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  Opinioni  
15 Settembre 2023


Giustizia: nessuna riforma senza una grammatica condivisa


L’estate è passata, in tema di riforma della giustizia, con molte parole e niente di fatto. Come la primavera. E come l’inverno precedente. Intanto a tener banco è il tormentone se il ministro della Giustizia Nordio sia un garantista oppure no. Questione – superfluo dirlo – di nessun interesse e, comunque, superata dal fatto che un’appropriata qualifica dell’attuale guardasigilli andrebbe ricercata su ben altro piano data l’irrisorietà dei risultati da lui finora raggiunti. Con il che il discorso potrebbe considerarsi chiuso. Magari con il connesso rilievo che, nel nostro Paese, riformare la giustizia è impossibile anche per maggioranze bulgare.

A supportare questa conclusione sembra esserci l’ingloriosa vicenda del “pacchetto Nordio”, presentato con squilli di tromba all’inizio dell’estate ma presto superato da continue supposte emergenze e, in ogni caso, destinato, secondo lo stesso ministro proponente e i suoi sostenitori, a cambiamenti sostanziali. Eppure – merita sottolinearlo – quell’inutile “pacchetto” ha prodotto polemiche e spaccature radicali. Eccessive, quantomeno, ché si trattava, in realtà, di un guazzabuglio di interventi eterogenei e di diverso segno: l’abrogazione del reato di abuso di ufficio, la riscrittura del delitto di traffico di influenze, la drastica limitazione della pubblicabiltà delle intercettazioni, l’attribuzione della decisione sull’applicazione di misure cautelari a un organo collegiale e previo interrogatorio dell’indagato (salvi i casi di pericolo di fuga o di inquinamento delle prove e della necessità di agire “a sorpresa”), un maggior dettaglio dell’informazione di garanzia, la non appellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di assoluzione nei casi in cui si procede per reati di limitata gravità.

Non certo una riforma epocale e troppo poco, in sé, per “guerre di religione”. Che pure ci sono state benché l’approssimazione dei testi proposti e la palese incongruità di uno degli interventi (l’abrogazione, anziché la revisione, dell’abuso di ufficio) non tolgano che alcuni degli obiettivi perseguiti – a cominciare dalla maggior cautela in tema di limitazioni della libertà personale e dalla razionalizzazione del sistema delle impugnazioni – avrebbero meritato, in realtà, un’ampia condivisione. A ben guardare, peraltro, le polemiche e le levate di scudi hanno la loro ragion d’essere, più che nelle singole disposizioni del “pacchetto”, nella concezione della giustizia ad esso sottostante. Una concezione che risente dei colpi inferti da provvedimenti, esternazioni, invettive che hanno, negli scorsi decenni, creato lacerazioni difficilmente ricomponibili.

Se, dunque, è probabilmente esagerato mettere una pietra tombale sulla possibilità stessa di una razionale riforma della giustizia, è tuttavia certo che, se non si parte da un’analisi e da un chiarimento della situazione attuale e non si sciolgono i nodi ad essa sottostanti, non ci saranno riforme ampie e solide, la giustizia (almeno quella penale) resterà un terreno di scontro e continuerà il teatrino di questi anni. Un teatrino nel quale si muovono, in una recita stucchevole e ripetitiva, una destra innaturalmente schierata contro il sistema giustizia a prescindere, una sinistra che – in modo egualmente innaturale rispetto alla sua storia e cultura – si affida alla giustizia più che alla politica per tentare di superare la propria crisi all’apparenza senza sbocchi, una politica che (nel suo insieme) assume come metro di valutazione dell’intervento giudiziario i risultati contingenti (in particolare la delegittimazione dei propri avversari) anziché il rispetto delle regole e che tenta di incidere non sul funzionamento della macchina giudiziaria ma sui suoi esiti immediati, un diffuso populismo giudiziario (che unisce magistrati, politica e informazione riflettendosi poi sull’opinione pubblica), un associazionismo giudiziario arroccato nella difesa dell’esistente più di quanto tipico delle corporazioni (da ultimo finanche con il supporto dell’esercito dei pensionati...), un’avvocatura emarginata nel processo che cerca un’impropria ribalta come soggetto politico, una cultura giuridica assente e subalterna. E ciò benché la giustizia sia un sistema complesso che richiede una visione d’insieme e, prima ancora, un comune sentire (pur nella difformità delle soluzioni tecniche proposte), un linguaggio e una grammatica condivisi. I singoli interventi riformatori (necessari e, auspicabilmente, incisivi) vanno collocati in una prospettiva chiara e definita ché, altrimenti, alimentano solo conflitti e malfunzionamenti ulteriori (basti pensate a un istituto come l’immunità parlamentare, introdotto dai Costituenti come fattore di equilibrio tra giustizia e politica, diventato, in una diversa definizione di quel rapporto, un veicolo di inaccettabile privilegio).

