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  Recensione  
02 Dicembre 2022


La speranza della “rieducazione” e del cambiamento contro la “disperanza” dell’afflizione

A proposito di R. Bartoli, Introduzione al diritto penale tra violenza e costituzionalismo, Giappichelli, 2022



* Testo della relazione presentata a Bologna il 7 novembre 2022 in occasione della Discussione del libro di Roberto Bartoli “Introduzione al diritto penale tra violenza e costituzionalismo”

 

“Perché e cosa significa punire” resta in larga parte un mistero ma il libro di Roberto Bartoli conduce verso la consapevolezza che il significato esistente contrapposto all’inesistenza di significato dell’afflizione sono la speranza della rieducazione e del cambiamento contro la “disperanza”  della punizione.  

 

La domanda essenziale del diritto penale. – Secondo gli studiosi di pedagogia l’insegnamento di qualsiasi disciplina muove da una domanda “essenziale”, un quesito che serve da apri-porte o lente attraverso il quale meglio vedere ed esplorare i concetti principali, i temi, le teorie e i problemi che pone ogni “materia”. In questa prospettiva, essenziali sono le domande che corrispondono a tre requisiti: sono “importanti” e “senza tempo”; ampie nello scopo e universali per loro natura; “elementari” o “fondamentali”, vitali e necessarie. In termini più sintetici, la caratteristica di una domanda essenziale è di trascendere lo scopo di informare verso una più profonda e penetrante visione del problema e del contenuto stesso di un certo ambito del “sapere”.

Nel diritto penale la domanda essenziale secondo Roberto Bartoli è “perché e cosa significa punire?”. La risposta procede da una chiara presa di posizione metodologica. La riflessione - osserva l’autore - potrebbe concentrarsi nella chiave della definizione formale della materia, che resta iscritta nell’esclusività del nesso biunivoco tra reato e pena: il reato è l’illecito punito con la pena e la pena è la sanzione del reato. Questa nozione ha il pregio di essere intimamente connessa con il principio di legalità ma, in realtà, è del tutto parziale perché indica soltanto cosa punisce la pena senza gettare luce né sul perché e sul significato della punizione, né sullo specifico della punizione penalistica. Si tratta, quindi, di una risposta non esaustiva perché non fornisce alcuna indicazione in ordine alla legittimazione ed ai limiti del potere punitivo.

Aborriamo l’espressione reato penale che la circolarità della definizione formale rende appunto ridondante e tautologica. La locuzione illecito penale, invece, è corretta. Gli illeciti possono essere anche civili, amministrativi, contabili. Ogni reato è un illecito ma non tutti gli illeciti sono reati; ogni pena è una sanzione/punizione ma non ogni sanzione/punizione è una pena. La domanda essenziale del diritto penale dev’essere, quindi, precisata: “perché e cosa significa punire con la pena?”. In altri termini, “perché e cosa significa punire?” è la domanda del genus del diritto punitivo; “perché e cosa significa punire con la pena?” è la domanda della species diritto penale. La risposta a quest’ultimo interrogativo per forza di cose richiede qualcosa di più rispetto alla prima.

 

Riserva di legge e democrazia tra esercizio del potere punitivo legittimo ad esercizio legittimo del potere punitivo penale. – Ma non è tutto. La collocazione del potere punitivo in mano pubblica, quale alternativa al sistema della vendetta, non costituisce di per sé una garanzia e non impedisce affatto il perseguimento e la realizzazione di «finalità liberticide»[1]. Nemmeno il principio democratico offre garanzie sufficienti. Che un potere sia legittimato dal consenso popolare non comporta di per sé anche l’esercizio di un potere legittimo o, forse meglio, l’esercizio legittimo del potere[2].

            Questo dislivello fu già chiaro nelle prime evoluzioni demitizzanti dell’illuminismo quasi naif degli esordi. Poco più di dieci anni dopo i sillogismi dell’Esprit des loix, Rousseau scriveva che il «popolo da sé solo vuol sempre il bene, ma da solo non riesce sempre a vederlo. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non è sempre illuminato». Se «gli individui vedono il bene che vogliono, la collettività vuole il bene che non vede». Ad entrambi occorre una «guida» che obblighi gli «uni a conformare la volontà della ragione» e «l’altra di riconoscere quel che vuole»[3]. Sorse così la necessità di un legislatore[4] per conciliare queste opposte o comunque potenzialmente divergenti esigenze ma - conclude il filosofo francese - in realtà «ci vorrebbero gli dei per dare» leggi giuste «agli uomini»[5]. L’illusione della legge «automaticamente buona»[6] si dissolse ben presto finendo in poco tempo nell’archivio dei «sogni d’oro» della filosofia del diritto[7]. «Oh fantolino, puro e ingenuo bambinello» chi ci crede ancora chioserà causticamente Rawls[8].

