Scheda  
29 Luglio 2022


Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 3/2022 - Il caso A.F. contro Italia davanti al Comitato CEDAW


Coordinamento scientifico: Claudia PecorellaElena BiaggioniLuisa BontempiElisabetta CaneviniNoemi CardinalePaola Di Nicola TravagliniMassimiliano DovaFrancesca GaristoFabio Roia

 

I pregiudizi giudiziari contro le donne all’esame di organismi internazionali: il caso A.F. contro Italia

di Paola Di Nicola Travaglini 

 

Con la pronuncia A.F. contro Italia (148/2019) del 20 giugno 2022 (in allegato la traduzione non ufficiale) il Comitato CEDAW ha ritenuto che lo Stato italiano abbia violato gli artt. 2, 3, 5 e 15 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW)[1] nel caso di una donna che il giorno successivo all’aggressione dell’ex marito aveva denunciato di essere stata stuprata proprio dall’agente della polizia giudiziaria, C.C., incaricato delle indagini, che si era presentato nel suo appartamento adducendo falsamente di avere informazioni sul suo caso. È la prima volta che il Comitato CEDAW[2] (da ora in poi Comitato) si pronuncia su un caso italiano, tanto da rendere questa decisione di particolare rilievo perché promana da un organismo dell’ONU.

 

PERCORSO GIUDIZIARIO

Il Tribunale di Cagliari aveva condannato C.C. a sei anni di reclusione per violenza sessuale, dichiarando la prescrizione per il reato di molestie telefoniche, sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, A.F., per come ulteriormente comprovate dai testimoni che da questa avevano appreso delle violenze subite (avvocato, psicologo, medico del Pronto soccorso, altro Carabiniere, amiche) e da altre donne, con cui l’uomo aveva intrattenuto relazioni tutte cessate per le sue condotte persecutorie e violente (una delle quali contattata sempre nel corso di indagini di Polizia giudiziaria); sull’analisi del DNA dello sperma; sui tabulati telefonici; sulla certificazione medica della ginecologa, ritenendo illogica la versione dell’imputato.

 

La Corte di appello di Cagliari aveva assolto C.C. per insussistenza del fatto per le incongruenze rinvenute nelle divere dichiarazioni rese da A.F., con specifico riguardo alla ritenuta illogicità dei comportamenti assunti dalla donna prima e dopo il denunciato stupro, con particolare riferimento (§ 2.15 della decisione del Comitato): a) al non avere segnalato al medico fiscale la presenza in casa del Carabiniere che poi l’avrebbe violentata;  b) al mancato riferimento all’uso del preservativo; c) all’avere messo da parte le lenzuola in cui era avvenuto il delitto, al fine di comprovarlo; d) all’avere fatto da palo mentre C.C. usciva verificando che non ci fosse nessuno; e) all’avere telefonato a due amiche dopo lo stupro. Sulla base di questi elementi i giudici avevano ritenuto che la donna avesse «ceduto, in un momento di debolezza, alla seduzione del carabiniere, rendendosi poi conto di essere stata semplicemente usata per un’avventura momentanea, e per essere stata, subito dopo, abbandonata dall’altro uomo di cui si era nel frattempo innamorata» e che si fosse recata in ospedale per proteggere la sua reputazione e così «vendicarsi dell’imputato». I certificati medici che rivelavano i lividi sulle ginocchia e le perdite ematiche erano stati interpretati come una prova «dell’esuberanza» di C.C. e della sua «capacità di seduzione».

 

La Corte di Cassazione aveva rigettato il ricorso della parte civile ritenendo - dati i limiti del giudizio di legittimità, volto ad accertare solo la tenuta del discorso giustificativo del provvedimento impugnato - congrua e logica la motivazione della Corte di appello sia sull’uso del preservativo come prova della «consensualità del rapporto sessuale», sia sull’inattendibilità della testimonianza della persona offesa.