Se si vuole evitare di alimentare il polverone occorre dunque, dopo le devastazioni dei decenni scorsi, ripartire da zero. Addirittura nel lessico. Prendiamo il termine “garantismo”, a cui già si è fatto cenno: tutti (o quasi) lo indicano come riferimento ineludibile di una riforma del sistema penale, ma i significati che gli vengono attribuiti sono profondamente diversi e talora incompatibili con la sua ratio e la stessa etimologia del termine. Partiamo, dunque, da qui.

Primo. Garantismo significa modello di stretta legalità nel processo e sistema predeterminato e rigoroso di garanzie per l’inquisito, nella consapevolezza che il vincolo delle regole è il limite strutturale dell’intervento penale e l’ancoraggio fondamentale della sua legittimazione. Esso, lungi dall’essere concessione agli “avversari” della legalità o della democrazia, è esigenza della giurisdizione, ragione prima della sua indipendenza. Ciò toglie ogni plausibilità al ricorso – pur, in concreto, assai diffuso – a prassi sostanzialistiche o a “scorciatoie” in vista di risultati ritenuti utili. Dunque, ben vengano interventi legislativi tesi a correggere storture e a dare effettività a regole e tutele. Ma il garantismo non ha nulla a che fare con il rifiuto del processo e con «la strumentalizzazione cavillosa delle forme giuridiche a fini di sabotaggio delle funzioni sostanziali di tutela proprie della giurisdizione». Sono parole di Luigi Ferrajoli, massimo teorico del garantismo nel nostro Paese, il quale prosegue affermando che la sua essenza è «assolvere in mancanza di prove quando l’opinione comune vorrebbe la condanna e condannare in presenza di prove quando la medesima opinione vorrebbe l’assoluzione». Quanto è condivisa questa impostazione?