Beninteso, non si tratta affatto di negare l’inesistenza di alternative migliori o, meno peggiori, rispetto alla combinazione tra riserva di legge e democrazia. Milita, in ogni caso, a favore dell’istituzione rappresentativa il fatto che non riflette una «stretta oligarchia» ma tutto il popolo[9]  nel contesto di un «ordinamento politico-istituzionale» che consente di riferire «la giustificazione ultima del diritto penale al consenso dei cittadini ordinato secondo il principio democratico»[10]. In questa prospettiva, nelle democrazie contemporanee, nonostante l’evidenza dei fattori di crisi, la riserva formale di legge continua a possedere l’irrinunciabile e insuperabile qualità di scaturire da un procedimento di formazione pubblico e trasparente, che si svolge al cospetto dell’opinione pubblica e che coinvolge l’intera rappresentanza politica, composta da maggioranza e minoranze. 

Identificare la riserva di legge con il criterio maggioritario nella formazione della volontà legislativa significa, quindi, fornire una visione riduttiva e deformante della democrazia[11]. Indica un’ideale di difficile realizzazione e ancora più ardua commisurazione l’affermazione che in questo contesto le scelte legislative, oltre alla volontà della maggioranza parlamentare, devono riflettere un consenso “sociale” consistente e soggetto a costante verifica[12]. Ciò nonostante, la democrazia, pur non essendo di per sé in grado di porre limiti, «è - come osserva Bartoli - in grado di orientare la penalità secondo le esigenze di tutela che si pongono di volta in volta»[13]. L’alternativa alla stessa “democrazia - è stato autorevolmente osservato - resta «una parola vuota»[14].

Queste considerazioni, tuttavia, attengono al piano della legittimazione del potere punitivo penale. Sono assunti che non esauriscono affatto la cruciale questione dell’esercizio legittimo. Sotto questo profilo vengono in rilievo le garanzie, che segnano lo scarto tra le due prospettive. Dire democrazia vuol dire legittimazione dell’esercizio, condizione necessaria ma non sufficiente dell’esercizio legittimo. Non si dà esercizio legittimo del potere senza che l’esercizio del potere sia legittimo, ma la legittimità del potere non corrisponde alla legittimità dell’esercizio. La legittimazione del potere, a sua volta, evoca limiti formali che l’esercizio legittimo eleva sul piano di contenuti sostanziali. Dire garanzie vuol dire limiti ma dire limiti non vuol dire necessariamente garanzie.

 

L’esercizio legittimo del potere punitivo penale. – Nella prospettiva giuridico-formale, la chiave di volta di queste “trasformazioni”[15] risale al costituzionalismo. Con la fondazione dell’alternativa legittimazione/legittimità è divenuta possibile l’istituzione di «un effettivo controllo e una reale limitazione»[16]. È appena il caso di sottolineare l’evoluzione di questo vettore nel contesto dell’ordinamento multilivello che la novella dell’art. 117, co. 1, Cost. - com’è noto - ha ricondotto, anche se non ridotto, nell’orbita della “Carta”. È una trama di rapporti persino labirintica[17] che, tuttavia, risponde ad una formula operativa in astratto semplice e chiara. È l’addizione tra “costituzionalismo italiano” ed “europeo” [18], mai la sottrazione di contenuti del volet penal al di qua e al di là dei confini nazionali. Solo per chiarire con un esempio quasi for dummies. Se la norma non soddisfa il criterio della prevedibilità, l’illegittimità convenzionale si tramuterà in illegittimità costituzionale anche se la riserva di legge è stata rispettata. Viceversa, la prevedibilità della norma non “sana” il contrasto con l’art. 25 della Costituzione se la fonte non è la legge ma la giurisprudenza, per quanto consolidata possa essere. La legge dev’essere diritto, ma il diritto di per sé non è legge.

