approfondita attiene alla questione affrontata specificamente dalla sentenza in esame: ci riferiamo alla natura giuridica della “non punibilità” delle condotte individuate dalla Consulta all’interno della fattispecie di cui all’art. 580 del codice penale. Come detto, i giudici meneghini si sono trovati a dover prendere posizione sul punto, anche alla luce delle diverse prospettazioni operate dalle parti[8]; la sentenza in esame, però, lascia la questione irrisolta, ed anzi ne afferma la sostanziale irrilevanza in quanto, facendo riferimento alla concezione bipartita del reato (la sentenza si riferisce a quella tripartita, ma il refuso è evidente) anche le cause di giustificazione incidono sull’elemento oggettivo del reato e conducono, di conseguenza, all’insussistenza del fatto.

La dottrina che per prima si è confrontata con la questione ha criticato questa impostazione, optando nettamente per la qualificazione della “non punibilità” introdotta dalla Corte costituzionale in termini di scriminante procedurale, in ragione del richiamo che la sentenza della Consulta fa alla legge n. 219/2017[9].

 

5. La questione merita di essere brevemente approfondita. Innanzitutto, l’obiezione che la Corte d’Assise muove alla rilevanza del problema, pur non del tutto fondata, non pare neanche totalmente peregrina: infatti, al di là della necessità di individuare la formula assolutoria corretta – questione che potrebbe essere accantonata come mero formalismo, se non si evidenziano le conseguenze derivanti dall’adozione dell’una piuttosto che dell’altra formula – la differenza di disciplina tra elementi negativi della fattispecie e scriminanti non è così netta come potrebbe sembrare[10]. Qualche differenza tuttavia permane, in via generale, sotto il profilo dell’elemento soggettivo nonché in termini di conseguenze extrapenali derivanti dall’accertamento della ricorrenza dei primi o delle seconde.

Con riferimento al dolo, in primo luogo, una differenza si attesta quantomeno sul piano dell’erronea supposizione di presenza dell’elemento liceizzante: senza volersi qui inoltrare troppo a fondo su un terreno scivoloso quale quello dell’errore nel diritto penale, ci sembra che l’art. 59, comma 4, c.p. in materia di causa di giustificazione putativa, e l’art. 47, comma 1, c.p., cui deve essere ricondotto l’errore di fatto sugli elementi negativi della fattispecie penale, disciplinino la situazione in modo in parte diverso, richiedendo, il primo, un grado di errore più intenso rispetto al secondo: ai fini dell’art. 47, comma 1, c.p. è sufficiente per escludere il dolo l’ignoranza del fatto che il requisito richiesto dall’elemento negativo della fattispecie non sussiste nella realtà; l’art. 59, comma 4, c.p., invece, richiede che il soggetto ritenga che sussistano gli elementi che integrano la causa di giustificazione, non essendo sufficiente, sempre ai fini dell’esclusione del dolo, l’ignoranza circa la loro insussistenza[11]. Un esempio può aiutare a chiarire meglio questo punto. Considerando il reato di furto: colui che si impossessi di un oggetto altrui identico ad uno di sua proprietà può invocare l’errore di cui all’art. 47, primo comma, c.p. anche se, quando ha agito, non si è compiutamente rappresentato che l’oggetto fosse di sua proprietà; è sufficiente, perché venga meno il dolo di furto, che l’agente non fosse consapevole della proprietà altrui del bene oggetto di appropriazione, neanche in via di dolo eventuale. Viceversa, in un caso analogo, perché l’agente, consapevole dell’altruità dell’oggetto, possa invocare la causa di giustificazione putativa del consenso dell’avente diritto è necessario che egli, nel momento in cui ha agito, si rappresentasse compiutamente la sussistenza degli elementi di fatto – pur nella realtà inesistenti – su cui si fonda la scriminante in parola.

La seconda fondamentale differenza, poi, attiene all’efficacia che l’ordinamento riconosce all’elemento negativo rispetto a quella che attribuisce al ricorrere di una scriminante: mentre la presenza in concreto di quel dato fattuale la cui assenza è richiesta perché il reato possa dirsi configurato sotto il profilo della tipicità del fatto (elemento negativo della fattispecie) si limita, appunto, ad escludere la tipicità del fatto ma nulla ci dice circa la disciplina extrapenale del medesimo, le scriminanti, secondo la dottrina prevalente, sono caratterizzate dalla c.d. universalità, ossia dalla proprietà di rendere lecito il fatto in ogni ramo dell’ordinamento. Detto in altre parole: se è ben possibile che un fatto penalmente atipico possa rilevare come illecito amministrativo, civile o disciplinare, un fatto penalmente tipico ma scriminato, di regola, non dà luogo a risarcimento del danno o ad altre forme di responsabilità[12].