 

LA DECISIONE DEL COMITATO CEDAW

La ricorrente, tramite avvocate specializzate in diritti umani delle donne, ha denunciato al Comitato l’utilizzo di stereotipi sessisti, puntualmente elencati, da parte della Corte d’appello, tali da impedirle la tutela dei propri diritti fondamentali, non censurati dalla Corte di Cassazione che, infatti, non ne aveva rilevato il contrasto con la CEDAW e con le sue Raccomandazioni (§§ 3.1. ss. e §§ 5.1 ss.)[3].

 

Lo Stato italiano, nell’escludere la fondatezza del ricorso, dopo avere precisato che l’obbligo della rinnovazione delle prove orali in appello nel nostro sistema vale solo se si ribalta una sentenza di assoluzione (§§ 7.4 ss.), ha richiamato i progressi del nostro Paese in materia di violenza contro le donne, sotto il profilo legislativo e formativo, e il pieno rispetto della Convenzione di Istanbul[4] e della CEDAW del nostro sistema penale (§§ 4.5 ss.).  

 

Il Comitato, verificato che la ricorrente aveva esaurito tutte le vie di ricorso interno, ha spiegato che la disuguaglianza cui sono esposte le donne non è basata solo su leggi e procedure, ma risiede «anche nella mancanza di capacità e consapevolezza delle istituzioni giudiziarie e paragiudiziarie di affrontare adeguatamente le violazioni dei diritti umani delle donne» e che «stereotipi e pregiudizi di genere nel sistema giudiziario hanno conseguenze di vasta portata sul pieno godimento dei diritti umani da parte delle donne (…) distorcono le percezioni e portano decisioni basate su credenze di preconcetti piuttosto che su fatti rilevanti (…) Gli stereotipi influiscono anche sulla credibilità delle voci, delle argomentazioni e delle testimonianze delle donne come parti e testimoni. Questi stereotipi possono indurre i giudici a interpretare o applicare in modo errato le leggi» (§ 7.5). Con specifico riferimento all’ambito del diritto penale, gli stereotipi fanno sì che «i colpevoli non vengano ritenuti legalmente responsabili per le violazioni dei diritti delle donne, sostenendo così una cultura dell’impunità. In tutti i settori del diritto, gli stereotipi compromettono l’imparzialità e l’integrità del sistema giudiziario e possono, a loro volta, portare a errori giudiziari compresi la rivittimizzazione dei denuncianti» (§ 7.5). 

 

Nel caso specifico, il Comitato ha rilevato come la Corte di appello abbia ribaltato la decisione del Tribunale formulando ipotesi ed esaminando prove alla ricerca «di giustificazioni alternative» e abbia fondato la propria decisione «solo su stereotipi di genere profondamente radicati che hanno portato ad attribuire un peso probatorio maggiore al racconto dell’imputato, che è stato chiaramente preferito, senza alcun esame critico delle argomentazioni della difesa» (§ 7.16):

 

la prova del preservativo ha portato ad escludere l’assenza di consenso «poiché se C.C. si fosse soffermato a mettere il preservativo, ci sarebbe stato un momento in cui una vera vittima di stupro sarebbe certamente fuggita» (§ 7.9);

i lividi sulla parte interna delle ginocchia della donna, in assenza di una spiegazione dettagliata dell’esatta natura della forza usata per tenerla giù, «potevano essere spiegati dall’esuberanza di un incontro consensuale. [La Corte] ha respinto tutte le prove peritali dell’ospedale, del ginecologo, dello psicologo, dell’avvocato e di altri testimoni come non attendibili, in quanto si basavano sulla versione dei fatti fornita dall’autrice [A.F.] dopo aver preso la decisione di incriminare C.C. e di farlo cinicamente entro i termini di legge» (§ 7.9);