In un’ottica filosofico-politica, invece, il cardine è il set di assiomi del garantismo che «non esprimono proposizioni assertive, ma proposizioni prescrittive; non descrivono ciò che accade, ma prescrivono ciò che deve accadere; non enunciano le condizioni che un sistema penale effettivamente soddisfa, ma quelle che esso deve soddisfare in aderenza ai suoi principi normativi e/o a parametri di giustificazione interna»[19].

Questi vettori, interagendo tra loro, hanno trasformato la penalità[20] secondo una dinamica che dal vertice irradia una sorta di memoria di forma costituzionale-garantista.

Il precipitato ordinamentale è una nuova visione del potere punitivo penale soggetto ad un controllo di legittimità sotto il duplice profilo del legittimo esercizio e dell’esercizio legittimo. Lo snodo principale di questa verifica è, ancora una volta, il principio della riserva di legge, che si guardi alla realtà nazionale ovvero a quella sovranazionale.

La dimensione di questo riferimento, tuttavia, è diversa rispetto al passato per almeno due ragioni tra loro strettamente correlate: per un verso, nel prisma della riserva di legge, confluiscono una serie di principi, corollari e di criteri che nel loro insieme presentano una forte valenza sostanziale: personalità della responsabilità penale e colpevolezza, tassatività e determinatezza, finalità rieducativa, offensività, la filiera dell’eguaglianza, proporzione e ragionevolezza. La «sinergia di questi … principi … - scrive Bartoli - ci libera dalle astrattezze giuridiche e porta la penalità a calarsi nella dimensione concreta»[21].

L’orizzonte dei principi costituzionali in materia penale si tramuta in quello dei principi penali della Costituzione. Il piano fondamentale ma pur sempre angusto delle fonti del diritto penale evolve sul piano dei contenuti della norma.

«Vero tutto questo», però, si «deve fare anche molta attenzione ed evitare di fraintendere il costituzionalismo», deformandolo in «una sorta di super-legge diretta a limitare eccessivamente la discrezionalità del legislatore»[22].

Al crocevia tra teoria generale e politica criminale, l’esempio della “meritevolezza di pena” rende bene l’idea. Il sindacato su questo profilo del potere punitivo penale segna il confine ultimo del controllo di “merito” che il costituzionalismo nazionale ed europeo consentono di attuare sull’esercizio del potere[23]. È, tuttavia, una frontiera del sindacato di legittimità estremamente problematica sul filo del rasoio tra democrazia, ragione e prevaricazione[24]. Il rischio è che il controllo sull’esercizio legittimo del potere penale venga operato con un’arbitraria sovrapposizione all’esclusiva prerogativa del Parlamento in malam partem.

Sul piano politico-criminale sono state emblematiche le discussioni, da tempo sopite ma non del tutto spente, sugli obblighi di tutela penale e sulla concezione costituzionale del bene giuridico. Sono fronti di engagement della Carta che non hanno mai conquistato, fino in fondo, l’esperienza giuridico-penalistica italiana anche perché proiettavano sulle norme costituzionali significati politicamente troppo forti e tensivi rispetto alla loro effettiva valenza selettiva.

Fatti salvi i casi di manifesta irragionevolezza nell’esercizio dell’opzione penale, la via maestra del sindacato sulla legittimità dell’esercizio del potere punitivo deve riguardare non tanto la scelta degli oggetti di tutela quanto piuttosto il rispetto di quella memoria di forma costituzionale che discende dai principi penali della costituzione sotto, ancora una volta, un duplice profilo: da un lato, la selezione diretta delle forme, dall’altro la selezione indiretta degli oggetti che da queste viene imposta.

Dalla “Teoria del reato” in poi di Franco Bricola, l’esame del primo profilo viene sviluppato svelando gli elementi di compenetrazione tra teoria generale e principi del costituzionalismo italiano ed europeo, quello che chiamiamo il volto costituzionale del diritto penale. È, come dire, una costruzione dell’alto della dogmatica o, volendo utilizzare un lessico meno impegnativo, della letteratura penalistica. Ha perso smalto, viene troppo spesso negletta, invece, quella che potremmo definire costruzione dal basso, che muove dal confronto tra gli elementi fondamentali del reato e della responsabilità penale e le stesse “basi” degli illeciti e della responsabilità civile. In passato non furono pochi gli studi di “comparazione” trans-settoriali. Per esempio, tra la fine del ‘900 e gli esordi degli anni ‘40 fiorirono le riflessioni sulla colpa civile e penale ma in seguito questo approccio è stato pressoché dismesso. Oggi Bartoli ripropone proficuamente quel metodo alimentando by the bottom le consolidazioni teoriche from the top.