 

6. Posto che – contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’Assise milanese – la questione appare quindi dotata di una qualche rilevanza in termini di disciplina, dedichiamo poche brevi considerazioni al problema della qualificazione della “non punibilità” riconosciuta da Corte cost. n. 242 del 2019[13]. Come detto, gli Autori che si sono finora confrontati con il tema hanno ritenuto che la Corte abbia configurato una nuova scriminante procedurale tipica, che si fonda sul diritto del malato ad ottenere l’accompagnamento alla morte[14], diritto che “dichiarato dalla Corte oggi, esisteva già quando Fabiano Antoniani chiese l’aiuto prestatogli da Marco Cappato. Esso dunque scriminava già allora, sul piano del diritto costituzionale legittimo, la condotta di Cappato”[15]. Ne deriva, logicamente, che la formula corretta da adottare, in relazione al caso concreto, sarebbe stata l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato” in quanto commesso in presenza di una causa di giustificazione.

Tale conclusione, tuttavia, non convince del tutto, e lascia irrisolti alcuni nodi problematici nell’interpretazione della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. e della motivazione da cui è supportata. Innanzitutto, la prima osservazione è di tipo formale: la Corte costituzionale, infatti, ha dichiarato l’incostituzionalità della norma “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi” commette aiuto al suicidio rispettando le condizioni e le procedure identificate dalla Corte stessa. Questa scelta ci sembra difficilmente compatibile con la qualificazione di tale “non punibilità” come causa di giustificazione, per una serie di ragioni: innanzitutto, se si accoglie la concezione tradizionale delle cause di giustificazione come norme diverse dalla norma incriminatrice – secondo la dottrina dominante, si tratterebbe di norme non penali[16] – appare difficile comprendere come una clausola inserita in via di declaratoria di incostituzionalità e contenuta nella norma incriminatrice stessa possa configurarsi come scriminante. Detto in altre parole, se le cause di giustificazione sono da ricondurre alla categoria di teoria generale del conflitto tra norme, e come tali sono strumenti per bilanciare in concreto interessi confliggenti, non è chiaro come tale conflitto si possa verificare dopo che la Corte costituzionale ha espunto dall’ordinamento quel pezzo di norma di cui ha dichiarato l’incostituzionalità.

Non a caso, attenta dottrina, in sede di commento all’ordinanza n. 207 del 2018, nel sostenere l’opportunità di inserire la disciplina della liceità del suicidio assistito nella categoria concettuale delle scriminanti, aveva riconosciuto come “si potrebbe ben giungere al risultato anche attraverso una sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale”[17]; a nostro sommesso parere, tale soluzione non solo si sarebbe potuta raggiungere, ma si sarebbe dovuta raggiungere con una sentenza interpretativa di rigetto[18]: se il fondamento della non punibilità delle condotte di aiuto, nei casi individuati dalla Corte, risiede veramente in un preesistente diritto al suicidio del malato, idoneo a scriminare condotte penalmente tipiche in quanto prevalente sul bene giuridico tutelato, non vi è necessità di dichiarare incostituzionale la norma incriminatrice, in quanto tale diritto sarebbe idoneo a prevalere sulla stessa in base al combinato disposto degli artt. 51, comma 1, e 119, comma 2, c.p.[19].

Oltre a tale argomentazione, fondata sulla struttura formale della pronuncia di incostituzionalità, vi sono alcuni spunti nella motivazione della sentenza n. 242 del 2019, nonché nell’ordinanza n. 207 del 2018 cui la sentenza in larga parte si riporta, che sembrano indirizzare verso una lettura differente[20]. Fin dall’ordinanza n. 207 del 2018, infatti, la Corte, dopo aver ricostruito le coordinate degli interessi in gioco – diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione nelle scelte concernenti la fase finale dell’esistenza – sembra porsi, nel giudicare la conformità della disciplina codicistica con i valori costituzionali, in una prospettiva opposta a quella in cui si muovono gli autori che inquadrano il tema all’interno della categoria dell’antigiuridicità. La Corte, infatti, afferma: “nelle ipotesi in esame vengono messe in discussione, d’altronde, le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio”; quindi: “non vi è ragione per la quale il medesimo valore [cioè, per usare sempre le parole della Corte, il cardinale rilievo del valore della vita] debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto” nelle condotte suicidarie. Infine, con espressione ancor più univoca, la Consulta sostiene che “entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisc[a], quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie […] senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”[21].