[la Corte] ha concluso che «le scelte e i comportamenti lucidi dell’autrice non erano indicativi di una persona che era stata violentata (…) ha ritenuto sospetto il fatto che l’autrice avesse raccolto prove fisiche dopo l’aggressione e avesse cercato di prendere l’imputato in trappola. La Corte ha sostenuto che una donna single e non molto giovane sarebbe intrinsecamente preoccupata della sua reputazione che potrebbe essere compromessa da una relazione sessuale occasionale con un uomo più giovane, di cui dovrebbe essere lusingata e che è prevedibile che una donna di questo tipo diventi vendicativa in caso di rifiuto (…) La Corte ha anche affermato che una donna potrebbe inventare le accuse di stupro per vendicarsi o per ottenere un accesso prioritario ai servizi sanitari e ha ritenuto che questa fosse la narrazione più probabile rispetto ad affermazioni dell’autore» (§ 7.11);

dal canto suo, «la Corte di cassazione ha ritenuto che tali argomentazioni fossero logiche» (§ 7.13);

il trattamento riservato alla donna, prima dalla Corte di appello e poi «aggravato a livello di Corte di cassazione, non è riuscito a garantire l’uguaglianza di fatto dell’autrice in quanto vittima di violenza di genere e nasconde una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, dell’implicazione delle complessità dell’abuso di autorità, compreso l’uso e l’abuso di fiducia, dell’impatto dell’esposizione a traumi consecutivi, dei complessi sintomi post traumatici, tra cui la dissociazione e la perdita di memoria, e delle specifiche vulnerabilità e necessità delle vittime di abusi domestici» (§ 7.17).

 

LE CONCLUSIONI DEL COMITATO

Le conclusioni sono molto nette e partono dal presupposto che la donna che ha denunciato violenza non solo non è stata protetta dal sistema giudiziario italiano, ma ha subito danni morali e sociali proprio a causa degli stereotipi sessisti utilizzati dalla magistratura.

 

La decisione del Comitato prevede come effetto sia il risarcimento della ricorrente, sia precise Raccomandazione allo Stato italiano che dovrà rispondere, entro sei mesi per iscritto, su quali azioni siano state intraprese riguardo a:

 

formazione puntuale e capillare di magistratura, avvocatura e forze di polizia, sugli stereotipi sessisti che impediscono alle donne di accedere, in condizione paritaria, alle aule di giustizia; sulla CEDAW e sulle Raccomandazioni generali del Comitato, in particolare quelle numero 19, 33 e 35; 

 

programmi specifici sulla dimensione giuridica, culturale e sociale della violenza contro le donne e sulle discriminazioni di genere, specificamente indirizzati a «magistrati, avvocati, personale addetto all’applicazione della legge e personale medico»;

 

monitoraggio di strategie per eliminare gli stereotipi di genere nei casi di violenza contro le donne anche analizzando le sentenze con strumenti di denuncia e controllo dei casi di stereotipizzazione giudiziaria (lett. c);

 

misure legislative che introducano il consenso come elemento determinante per accertare la violenza sessuale e quando questo viene invocato dalla difesa porre l’onere della prova a carico dell’imputato; eliminare dalla disposizione penale il requisito della violenza.

 

OSSERVAZIONI FINALI

Questa decisione è la seconda proveniente da organismi internazionali, in poco più di un anno, volta a stigmatizzare l’uso di pregiudizi giudiziari sessisti da parte della magistratura italiana nei confronti di donne che avevano denunciato violenza sessuale[5].

Nel caso J.L. contro Italia del 27 maggio 2021 la Corte EDU con riferimento ad un’assoluzione per violenza sessuale di gruppo aveva qualificato «deplorevoli ed irrilevanti» i riferimenti alla vita non lineare della vittima (§ 136) e aveva ammonito la magistratura italiana ad evitare «di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni»; a minimizzare la violenza di genere e ad esporre le donne a una vittimizzazione secondaria con modalità colpevolizzanti e moralizzatrici volte a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia (§§ 140 e 141)[6].