 

Il diritto penale non è il diritto civile. – I caratteri distintivi della penalità sono così articolati seguendo una sorta di “partita doppia”.

La riflessione muove dall’assunto, diffuso anche nella manualistica italiana che la materia penale «a priori non esiste … esiste solo a posteriori»[25], quando un fatto (non necessariamente in via esclusiva) viene assoggettato alla sanzione della pena. Per questo la «penalità - chiosa l’autore - non s’identifica sulla base del rapporto oggetto della disciplina, ma sulla base del modo di disciplina, costituito dall’impiego di norme soltanto negative»[26], che si differenzia rispetto agli altri illeciti per tre caratteristiche: la sanzione afflittiva, vero e proprio marchio di fabbrica dell’illecito della penalità; la tipicità ovvero la particolare modalità di descrizione normativa del precetto ovvero del fatto illecito, consistente nella descrizione analitica; il potere punitivo di impiegare la violenza attraverso la sanzione e la scelta dei valori/interessi da tutelare.

Il realismo di questa impostazione lascia intravedere l’approdo ad un esito estremo e, per certi versi, quasi primordiale del disincanto, post-moderno. Una sorta di ritorno all’apofatica aristotelica. Provo a spiegarmi.

Il marchio di fabbrica della punizione è la sanzione, ma il marchio di fabbrica della punizione penale è l’afflizione, la “violenza” che il potere punitivo pubblico prevede, applica ed esegue senza che in realtà abbia alcuna utilità intrinseca, né sia immediatamente correlabile alla lesione cui fa seguito.

Le sanzioni ripristinatorie e impeditive giovano o possono giovare a prescindere, sia pure in misura e secondo modalità differenti. Le prime, la restituzione, il risarcimento del danno, la demolizione, la bonifica sono contraddistinte da una particolare «utilità pratica e immediata» strettamente collegata «al contenuto dell’illecito»[27].

Il risarcimento di un danno, per esempio, non è mai inutile. Il che, per un verso, spiega, o comunque concorre a spiegare, perché le funzioni ulteriori proprie di ogni sanzione, preventive o retributive che siano, contribuiscono in minima parte alla spiegazione del perché e cosa si “punisce” ripristinando in forma specifica o per equivalente il diritto leso.

In fondo, il risarcimento del danno giova comunque alla vittima anche se la sanzione viene addossata ingiustamente ad un soggetto diverso dall’autore. Lo stesso assioma permette, altresì, di comprendere perché l’ordinamento consente, in alcuni casi impone (si pensi alla RCA), il trasferimento dell’obbligazione risarcitoria a carico di un altro soggetto. Risarcire conta più che affliggere.

A differenza delle ripristinatorie, le sanzioni impeditive, sono tendenzialmente misure ad personam (fisica o giuridica che sia) e, quindi, non sono intrinsecamente utili “a prescindere”. Sul presupposto della coincidenza tra provvedimento inibitorio e persistente pericolosità dell’attività inibita, tuttavia, non si può negare l’utilità intrinseca e la pertinenza della sanzione con il contenuto dell’illecito[28].

Tutto questo non vale affatto per la sanzione afflittiva che - si insiste - di per sé non serve a nulla al di là della stessa inflizione della sofferenza. La sanzione afflittiva non reintegra il patrimonio leso o la situazione alterata dal reato, né inibisce o perlomeno contrasta il pericolo impresso nell’attività teatro dell’illecito. Anche nelle forme primordiali della vendetta simmetrica-speculare, la sanzione afflittiva è, per lo meno, eccentrica rispetto al fatto commesso. “Occhio per occhio” solo in apparenza lega la sanzione al fatto. L’occhio dell’autore non restituirà la vista alla vittima, segnalando soltanto il limite oltre il quale la reazione dell’offeso non si deve spingere.