Secondo. Il garantismo non riguarda solo il processo, ma anche il sistema penale e rimanda alla necessità di un diritto penale ridotto (in termini di fattispecie penali) e di una previsione di pene, se non miti (come pure sarebbe auspicabile), almeno equilibrate. Non è questa l’impostazione vincente oggi, nella stagione del populismo penale nella quale, al contrario, la funzione della repressione è enfatizzata (anche in sostituzione della mediazione politica) e il pubblico ministero e il giudice sono considerati “magistrati di scopo” a cui si chiede di punire duramente e in modo esemplare alcune (ampie) categorie di cittadini per fare della repressione uno dei baluardi della convivenza. L’abolizione di alcuni reati, come l’abuso d’ufficio, contenuta – come si è ricordato – nel pacchetto Nordio è, infatti, nulla più che l’eccezione (non casuale) che conferma la regola. Lo segnala persino una fonte insospettabile come Il Foglio (C. Cerasa, I veri nemici del garantismo modello Nordio si trovano nella maggioranza, 22 giugno 2023) secondo cui «l’ossessione repressiva della maggioranza di centrodestra è stata inquadrata ironicamente […] all’interno della categoria “Giorgia vieta cose” ma, accanto all’inevitabile ironia sulla premier che si è specializzata nel vietare tutto quello che può – a volte arrivando a vietare cose che sono già vietate, tanto per poter dire di averle vietate ancora di più […] –, la convinzione che il diritto penale sia lo strumento principe per porre un freno a ogni forma di ingiustizia sta diventando un tratto ricorrente, cupo e pericoloso», come dimostra l’aumento generalizzato delle pene e l’introduzione di nuovi reati che sta caratterizzando l’attività del Governo e della maggioranza parlamentare, non di rado supportata anche dall’opposizione (in una sequenza di provvedimenti, approvati o in corso di approvazione, che riguarda i rave e l’immigrazione, la violenza nei confronti di sanitari e di personale scolastico e la violenza di genere, l’omicidio nautico e la gestazione per altri, l’occupazione abusiva di immobili e l’imbrattamento di opere d’arte o del loro involucro, e che si è arricchita da ultimo, dopo la strage sul lavoro di Brandizzo, di proposte di una nuova specifica fattispecie di omicidio colposo sul lavoro, come se lì fosse il problema..). Come si compone la contraddizione?

Terzo. Il garantismo deve fare i conti con il principio di uguaglianza. Alcune “battaglie” condotte sotto le sue insegne si muovono, invece, nella direzione opposta. È il caso delle posizioni che pretendono di vincolare alle regole la sola giurisdizione, proclamando contestualmente l’onnipotenza della maggioranza, la non controllabilità della politica, l’assenza di limiti per il mercato: questo garantismo strumentale nulla ha a che vedere con un sistema di stretta legalità. Non dissimile è quella sorta di “garantismo selettivo”, che gradua le regole in base allo status sociale degli imputati proponendo, in sostanza, due codici distinti, quello “dei briganti” e quello “dei galantuomini”, diretti il primo a segnare la vita e i corpi delle persone e il secondo a misurare l’attesa che la prescrizione si sostituisca al giudice nel determinare la fuoruscita dell’indagato dal processo. Con effetti stridenti, come la regola dell’impunità per i colletti bianchi (in forza della quale in Italia la percentuale di chi sconta una pena per reati economico-finanziari è dello 0,9 per cento dei detenuti, contro il 9,8 per cento della Germania, il 6 per cento della Francia, il 5,6 per cento della Spagna) mentre sono oltre 4.000 – come rileva il Garante nazionale dei diritti delle persone provate della libertà personale nella sua ultima relazione – i detenuti in esecuzione di pene inferiori a due anni di reclusione. Eppure le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio e ciò toglie ogni legittimazione garantista a un sistema di regole disuguali. Ancora una volta occorre chiedersi se v’è, sul punto un accordo diffuso.

Porre questi problemi non significa abbandonarsi alla pura speculazione teorica o parlar d’altro. Significa, al contrario, porre le premesse per interventi stabili, coerenti e condivisi (che soli possono segnare un salto di qualità positivo in una materia delicata e sensibile come la giustizia penale). L’alternativa è qualche progetto stantio, impugnato come una clava e approvato a colpi di maggioranza e, magari, di voti di fiducia, destinato ad essere amputato dalla Corte costituzionale o a precipitose correzioni (per esempio, nel caso di abolizione dell’abuso d’ufficio, al primo verificarsi della scandalosa impunità di un pubblico amministratore che «intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale» magari milionario). Inutile dire che tutto questo non migliorerà in alcun modo la situazione della giustizia. Così va il mondo ma, forse, si potrebbe provare a invertire la rotta. Anche con un diretto protagonismo dell’accademia. E magari aprendo una stagione di confronto tra giuristi che si concluda – udite, udite! – con la richiesta di una sessione parlamentare sul punto aperta e di ampio respiro…