Non va meglio sul fronte della violenza domestica in cui nell’arco di soli tre mesi l’Italia è stata condannata tre volte dalla Corte EDU per inazione o passività colpevole della magistratura[7]

Il monito del Comitato è chiaro: chi giudica un caso di violenza sessuale è obbligato, culturalmente e giuridicamente, a mettere in discussione automatici meccanismi valutativi frutto di un sistema culturale millenario[8], nella consapevolezza dell’inquinamento conoscitivo di cui ognuno è vittima, per far sì che si possano valutare fatti e prove in modo rigoroso e oggettivo.

Ogni valutazione, di norme o comportamenti umani, consente interpretazioni plurime e ragionevolmente diverse, in competizione o in vero e proprio conflitto tra loro. La scelta tra le interpretazioni possibili si compie all’interno di un processo logico e cognitivo i cui legami si connettono secondo modalità profonde e sottili[9] ed è destinata a ricadere sulla lettura più aderente al senso comune, perché questo parla il linguaggio della plausibilità e della pertinenza che allinea i fatti[10] secondo un ordine invisibile, ma prestabilito, da tutti accettato[11]. L’ordine è una nozione cardine dell’universo giuridico, religioso, morale dei popoli indoeuropei[12].

 

In tale visione ciò che sfugge e quindi non viene considerato perché estraneo all’ordine sono le donne, e in particolare la loro libertà, non incasellabile nel corso di eventi causalmente riconoscibili, in quanto estranea a chi legge i fatti, li interpreta e li colloca secondo una narrazione cui si impone la coerenza.

 

La dimensione assiologica della decisione si esprime attraverso la motivazione con cui il giudice giustifica le sue scelte e il suo/nostro ordine, dando forma ai giudizi di valore da cui essa dipende[13]. Tanto più questi si assimilano agli stereotipi e ai pregiudizi sessisti[14], tanto più quella decisione sarà ritenuta giusta, perché coerente rispetto ad una struttura di potere interiorizzata e naturalizzata[15]. La sentenza, aldilà del decidere il caso concreto e dare la percezione di limitarsi ad ‘applicare la legge’, assume una natura performativa, sebbene i fatti vengano letti e narrati in base ad eventi ritenuti ‘concepibili’ dall’interprete [16] e se tali non sono, come nel caso del racconto di una vittima imperfetta - intendendosi per tale quella che è single, che si fida, che accoglie un uomo in casa, che beve, che balla, che è disinibita, ecc. - questi diventano inverosimili non soltanto perché non corrispondono all’esperienza culturalmente e inconsapevolmente acquisita (coincidente con il mito dello stupro), ma anche perché imporrebbero di mettere in discussione la struttura introiettata dei ruoli di genere e del rapporto gerarchico tra i sessi cioè l’ordine.  I comportamenti che violano le nostre abitudini logiche ed epistemologiche sono inconcepibili[17] e non rientrano nel quadro culturale dell’interprete che, pertanto, non può riconoscerli, nominarli, attribuire credibilità a chi li assume[18]. Se facesse altrimenti crollerebbero le fondamenta del suo apparato conoscitivo con il quale legge la realtà e attua le norme.  

 

L’assoluzione dal reato di violenza sessuale quando non è motivata su elementi di fatto, ma su convincimenti soggettivi di plausibilità, costitutivi del mito dello stupro, è solo il frutto di un livello di interpretazione fondata sull’illusione di un mondo coerente che, in quanto tale, espunge da sé, rendendola inconcepibile, una donna che si neghi alla volontà maschile. Una donna del genere, in astratto, può anche esistere per il giudice, ma si pone aldilà della sua ‘capacità’ di prestarle fede, perché i criteri di credibilità e attendibilità sono selezionati sulla base di regole, giuridiche e morali, messe a nostra disposizione da quella che Umberto Eco definisce l’enciclopedia semiotica[19], cioè la conoscenza corrente del mondo, l’unica che si ritiene valida. E una donna libera non è coerente con l’assetto di potere dato, così come non è coerente la relazione che questa intreccia con il mondo in cui vive, nel quale è accettata e, dunque, credibile soltanto se sottomessa e silente[20], secondo gli stereotipi di ruolo imposti al genere femminile.