Bartoli giunge a sostenere che l’afflittività deriva appunto dalla totale assenza di utilità della sanzione rispetto agli interessi immediati che ruotano attorno al fatto illecito. In ogni caso, la sanzione afflittiva colpisce l’autore in vista di obiettivi che non sono immanenti alla punizione ma la trascendono.

L’afflizione, infatti, è «un contenuto che comporta un coinvolgimento della persona» nel senso che il contenuto incide direttamente sui diritti e sulle libertà ad essa riconosciute[29]. Il tema - avverte l’autore - «non può essere liquidato dicendo che l’afflizione è il contenuto e non la funzione», o, in altri termini, che la funzione dell’afflizione è la stessa sofferenza.

«Il punto vero è che l’afflizione di per sé non giustificherebbe il suo impiego. Se la funzione della sanzione afflittiva fosse soltanto quella di affliggere, tale sanzione si rivelerebbe non solo irragionevole, ma addirittura del tutto irrazionale, proprio perché avrebbe come unico scopo quello di generare dolore. A ben vedere, l’afflizione non è fine a sé stessa, ma svolge funzioni del tutto peculiari che coinvolgono la persona e sono connesse al suo particolare contenuto afflittivo»[30].

Nel caso delle sanzioni ripristinatorie e interdittive struttura e funzione coincidono. Lo scopo è immanente alla reazione dell’ordinamento all’illecito. Non è così per il diritto penale, dove la funzione trascende la struttura.

Il diritto penale è un vuoto di senso, prima ancora che un pieno di senso. Il diritto penale è un significato “assente”, prima di essere un significato “presente”. Torna alla mente il monito di Eugene Wiesnet: «da millenni gli uomini si puniscono e da millenni si domandano perché lo facciano»[31].

Non è un richiamo alla resa, né una professione di nihilismo. Tutt’altro. È l’indispensabile premessa per comprendere le forze in campo nel terreno della penalità e le relative composizioni vettoriali.

 

La penalità è una “miscela esplosiva”. Tesi e antidoti. La giustizia riparativa e la “memoria di forma” dei principi penali. – La penalità - scrive Bartoli - è «una miscela esplosiva»[32]. La natura della sanzione penale, la sua essenza afflittiva, di per sé priva di significato, esercitano una pressione fortissima sugli scopi che dovrebbero giustificarla. Il rischio di abusi è, quindi, altissimo, tanto quanto è fisiologico che sia il contenuto afflittivo ad orientare gli scopi e non il contrario.

Che pensi alla prevenzione generale, alla retribuzione o alla prevenzione speciale il legislatore dovrà fare i conti con la tentazione di massimizzare queste funzioni esacerbando l’afflittività. Il cuore di tenebra di ogni sanzione è la vocazione rimozionale[33], quasi una sorta di pena di “morte in miniatura”. Con termini meno sedotti dal gusto del tropo, Bartoli osserva che da una lettura «attenta e profondamente disincantata sugli strumenti repressivi più radicali» emerge che una cifra della penalità è la «sua capacità escludente, la sua dinamica eliminatoria ed espulsiva»[34]. È la pena dell’«esorcismo penale[35] nella quale l’inflizione della sofferenza, travalica le funzioni, per lanciarsi all’inseguimento del male. Trova così alimento la corsa all’espansione della “penalità” e al rialzo dei margini edittali in una sorta di rito simbolico di espiazione con tanto supplizio non di rado accompagnato dallo splendore post-catodico della giustizia mediatica36]

È il diritto penale «totale»[37], «no limits»[38], no sense, perché estende il vuoto di significato della sofferenza in sé alle funzioni che dovrebbe assolvere, dissolvendole nella “singolarità” dell’afflizione in sé e per sé, “assoluta”.

L’alternativa è duplice. La prima. «Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale» [39], secondo la celebre frase di Gustav Radbruch che cito per compendiare, con qualche approssimazione, le prospettive di riforma attuali o virtuali che guardano alla giustizia riparativa, quale approdo ad una soluzione che fronteggi la lesione insita nel reato prescindendo almeno in parte dalla violenza della sanzione. La seconda, che potrei etichettare simmetricamente «non qualcosa di meglio del diritto penale ma un diritto penale migliore», è la penetrazione del senso di conformazione del reato racchiuso nelle funzioni della penalità oltre il vuoto di senso dell’inflizione di sofferenza. Si tratta di legare tra loro gli scopi della pena e l’assetto finalistico della sanzione così ricostruito alla tipicità.