Queste considerazioni vengono quindi riprese quasi testualmente nella sentenza dell’ottobre 2019, nella quale i giudici delle leggi affermano fin dall’inizio del ragionamento che “nelle ipotesi configurate […] vengono messe in discussione, d’altronde, le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio”, quindi, poche righe dopo sostengono: “la conclusione è dunque che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie”[22].

Non è, dunque, la libertà di autodeterminazione a delimitare l’ambito di indisponibilità del diritto alla vita – come sarebbe necessario ritenere per concepire la “non punibilità” dell’aiuto al suicidio in chiave di scriminante – ma l’opposto: l’indisponibilità del diritto alla vita, assicurata dall’incriminazione a tutto tondo di aiuto e istigazione al suicidio e dell’omicidio del consenziente, rappresenta una limitazione dell’autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, che si giustifica solo in quanto sorretta dall’esigenza di tutelare interessi meritevoli di tutela e di rango costituzionale, al pari dell’interesse sacrificato. La logica è quella della legittimazione del ricorso alla pena, e, dunque, quella dell’offensività, più che quella del conflitto in concreto tra diritti che connota l’area dell’antigiuridicità[23].

Naturalmente, con ciò non si vuole sostenere che l’operazione condotta dalla Corte costituzionale non consista in un bilanciamento tra diritti; tale bilanciamento, però, non è compiuto nell’ottica concreta del giudice – che, in relazione al caso di specie, va alla ricerca dei diritti e delle facoltà potenzialmente rilevanti per verificare se prevalgano o meno sull’incriminazione – ma in quella del legislatore. La Corte, infatti, verifica la ragionevolezza in astratto delle scelte di incriminazione, alla luce degli interessi tutelati, da un lato, e di quelli sacrificati, dall’altro: tale verifica, però, non può che incidere sulla fattispecie penale, riducendone l’area ed incidendo, di conseguenza, sulla tipicità dei fatti riconducibili alle condizioni dalla Corte stessa enucleate.

 

7. Date queste premesse, ne possiamo trarre una serie di conseguenze: prima fra tutte, e con riferimento al fatto concreto, la scelta della formula assolutoria, che, a ben vedere, non avrebbe dovuto essere né quella adottata dalla Corte d’Assise – “il fatto non sussiste” – né quella proposta dalla dottrina cui si è fatto riferimento – “il fatto non costituisce reato” – ma la formula deputata ad affermare che un fatto, pur essendosi verificato nella realtà con modalità conformi a quelle descritte dal capo d’imputazione, non corrisponde ad alcuna fattispecie penale tipica: “il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Questa conclusione influisce, innanzitutto, sugli effetti extrapenali del giudicato ai sensi dell’art. 652 c.p.p.: il giudice civile o amministrativo, nei giudizi concernenti il risarcimento del danno, infatti, è vincolato all’accertamento condotto in sede penale circa l’insussistenza del fatto o l’esistenza di una causa che renda il fatto stesso lecito; al contrario, la sua cognizione non subisce vincoli per effetto di una pronuncia che attesti l’atipicità penale del fatto stesso.

Tale conseguenza, tuttavia, non è l’unica: oltre alle già ricordate differenze in punto di dolo, infatti, abbiamo anche citato la diversa efficacia, in relazione agli altri rami dell’ordinamento, che deriva dal qualificare la “non punibilità” come elemento negativo del fatto tipico piuttosto che come causa di giustificazione; l’adozione della prima soluzione, che ci pare quella più in linea con le motivazioni e con il dispositivo della sentenza n. 242 del 2019, infatti, porta ad escludere l’efficacia universale dell’incostituzionalità. Peraltro, significativo in questo senso il fatto che la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO) abbia sentito il bisogno di aggiornare il Codice deontologico medico per escludere la punibilità, in via disciplinare, del medico che cooperi al suicidio assistito alle condizioni individuate dalla Corte costituzionale[24]: ancora una volta, se la modifica apportata all’art. 580 c.p. dalla sentenza della Corte costituzionale rappresentasse una causa di giustificazione, si tratterebbe di una precisazione del tutto ultronea, in quanto il diritto costituzionale all’autodeterminazione nelle scelte di fine vita, esercitato alle condizioni precisate dalla Consulta, dovrebbe rendere lecita la condotta di chi vi coopera in ogni ramo dell’ordinamento, senza bisogno di modifiche normative a tal fine.

