In un momento storico che troppo spesso costringe gli studiosi del processo a rincorrere l’ultima riforma dell’ultima maggioranza o a tentare di sistematizzare innesti normativi sempre più improvvisati, si sentiva davvero il bisogno di una boccata di ossigeno. Per chiamarsi fuori da quella che i comparatisti chiamano la “tirannia del dettaglio”, per alzare la testa dalle minute operazioni di micro-analisi legislativa occorrono infatti interventi dal lungo sguardo e dall’ampio orizzonte, capaci di rimettere al centro i valori che stanno sopra e dietro il rito celebrato nelle nostre aule di giustizia.
Ad offrirci questo “bel respiro” in tempi di smog intellettuale è il pamphlet di Glauco Giostra, “Prima lezione sulla giustizia penale”, che si inserisce nel solco di un genere letterario – quello della riflessione rivolta a una pluralità di lettori – sovente sottovalutato. Per l’erronea convinzione che il giurista non debba uscire dal proprio studiolo dorato per dialogare con linguaggio semplice anche con i cittadini comuni e per una sorta di presunzione da “circolo di iniziati” che la nostra (come ogni) comunità scientifica ha sviluppato, si tendono a ritenere di minor pregio gli scritti che abbandonano il lessico specialistico e si cimentano in un’opera divulgativa.
Niente di più fuorviante, a mio avviso: la tradizione anglo-americana, ma anche quella francese, mostra che il massimo dello stadio intellettivo e scientifico si manifesta proprio nella capacità di rendere piana e comprensibile una materia ontologicamente complessa e che l’abbassamento del grado di tecnicità può far guadagnare all’autore un angolo visuale più ampio e nitido. Non a caso scritti di siffatta natura, se vergati da studiosi autorevoli, ben si prestano ad un doppio livello di lettura, quello del cittadino comune (che prende coscienza di argomenti normalmente poco accessibili) e quello dell’esperto (che rinviene nuovi spunti e inedite prospettive in un’analisi condotta in maniera eccentrica rispetto agli standard tradizionali).
Questa duplice fruibilità si apprezza pienamente nel libro di Giostra che ottiene il prezioso – e tutt’altro che scontato – risultato di far riflettere a fondo lo studioso e di avvicinare l’uomo comune alla filosofia del rito penale, cercando di colmare quel pericoloso e sempre più marcato distacco (l’autore parla ora di “disaffezione”, ora di “sfiducia”) tra collettività e giurisdizione che, alla lunga, rischia di trasformarsi in una ferita dura da rimarginare per il tessuto della nostra democrazia.
In queste poche righe non si potranno ripercorrere i numerosi itinerari ermeneutici seguiti nel volume (peraltro già ben commentati in anteprima da Luigi Ferrarella: Il ponte fragile del diritto, in Corriere della Sera, 9 gennaio 2020, p. 36) che riescono a lambire quasi tutti i pilastri della disciplina del processo italiano, dal suo volto costituzionale all’architettura codicistica, dagli statuti epistemici ai canoni di dimensione etica, sino ad arrivare a tematiche di elezione dello studioso, come quelle dei rapporti tra media e accertamento penale (i condizionamenti, le deformazioni, il fenomeno della “giustizia percepita”) e dei delicati bilanciamenti tra diritto di cronaca, garanzie di riservatezza e fini ineludibili dell’inchiesta penale.
Più modestamente, desidero svolgere qualche breve considerazione sul messaggio di fondo di questa “prima lezione” e sulla cifra culturale che anima i capitoli dell’Opera. Ebbene, non sfuggirà come, nel titolo, l’autore abbia voluto sostituire alla locuzione “processo penale”, che gli sarebbe stata più congeniale, quella, altrimenti evocativa, di “giustizia penale”. Non si tratta di una scelta meramente estetica o linguistica, ma il precipitato della sua precisa volontà di osservare il fenomeno processuale e le sue regole in un’ottica originale.