Esiste - avverte Bartoli - «un altro modo» di “fare giustizia” anche rispetto ai delitti gravi[40], che esula anche del tutto dal paradigma sanzionatorio e quindi dev’essere distinta anche dalla giustizia riparatoria, che comunque declina una modalità “punitiva”. Se «le riparazioni sono comunque riconducibili al paradigma sanzionatorio, vale a dire a un paradigma di conseguenze necessariamente negative, suscettibile di essere “chiuso” attraverso la coercizione proprio al fine di dare esecuzione alle sanzioni», la giustizia riparativa - sono ancora parole dell’Autore - disinnesca questo meccanismo, creando «uno spazio di confronto e di dialogo il cui esito finale può essere sinteticamente definito come riconciliazione», “riconoscimento reciproco” o “incontro”[41].

Giustizia penale e giustizia riparativa hanno in comune «la dimensione valoriale ovvero il fatto espressivo di disvalore e offensivo di interessi rilevanti», in breve, il fatto tipico. «Se così non fosse non si potrebbe parlare di giustizia. Se così non fosse si verrebbe a creare una giustizia davvero totalmente privata, vale a dire totalmente sganciata dalla dimensione comunitaria». Per il resto, giustizia riparativa e giustizia penale sono persino opposte. «La giustizia penale si basa sulla sanzione afflittiva ovvero sulla violenza e ha in sé caratteristiche proprie addirittura della giustizia vendicatoria»; la «giustizia riparativa, invece, disinnesca la violenza». Autore e vittima si confrontano alla presenza di un mediatore, ma la giustizia riparativa, a differenza di quella penale, resta una giustizia a due (non a tre) perché il terzo non cerca e soprattutto non conduce la sua azione verso un contenuto.

I tempi sembrano i meno propizi per queste prospettive ma le difficoltà del clima non costituiscono una buona ragione per non provarci soprattutto in una prospettiva di integrazione - che Bartoli chiama soft - tra le due forme di giustizia[42]. Spes contra spem.

Qualche cenno soltanto sulla seconda soluzione. A partire dalla sentenza n. 313 del 1990 la Corte Costituzionale ha chiarito che la finalità rieducativa, per un verso, limita le altre funzioni [43], per l’altro deve trovare espressione in ogni fase di esercizio della potestà punitiva, dalla previsione alla esecuzione della sanzione. Alla stessa fondamentale dimensione teleologica della punizione la Corte (si pensi alla sentenza n. 223 del 2016) connette il vincolo della proporzione.

Il senso della penalità che si contrappone al vuoto di significato della afflizione è, quindi, innanzitutto che la violenza della sanzione possa condurre l’autore a riconsiderare il fatto commesso riconoscendone il disvalore.

È fin troppo agevole intendere come si colleghi a questa premessa la necessità di un’esigente considerazione dei principi-criteri di precisione della norma penale, offensività e colpevolezza: solo in relazione ad un fatto offensivo, tipico e colpevole è possibile che l’autore ripensi criticamente alla propria condotta.

 