 

8. Così impostata la questione, è possibile fare qualche ultima considerazione sulle conseguenze che ne derivano, in termini di interpretazione della norma incriminatrice. L’inquadramento della “non punibilità” nell’ambito delle cause di giustificazione, infatti, avrebbe come conseguenza quella di lasciare immutata la fattispecie incriminata dall’art. 580 c.p., e di rendere leciti i fatti sussumili all’interno del perimetro di liceità individuato dalla Consulta. Al contrario, invece, ritenere che la dichiarazione di incostituzionalità abbia modificato il perimetro della tipicità significa incidere sulla struttura della norma stessa, modificandone di conseguenza il bene giuridico tutelato.

In particolare, tradizionalmente si è sempre ritenuto che l’art. 580 c.p. fosse rivolto a completare la tutela penalistica del bene vita inteso come diritto indisponibile o, addirittura, come bene presupposto per l’esercizio di tutti gli altri diritti, e, pertanto, sottratto ad ogni atto di disposizione da parte del suo titolare[25]. Nella Relazione al Re si legge che la scelta di non incriminare il suicidio – nella sua forma tentata – sia stata dettata non tanto da istanze di rispetto per la sfera di autodeterminazione individuale in una scelta tragica come quella di porre fine alla propria esistenza, quanto dalla ragione – prettamente utilitaristica – di evitare che la norma potesse avere un effetto controproducente sul bene tutelato, in quanto il rischio di subire una condanna penale, se il suicidio non si fosse consumato, avrebbe potuto spingere gli aspiranti suicidi a predisporre ogni aspetto per assicurarsi che l’esito letale potesse andare a “buon” fine[26].

Tale concezione, già messa in crisi dall’evoluzione della disciplina penalistica del fine-vita, avvenuta dapprima in via pretoria, quindi per effetto della l. 219/2017, sembra essere stata spazzata via definitivamente dalla sentenza della Corte costituzionale. La Corte, infatti, come abbiamo già evidenziato, dedica ampi spazi delle motivazioni, tanto nell’ordinanza quanto nella sentenza, ad individuare la ragione giustificativa della sanzione penale prevista dall’art. 580 c.p.: tale ratio della punizione è la “tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”[27]. La Consulta, con queste parole, si rifà quasi testualmente all’argomento usato dalla Corte di Strasburgo per giustificare le limitazioni che gli Stati appongono all’autodeterminazione individuale, garantita dall’art. 8 CEDU, in tema di suicidio assistito ed eutanasia: fin dal leading case in materia, infatti, la Corte edu aveva affermato che un divieto paragonabile all’art. 580 c.p. fosse legittimo in quanto “designed to safeguard life by protecting the weak and vulnerable and especially those who are not in a condition to take informed decisions against acts intended to end life or to assist in ending life[28]. Ancora più chiaramente, in una sentenza successiva, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto come l’art. 8 CEDU debba essere letto in coerenza con l’art. 2 della Convenzione stessa, e quindi interferenze con il diritto al rispetto della vita privata possano giustificarsi in quanto l’art. 2 “creates for the authorities a duty to protect vulnerable persons, even against actions by which they endanger their own lives[29].

Le argomentazioni delle Corti, tanto di quella costituzionale quanto di quella europea dei diritti dell’uomo, segnano un passaggio evidente dalla concezione paternalistica “forte”, propria del nostro come di altri sistemi penali, in cui si limita completamente la libertà dell’individuo per proteggerlo da se stesso, ad una forma di paternalismo più attenuata, c.d. soft, in cui le limitazioni alla libertà sono finalizzate, in buona sostanza, ad assicurarsi che la volontà dell’individuo si sia correttamente e liberamente formata[30]. Questa concezione si riflette, quindi, sulla struttura del nuovo art. 580 c.p., e dovrà necessariamente guidare non solo l’interprete, ma anche il legislatore che volesse finalmente intraprendere una eventuale riforma del campo che ci occupa: se, come ci pare più coerente con il tenore della motivazione, la Consulta ha delimitato l’ambito di legittimazione dell’intervento penalistico a tutela della vita come diritto (parzialmente) indisponibile a discapito dell’autodeterminazione individuale, si può ritenere che questo rappresenti il limite oltre il quale il legislatore non può spingersi senza incriminare condotte già in astratto inoffensive.