 

La decisione del Comitato, da leggere insieme a quella della Corte EDU nel caso J.L. contro Italia, ha un valore storico e giuridico deflagrante perché, aldilà del caso esaminato, richiama ogni giudice a scardinare convinzioni, mai messe in discussione fino a oggi, compreso il principio di imparzialità su cui agiscono gli stereotipi nei confronti sia delle donne vittime di violenza di genere, sia, in modo uguale e contrario, degli uomini che ne sono autori. L’assunto da cui partono le fonti internazionali è che per contrastare la violenza maschile, quale fenomeno radicato nella cultura e nel rapporto tra i sessi, sia necessario estirpare i modelli legati ai ruoli sociali delle donne e degli uomini. Solo rendendosi consapevoli dell’esistenza e della dinamica di questi si potrà comprendere il contesto in cui le relazioni violente crescono e si alimentano. Gli strumenti giuridici per prevenire e punire la violenza di genere li abbiamo, ma non sempre li applichiamo per l’inconsapevole stereotipo giudiziario[21] che mina l’imparzialità in diversi modi: distorcendo la realtà; omettendo elementi essenziali; colpevolizzando le vittime e ritenendole non credibili perché il loro comportamento non risponde a quello che si ritiene avrebbero dovuto assumere; ridimensionando la violenza denunciata e giustificando le condotte violente; causando un’errata interpretazione delle norme giuridiche e, con tutto questo, incidendo sulla decisione finale[22]. L’imparzialità è un lungo faticoso percorso che richiede un costante controllo sulla produzione giuridica nella consapevolezza che è, innanzitutto, una produzione culturale.

 

 

[1] La CEDAW è una Convenzione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979 e
ratificata da 187 Paesi (in Italia con la legge n. 132 del 1985). Sul rapporto tra CEDAW e sue Raccomandazioni e il sistema giudiziario italiano cfr. P. Di Nicola Travaglini e F. Menditto, Codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi, Milano, 2020, p. 29 e ss.

[2] Il Comitato CEDAW, composto da 23 esperte di tutto il mondo, è un organismo previsto dalla Convenzione che oltre a monitorarne l’attuazione da parte degli Stati firmatari viene adito da chiunque ritenga violato, in modo grave e sistematico, un diritto in essa riconosciuto (art. 8 Protocollo). Sul ruolo del Comitato cfr. P. Degani, Nazioni Unite e “genere”: il sistema di protezione internazionale dei diritti umani delle donne, Università̀ di Padova, Centro di studi e formazione sui diritti della persona e dei popoli, Padova, 2001.

[3]  Comitato CEDAW, Causa Vertido contro Filippine, pubblicata in italiano (traduzione non ufficiale a cura di E.

Biaggioni e S. Lupi) in C. Pecorella (a cura di), Donne e Violenza. Stereotipi culturali e prassi giudiziarie, Torino, 2021, p. 113 ss.

[4]Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014, a seguito del raggiungimento del prescritto numero di 10 ratifiche. Ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77.

[5]  P. Di Nicola Travaglini, I pregiudizi di genere dei giudici italiani davanti alla Corte Edu, in Resp. civ. e prev., 2022, n. 1-2, pp. 350 ss.

[6]  Sulla sentenza, oltre al commento di N.M. Cardinale, Troppi stereotipi di genere nella motivazione di una sentenza assolutoria per violenza sessuale di gruppo: la Corte EDU condanna l’Italia per violazione dell’art. 8, in questa Rivista v. P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima imperfetta. Riflessioni a margine della sentenza della Corte EDU J.L. contro Italia del 27 maggio 2021, in Questione giustizia; F. Saccà (a cura di), Stereotipo e pregiudizio. La rappresentazione giuridica e mediatica della violenza di genere, Roma, 2021; J. Benevieri, Cosa indossavi? Le parole nei processi penali per violenza di genere, Roma, 2022.