La prospettiva della speranza (vs. la disperanza dell’afflizione) tra carcere migliore e qualcosa di meglio del carcere. – “Perché e cosa significa punire” resta in larga parte un mistero ma il libro di Roberto Bartoli conduce verso la consapevolezza che il significato possibile della penalità contrapposto all’inesistenza di significato dell’afflizione è la speranza del cambiamento contro la “disperanza”[44] della punizione. Sul fondale di scena di queste considerazioni si collocano numerosi pannelli tematici. Il vero convitato di pietra, tuttavia, è senz’altro il carcere al quale nella prospettiva di una piena valorizzazione della finalità rieducativa della pena bisogna guardare declinando le stesse ambivalenze accennate per il sistema penale nel suo complesso: per un verso, occorre, qui ed ora, profondere ogni risorsa disponibile per migliorare il carcere; per l’altro, è necessario un impegno non minore per progettare e realizzare qualcosa di meglio del carcere. Non si tratta, quindi, di pensare al definitivo superamento dell’istituzione penitenziaria. Sarebbe un’ingenua utopia. Anche in un orizzonte di lungo periodo punire resterà necessario, una quota del bisogno di punizione dovrà essere “soddisfatta” dal diritto penale e una frazione, più o meno consistente del diritto penale, resterà legata al carcere. L’esperienza, tuttavia, sembra dare almeno in parte ragione al pensiero espresso da Rudolph Von Jhering: la storia della pena, quella capitale e quella carceraria, in particolare, è la storia di una «continua abolizione»[45]. La realtà testimonia soprattutto che il carcere di per sé e per le condizioni nelle quali versa l’istituzione italiana (ma non solo) permane, nonostante la profusione di energie dei soggetti coinvolti, un luogo in cui le occasioni di ulteriore de-socializzazione del detenuto sovrastano ampiamente la prospettiva della finalità rieducativa[46]. Progettare di ridurre il carcere alla misura strettamente necessaria, dunque, è più che mai difficile ma resta indispensabile anche nelle prospettive della “difesa sociale”. Pur semplificando drasticamente le articolazioni di un problema quanto mai difficile, è del tutto ragionevole affermare che un carcere “de-socializzante” “produce” recidivi alimentando, quindi, i “volumi” della delinquenza e le spirali dell’insicurezza.

 

 

[1] R. Bartoli, Introduzione al diritto penale tra violenza e costituzionalismo, Giappichelli, Torino, 2022, p. 63.

[2] R. Bartoli, Introduzione al diritto penale tra violenza e costituzionalismo, cit., p. 53.

[3] Sull’illusione di chi ha «proclamato per primo che l’uomo fa il male unicamente perché non conosce i suoi veri interessi», laddove «ad aprirgli gli occhi sui suoi veri, normali interessi cesserebbe subito di fare il male»: J. Rawls, Justice as Fairness: A Restatement, Belknap Press, Cambridge MA, trad. it. G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 93.

[4] J.J. Rousseau, Du contrat social ou Principes du droit politique (1762), trad. it. di G. Perticone, Mursia, Milano, pp. 48-52.

[5] J.J. Rousseau, Du contrat social ou Principes du droit politique, 1762, op. loc. cit.

[6] P. Costa, Pagina introduttiva. Il principio di legalità: un campo di tensione nella modernità penale, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007 (36), p. 2.

[7] J. Rawls, Justice as Fairness, op. loc. cit...

[8] J. Rawls, op. loc. cit..

[9] G. Delitala, Cesare Beccaria e il problema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, p. 968.

[10] M. Romano, Secolarizzazione, diritto penale moderno e sistema dei reati, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, pp. 487-488.

[11] E. Dolcini, Leggi penali ‘ad personam’, riserva di legge e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 55.

[12] E. Dolcini, Leggi penali ‘ad personam’, op. loc. cit..

[13] R. Bartoli, op. cit., p. 72.

[14] F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, XI ed., Wolters Kluwer Italia-Cedam, Milano, 2020, XXVIII.

[15] Per dirla con il linguaggio della fisica galileiana e di Lawrence alla stessa metafora.

[16] R. Bartoli, op. cit., p. 53.

[17] V. Manes, Metodo e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Dir. pen. cont., 9 luglio 2012, p. 1 (anche in Arch. Pen., 2012, p. 29). Amplius Id., Il giudice nel labirinto: profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Dike, Roma, 2012. Incidentalmente si era già riferito alla stessa metafora C.Sotis, Il diritto senza codice: uno studio sul sistema penale europeo vigente, Giuffrè, Milano, 2004, p. XV.

[18] R. Bartoli, op. loc. ult. cit..

[19] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari-Roma, XII rist., 2022.

[20] R. Bartoli, op. cit., p. 85.

[21] R. Bartoli, op. cit., p. 87.

[22] R. Bartoli, op. cit., p. 89.

[23] R. Bartoli, op. loc. ult. cit..

[24] G. Insolera, Democrazia, ragione e prevaricazione. Dalle vicende del falso in bilancio ad un nuovo riparto costituzionale nella attribuzione dei poteri, Giuffrè, Milano, 2003.

[25] G. Contento, Corso di diritto penale, Laterza, Bari-Roma, 2004, IX, ed., t. I°.

[26] R. Bartoli, op. cit., p. 7.

[27] R. Bartoli, op. cit., pp. 9-10

[28] R. Bartoli, op. cit., p. 10.