 

 

[1] Per una più completa e dettagliata ricostruzione del fatto, si veda la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Milano il 26 aprile 2017, pubblicata in penalecontemporaneo.it, 8 maggio 2017; pur trattandosi, infatti, di atto precedente il dibattimento, la configurazione della vicenda sotto il profilo fattuale non ha conosciuto significative modifiche, vertendo l’oggetto della discussione sempre e soltanto sulla liceità o meno della condotta posta in essere da Marco Cappato.

[2] Il provvedimento in esame è già stato oggetto di alcuni primi commenti, in particolare si vedano C. Cupelli, Il caso (Cappato) è chiuso, ma la questione (agevolazione al suicidio) resta aperta, in Sistemapenale.it, 6 febbraio 2020, e, più in generale, M. Donini, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male, in Sistemapenale.it, 10 febbraio 2019, in particolare p. 21, nt. 25.

[3] C. Cost., ord. 24 settembre 2019, n. 207, §8 del considerato in diritto.

[4] Ibidem.

[5] C. Cost., ord. n. 207 del 2019, §10 del considerato in diritto, in cui la Corte esplicita le ragioni per cui un intervento legislativo sarebbe preferibile alla declaratoria di incostituzionalità, al punto da indurre i giudici a sospendere il giudizio per consentire al legislatore di armonizzare la disciplina del fine-vita con i principi costituzionali; C. Cost., sent. 22 novembre 2019, n. 242, §5 del considerato in diritto, dove la Consulta individua le “specifiche cautele” necessarie ad evitare “intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti”.

[6] C. Cost., sent. n. 242 del 2019, §6 del considerato in diritto.

[7] Sul punto, con accento critico rispetto a quello che è individuato come “il ben noto problema del c.d. ‘prossimo passo’, o della ‘china scivolosa’”, si veda M. Romano, Aiuto al suicidio, rifiuto o rinuncia a trattamenti sanitari, eutanasia (sulle recenti pronunce della Corte costituzionale), in Sistemapenale.it, 8 gennaio 2020, pp. 9 ss.; contro questo tipo di argomentazioni, si veda per tutti G. Maniaci, Eutanasia e suicidio assistito, in F. Poggi (a cura di), Diritto e bioetica, Roma, Carocci, 2013, pp. 165 ss.

[8] Il Pubblico Ministero ed uno dei difensori, infatti, hanno chiesto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” ritenendo che la pronuncia della Consulta abbia eliso la tipicità delle condotte dichiarate “non punibili”, mentre il secondo difensore dell’imputato ha chiesto l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, qualificando tale “non punibilità” come scriminante di condotte di per sé tipiche. La ripresa video dell’udienza di discussione è disponibile sul sito di Radio Radicale, a questo link.

[9] Si vedano, in particolare, C. Cupelli, Il caso (Cappato) è chiuso, cit., par. 5 e M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 13 e p. 20. Tra i due, Cupelli sembra lasciare aperta la possibilità di un’interpretazione differente – simile a quella che si sostiene in queste pagine – ma ritiene che la sentenza della Corte costituzionale faccia propendere per la natura di scriminante procedurale.

[10] Non a caso, le riflessioni dottrinali sull’antigiuridicità si collocano più spesso sul versante del rapporto tra tale categoria generale e l’elemento della colpevolezza (da ultimo, si veda l’opera di F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Torino, Giappichelli, 2018), mentre meno indagato è il rapporto tra cause di giustificazione ed elementi negativi del reato, che pure è la categoria da cui le prime sono state enucleate.

[11] In questo si veda F. Viganò, Sub art. 59, in Codice penale commentato, fondato da E. Dolcini e G. Marinucci, diretto da E. Dolcini e G.L. Gatta, IV ed., Milano, Wolters Kluwer, 2015, pp. 1188 ss.

[12] G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, VIII ed., Milano, Giuffrè, 2019, p. 285; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VII ed., Torino, Zanichelli, 2014, p. 268.