Il cuore del ragionamento di Giostra non è infatti, come ci si potrebbe aspettare, rivolto in prima battuta al rito penale in senso stretto. Per carità, la disciplina codicistica è comunque tratteggiata magistralmente e in maniera completa rispetto alle finalità del volume, ma il vero interesse dell’autore sembra diretto ad altro: alla complessiva prospettiva valoriale che avvolge (o dovrebbe avvolgere) la regolamentazione di ogni atto del processus e, soprattutto, alla dimensione umana – anzi troppo umana – del rituale giudiziario. In merito a questo secondo aspetto, nelle pagine del saggio non troviamo elogi circa le potenzialità della liturgia giudiziale, necessaria in qualsiasi società, quanto piuttosto una piena confessione sulle imperfezioni e sui limiti del giudicare.
È come se nei vari passaggi del libro intravvedessimo in controluce le debolezze degli attori della giustizia penale, a partire da un giudice non ammantato di certezze granitiche, ma tormentato dai dubbi tipici di chi si muove nel crepuscolo della probabilità più che nella luce meridiana di una verità solare irraggiungibile. Un giudice che rischia, suo malgrado, di cadere in fallacie logiche, che può essere condizionato da convinzioni personali o stereotipi e che potrebbe addirittura assumere decisioni diverse a seconda del pasto consumato. Ci sembra poi di osservare i testimoni, non già come portatori di percezioni affidabili, ma quali dichiaranti dalla memoria contaminabile e sdrucciolevole, magari oggetto di una subornazione mediatica «che li induce a rielaborare inconsapevolmente i loro ricordi alla luce degli input provenienti dai media». In qualche misura si stagliano, in questo affresco nascosto tra le pieghe della trattazione, anche l’imputato e la vittima che, ai nostri occhi, appaiono “piccoli” e – seppure diversamente – “indifesi” rispetto ad un meccanismo troppo più grande di loro, connotato da un innato, insopprimibile disequilibrio tra individuo e autorità.
Siamo allora in presenza di uno sguardo radicalmente pessimista o eccessivamente disincantato? Tutto il contrario. Esattamente partendo dalla fragilità del giudizio “dell’uomo sull’uomo” e dalle limitatezze che ci consegna la parabola storica del rito criminale Giostra fonda il suo discorso sulla giurisdizione penale. Un discorso lucidamente ottimista e strenuamente teso alla difesa del migliore strumento che conosciamo (e non sarà l’evoluzione tecnologica a farci cambiare idea…) per accertare la responsabilità dei nostri simili, di gran lunga preferibile alle drammatiche esperienze «che troppo spesso, a tutte le latitudini della storia e della geografia, prend[ono] abusivamente il nome di giustizia».
E’ proprio perché giudicare appare sostanzialmente «un compito al di sopra delle nostre possibilità» che le norme del processo devono trasudare di etica e di civiltà, di autolimitazione da parte del Leviatano che ogni Stato nasconde in sé e di valori condivisi da un popolo. Un popolo che, solo se conoscerà (e condividerà) il modo attraverso cui si rende giustizia nelle aule d’udienza, sarà incline a considerare legittime le decisioni del giudice. Già, il giudice. Proprio intorno al suo ruolo e al suo statuto, ad avviso di Giostra (e come dargli torto), si misura molto della tenuta democratica e della legittimazione del processo penale: l’indipendenza della Magistratura, la sua imparzialità – accompagnata dal ripudio di commistioni politiche e di protagonismi che la allontanano «dall’alveo semantico tracciato dalla legge» – costituisce la gemma più preziosa nel forziere della giurisdizione penale.
Il volume mira ad essere una “prima lezione” idealmente rivolta a un giovane che comincia ad affacciarsi alla procedura penale. Ecco, se questi sarà consapevole che il processo assomiglia maggiormente a un malfermo «ponte tibetano» piuttosto che ad un edificio di ferro armato, se comprenderà che le regole processuali, per quanto sempre perfettibili, rappresentano il diretto corollario e l’irrinunciabile baluardo delle garanzie soggettive e dei canoni epistemologici della nostra società, solo allora potrà proficuamente iniziare a studiare commi e capoversi. Per dirla con l’autore e parafrasando un famoso aforisma, «se per comprendere la giustizia penale bastasse conoscere gli articoli del codice (…) essere stupidi non sarebbe necessario ma aiuterebbe molto».
Abbiamo bisogno, per il futuro del nostro Paese, di donne e uomini pienamente edotti di quali cruciali valori entrano in gioco nell’applicazione della giustizia penale, perché, all’occorrenza, siano pronti a difendere i capisaldi della nostra civiltà processuale dagli attacchi che ciclicamente la storia ci consegna.