[29] R. Bartoli, op. cit., pp. 11-12.

[30] R. Bartoli, op. loc. ult. cit..

[31] E. Wiesnet, Pena e Retribuzione. La riconciliazione tradita, Giuffrè, Milano, 1987, p. XV.

[32] R. Bartoli, op. cit., p. 67.

[33] Cfr. volendo G. Losappio, Libera nos a malo. Sulle tracce della pena rimozionale, in Annali del Dipartimento Jonico, 2013 (1), p. 353; Id., Dal diritto penale rimozionale alla rimozione del diritto penale, in Il diritto penale nel guado tra libertà, sicurezza e populismo, a cura di G.Losappio – G.Manca – A. Vichinkeski Teixeira, in Quaderni dell’Università della Calabria, Pacini Editore, Pisa, 2022, pp. 13-30

[34] R. Bartoli, op. cit., p. 63.

[35] L. Stortoni, Angoscia tecnologica ed esorcismo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 70

[36] V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, il Mulino, Bologna, 2022.

[37] F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, il Mulino, Bologna, 2019

[38] V. Manes, Diritto penale no-limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in Quest. giust., 26 marzo 2019.

[39] «Wir brauchen kein besseres Strafrecht, wir brauchen etwas Besseres als das Strafrecht» G.Radbruch, Rechtsphilosophie. C.F. Müller, Heidelberg, 1914 (ristampa 2003), p. 157.

[40] R. Bartoli, op. loc. ult. cit..

[41] L’«autore riconosce la propria responsabilità e riconosce la persona che è nella vittima disconosciuta mediante la realizzazione del reato; la vittima ottiene il proprio riconoscimento e riconosce la persona che è nell’autore»: R. Bartoli, op. loc. ult. cit..

[42] Non avendo mai approfondito lo studio di questo tema, pur così affascinante, sussurro a me stesso il dubbio che, in Italia il processo del reciproco riconoscimento tra autore e vittima incontri ulteriori ostacoli, oltre alla difficoltà endemiche delle alternative alla pena. Il differenziale di rischio nazionale mi sembra triplice: il giudizio, potenzialmente deresponsabilizzante, che la reciproca remissione del debito esiga la fede o un’energia altissima (in tal senso, in una prospettiva - appunto - laica è stato osservato che «spezzare la catena del male, vincendo la logica ferrea del sacrificio e interrompendo il mortifero circolo che risponde al male con il male, significa perdonare senza interesse, possedere quella sovra-umana apertura che attutisce in sé, come accogliendolo in grembo, ogni colpo, ogni inganno, ogni gesto di malevolenza»: M.Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, p. 240); il deragliamento in una prospettiva del tutto privata, quasi confessionale del confronto, nella quale, peraltro, il reato tornerebbe a sovrapporsi con la dimensione morale del peccato. Si pensi al pensiero di U.H.Von Balthasar, Solo l’amore è credibile, trad. it. M.Rettori, Borla, Roma, 1991, p. 117: è «necessario, dunque, saper riconoscere in che cosa il prossimo sbaglia, ma alla luce di quell’amore che ha già perdonato ogni peccato e colmato ogni limite: come un educatore deve vedere i difetti nel sapere e nelle capacità del fanciullo per poter compiere la sua opera, così il cristiano deve vedere “realisticamente” e dovunque nel mondo quello ch’è contrario a Dio …, ma deve riguardarlo soltanto con gli occhi della croce, su cui il mondo è già stato vinto».

[43] Contrasta radicalmente con queste prospettive la proposta di revisione dell’art. 27 Cost. (XVIII legislatura, n. 116 del 23 marzo 2018) nel senso che la pena «deve tendere, con la collaborazione del condannato, alla sua rieducazione» ma nei «limiti» stabili dalla legge

 «in rapporto con le altre finalità (della pena n.d.r.) e con le esigenze di difesa sociale».

[44] G. Cavalli, Disperanza, Fandango, Roma, 2020.

[45] Der Zweck im Recht, trad.it. M.G. Losano, Aragno, Torino, 1972, vol. I, p. 269.

[46] Da ultimo, molto incisivamente, G.Sinisi, Giustizia riparativa, relazione al Festival della legalità, Andria, 30 novembre 2022.