[13] A ben vedere, entrambi gli aspetti di rilevanza della questione sono piuttosto smorzati con riferimento alla fattispecie in esame: da un lato, infatti, la complessità dell’elemento fattuale individuato dalla Corte costituzionale come idoneo a fondare la non punibilità del suicidio, nonché la procedura indicata per l’accertamento preventivo dei presupposti, rendono improbabile l’errore su tale elemento di fatto; ciò non esclude, tuttavia, che uno o più soggetti coinvolti nel procedimento possano incorrere in un’erronea rappresentazione della situazione stessa. Quanto al secondo profilo di differenza, poi, il fondamento costituzionale del diritto all’autodeterminazione – usato dalla Corte costituzionale per delimitare l’area di “non punibilità” dell’aiuto al suicidio – sembra precludere la possibilità di sanzionare le condotte in via civile, amministrativa o disciplinare a prescindere dalla qualifica che si dia, in ambito penalistico, a tale non punibilità, anche se diversa è la via attraverso cui giungere a tale armonizzazione.

[14] F. Consulich, Stat sua cuique dies. Libertà o pena di fronte all’aiuto al suicidio, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 1, 2019, pp. 120 ss.

[15] M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 20.

[16] G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale, cit., 2019, p. 286.

[17] F. Consulich, Stat sua cuique dies, cit., p. 133.

[18] Ci sembra che la Corte non avrebbe potuto seguire neanche una strada analoga a quella che ha adottato nella recente decisione (di cui ad oggi è diffuso solo il comunicato stampa) in materia di retroattività dell’applicazione dell’art. 4-bis ord. penit. ai reati contro la pubblica amministrazione per effetto della l. 3/2019, optando per la formula della sentenza interpretativa di accoglimento. Nel caso che ci occupa, infatti, la Corte avrebbe dovuto dichiarare incostituzionale l’interpretazione di una norma diversa da quella oggetto del giudizio di costituzionalità, ossia l’art. 51 c.p., letto in combinato disposto con le norme costituzionali da cui la Corte ricava il diritto all’autodeterminazione nelle scelte di fine-vita.

[19] E infatti, M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 20, richiama proprio l’art. 119, c. 2, c.p. come fondamento per estendere l’operatività del diritto a suo parere riconosciuto dalla Corte a favore del malato terminale; questa strada, peraltro, era stata proposta in sede di richiesta di archiviazione nel procedimento conclusosi con la sentenza in commento (foglio 14) e rigettata dal Giudice per le indagini preliminari di Milano con l’ordinanza per la formulazione dell’imputazione a seguito di richiesta di archiviazione non accolta (p. 31); entrambi i provvedimenti sono reperibili sul sito www.penalecontemporaneo.it.

[20] Si veda, per una lettura in questo senso dell’ord. 207/2018, F. Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la via alla liceità delle condotte di aiuto al suicidio “medicalizzato”, in F.S. Marini – C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, Napoli, ESI, 2019 e in Dir. pen. cont., 30 aprile 2019, passim.

[21] C. Cost., ord. 24 settembre 2019, n. 207, §9 del considerato in diritto.

[22] C. Cost., sent. 22 novembre 2019, n. 242, § 2.3 del considerato in diritto.

[23] Questo criterio discretivo fondato sulla differenza tra bilanciamento in astratto e bilanciamento in concreto è ben espresso, nella manualistica, da G. De Francesco, Diritto penale. Principi, reato, forme di manifestazione, Torino, Giappichelli, 2018, p. 277.

[24] Gli indirizzi applicativi all’art. 17 del Codice deontologico, dedicato agli “atti finalizzati a provocare la morte” recitano ora: “La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare” (https://portale.fnomceo.it/suicidio-assistito-la-fnomceo-aggiorna-il-codice-deontologico/).

[25] A. Valsecchi, Sub art. 580, aggiornato da T. Trinchera, in Codice penale commentato, fondato da E. Dolcini e G. Marinucci, diretto da E. Dolcini e G.L. Gatta, IV ed., Milano, Wolters Kluwer, 2015, p. 2934.

[26] Lavori preparatori del Codice Penale e del Codice di Procedura Penale, Vol. V – Progetto definitivo di un nuovo Codice penale con la Relazione del Guardasigilli on. Alfredo Rocco, Parte II – Relazione sui Libri II e III del Progetto, § 663.

[27] C. Cost., sent. 242/2019, § 2.2 del considerato in diritto, in cui si riprende testualmente il §6 del considerato in diritto dell’ord. 207/2018.

[28] Corte eur. dir. uomo, IV sez., sent. 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito, §74.

[29] Corte eur. dir. uomo, I sez., sent. 20 gennaio 2011, Haas c. Svizzera, §54.

[30] Sul tema sia consentito rinviare qui solamente a J. Feinberg, The moral limits of the Criminal Law. Vol. 3 - Harm to self, New York-Oxford, Oxford University Press, 1986, pp. 12 ss.