[7] Corte EDU, 7 aprile 2022, Landi c. Italia, in cui la mancata tutela aveva portato all’uccisione del bambino da parte del padre violento già denunciato dalla madre; Corte EDU, 16 giugno 2022, De Giorgi c. Italia, in cui erano state 7 le inascoltate denunce della donna, qualificate conflitti familiari; Corte EDU, 7 luglio 2022, M.S. c. Italia, in cui, nonostante le numerose denunce per maltrattamenti e lesioni, la ricorrente non ha ricevuto protezione da parte dello Stato e, anzi, molti procedimenti sono caduti in prescrizione a causa di ritardi nella prosecuzione delle indagini e di inadempienze processuali. Per uno studio specifico sulle sentenze di merito in materia di maltrattamenti tra familiari e conviventi: C. Pecorella e M. Dova, La violenza nelle relazioni affettive: uno sguardo sulle prassi giudiziarie in Lombardia, in C. Pecorella (a cura di), Donne e violenza, cit.

[8] P. Di Nicola, La mia parola contro la sua, quando il pregiudizio è più importante del giudizio, Milano, 2018; F. Héritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Roma-Bari, 2010.

[9] C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, 2013.

[10] U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, 1990.

[11]  P. Di Nicola Travaglini, La legittima difesa delle donne nell’omicidio conseguente a reati di violenza di genere, in C. Pecorella (a cura di), La legittima difesa delle donne. Una lettura del diritto penale oltre pregiudizi e stereotipi, Milano-Udine, 2022, p. 151.

[12] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. Potere, diritto, religione, Torino, 2001, Vol. II, 357-358.

[13] R. Hunter, C.  Mc Glynn, E. Rackley, Feminist Judgments: From Theory to Practice, Oxford, 2010.

[14] E. Biaggioni, La difficile posizione delle vittime di violenza sessuale: l’insostenibile confronto con il pregiudizio sulla scarsa attendibilità della persona offesa e lo stereotipo dello stupratore modello, in questa Rivista; E. Biaggioni, Reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, tra esigenze reali e stereotipi, in C. Pecorella (a cura di), Donne e violenza, cit.; A.N. Pinna, Violenza sessuale e ricerca del dissenso della vittima: la difficoltà dei giudici di merito a recepire gli insegnamenti della Corte di Cassazione, in questa Rivista.  

[15] Sul processo di naturalizzazione degli stereotipi di genere v. Aa. Vv., Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia, Roma, 2013.

[16] M. Taruffo, Verso la decisione giusta, Torino, 2020, p. 115.

[17] P. Bourdieu, il dominio maschile, Milano, 2017.

[19] U. Eco, Lector in fabula, Milano, 1979.

[20]  Cfr. F. Bilotta, F. Raimondi (a cura di), Il soggetto di diritto. Storia ed evoluzione di un concetto nel diritto privato, Napoli, 2020, Prefazione, XXIII «(…) il diritto dovrebbe anzitutto essere strumento per rendere possibile un governo delle relazioni tra i soggetti e impedire il sorgere o il permanere di un rapporto di dominio unilaterale».

[21]  OHCHR, Gender Stereotyping as a Human Rights Violation: Commissioned Report (2013); OHCHR, Eliminating Judicial Stereotyping, equal access to justice for women in gender-based violence cases (2014).

[22] S. R. Cook e S. Cusack, Gender Stereotyping Transnational Legal Perspectives, Univerity of Pennsylvania Press, 2010, 59-68; C.M. Steele, Whistling Vivaldi: And Other Clues to How Stereotypes Affect Us, New York, 2010.

La potenza degli stereotipi è che sono destinati ad autoavverarsi, diventando realtà anche in senso statistico a conferire identità e a razionalizzare la disuguaglianza.