Cass., Sez. III, sent. 18 maggio 2021 (dep. 17 settembre 2021), n. 34576, Pres. Sarno, Rel. Andreazza
Che il ne bis in idem nella sua dimensione di principio valido anche sul piano internazionale secondo le tesi ufficiali più risalenti[1] sia invece sottomesso e vincolato alle fonti convenzionali che espressamente lo prevedano, emerge con grande chiarezza nella vicenda sottoposta alla corte di legittimità. Si trattava del caso di un sacerdote, condannato in via definitiva nel processo italiano alla pena di anni tre e mesi otto di reclusione ex art. 609 quater n. 2 c.p. per avere commesso atti sessuali nei confronti di un minore di sedici anni affidatogli per ragioni di educazione religiosa. In sede di giurisdizione ecclesiastica si era già svolto il primo giudizio in applicazione delle regole del diritto canonico[2] e nelle forme di un “processo penale amministrativo” (p. 6 sent.), al cui esito era seguita la condanna, con decreto del delegato dell’Arcivescovo di Pescara-Penne, alla, già scontata, “pena espiatoria perpetua del divieto di esercizio del ministero sacerdotale in perpetuo, con minori di età” e alle pene temporanee della sospensione dal ministero sacerdotale per tre anni e dell’obbligo di dimora per un periodo di cinque, da trascorrere presso una comunità.
Alla Corte è stata dunque sottoposta la questione se sia ammissibile un duplice processo in idem nei rapporti tra giurisdizione ecclesiastica e giurisdizione nazionale. La risposta affermativa è decisa e circostanziata dal richiamo alle fonti interne e convenzionali. A fronte di una disposizione, l’art. 11 c.p., che dispone anche incondizionatamente il rinnovamento in Italia del processo in idem già definito all’estero, la Corte si limita a prendere atto della sua immutata formulazione e della costante esegesi fornita in sede di giurisprudenza costituzionale: principi quali la territorialità e la obbligatorietà della legge penale che informano la ratio della norma citata, giustificherebbero dunque la insussistenza di efficacia preclusiva di una sentenza in ambito internazionale. La tesi, ripresa quasi testualmente dalle pronunce della Consulta all’insegna della assenza di un principio di diritto internazionale generalmente riconosciuto – che peraltro ne ha anche evidenziato il ‘tendenziale’ riconoscimento[3] – si rafforza alla luce del vaglio dell’assetto convenzionale e pattizio intercorrente tra lo Stato italiano e la Santa Sede in cui, già ad un primo esame, non vengono rinvenuti spunti tali da superare il granitico assunto dell’art. 11 c.p., mai modificato dal 1930, immune dalla recente riforma del libro XI del codice di rito[4] e protetto dalla interpretazione stretta dei presupposti che radicano la giurisdizione anche solo in base a minimi segmenti territoriali[5].
Ritenuta evidentemente superflua la verifica della identità dei fatti nei due giudizi, che al contrario era stata valutata in un precedente specifico[6], la Corte ricorda come il ne bis in idem non integri una valenza tale da prevalere sul principio di territorialità, “potendo lo stesso trovare applicazione solo in presenza di convenzioni, radicate e rese esecutive tra Stati, vincolanti unicamente i paesi contraenti nei limiti dell’accordo raggiunto” (p. 9 sent.). Il quadro esaminato, dove non si rinvengono riferimenti al tema centrale della soluzione anticipata dei conflitti di giurisdizione[7], non sortisce effetti favorevoli alla ammissione del divieto. Si rileva infatti come “non sussistano accordi specifici intervenuti tra le due Parti, né che la Santa Sede abbia aderito a convenzioni di cui sia parte l’Italia, che abbiano disciplinato, in deroga all’art. 11 cod. pen., il principio del ne bis in idem “(p. 10 sent.). Dalla serie di richiami si evidenzia in particolare la assenza di rapporti della Santa Sede con le convenzioni a tutela dei diritti fondamentali. Non essendoci adesione alla convenzione applicativa dell’accordo di Schengen, non c’è spazio per l’art. 54 sulla preclusione tra gli Stati aderenti[8], né l’art. 50 della Carta dei diritti ha un ruolo nei suoi legami con l’UE (art. 6.1 TUE), non essendone la Santa Sede membro, così come è semplice ‘Osservatore permanente’ dell’ONU. Il richiamo poi all’art. 4 Protocollo 7 della Cedu è utile solo a rimarcare la insussistenza della preclusione che, anche se la Santa Sede avesse aderito alla convenzione, rimane fissata all’ambito interno[9]. Così che la mancata adesione a quest’ultima, piuttosto che all’Unione europea, genera l’effetto per cui la dimostrazione della insussistenza della preclusione anche di stampo europeo viene riconfermata con il richiamo alle pronunce della stessa Corte di Strasburgo dove nega il ne bis in idem “non avendo la Corte competenza sulla attuazione del diritto dell’Unione a meno che le violazioni e l’applicazione delle regole dell’Unione europea non conducano a violazione dei diritti e delle libertà assicurati dalla Convenzione” (p. 11 sent.).
Ne esce un quadro piuttosto desolante, di evidente arretratezza a fronte della amplificazione del principio sul piano europeo, in forza della dimensione innovativa favorita dall’intreccio delle fonti eurounitarie così come interpretate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che ha offerto spunti interpretativi inediti per una attuazione casistica del ne bis in idem internazionale, penalizzando le iniziative processuali di Stati terzi rispetto a Schengen o all’UE[10].
Si ricade invece qui nelle risalenti configurazioni limitate di un principio che, se pure se evocato in autorevoli contesti, ex art. 649 c.p.p., quale diritto civile e politico[11] e aperto alle espressioni più late della litispendenza[12], nel caso in esame viene relegato alla stretta interpretazione della insuperabilità di un dettato normativo che si esprime in termini di rinnovamento del giudizio già svoltosi “all’estero” (art. 11 comma 1 c.p.), anche se la realtà che si rappresenta sembra delineare piuttosto un rapporto non tanto tra Stati, quanto tra ordinamenti. In ogni caso, la sentenza chiarisce che il ‘decreto’ di condanna “non è certamente riconducibile nel novero dei provvedimenti adottati dai tribunali dello Stato della Città del Vaticano, entità distinta e autonoma rispetto alla Santa Sede, avente potestà giurisdizionale per i delitti previsti dal codice penale e commessi all’interno di questo stesso Stato, ma nell’ambito di quelli previsti dall’ordinamento canonico ed emanati dai Tribunali di cui al titolo II del libro VII del Codice di diritto canonico” (p. 7 sent.). Si definisce così meglio il rapporto in oggetto che verte tra “ambiti giurisdizionali” costituiti, da un lato, dalla “giurisdizione canonica, cui il chierico è assoggettato in ragione del suo status clericale e, dall’altro, dalla giurisdizione statuale (nella specie, quella italiana) cui egli è invece assoggettato in ragione del suo status civitatis” (p. 8 sent.).
La concorrenza delle due giurisdizioni, italiana e canonica, è dunque ritenuta legittima, così come “un analogo concorso di giurisdizioni in ordine ad un medesimo fatto avente rilievo penale” è da rinvenire “negli stessi rapporti tra autorità canonica e autorità giurisdizionale dello Stato della Città del Vaticano proprio con riferimento ai reati in materia sessuale o pedopornografica” (p. 13 sent.). Così che può sussistere “accanto alla giurisdizione canonica, la concorrente giurisdizione del tribunale vaticano per siffatti delitti” (ivi).
Si evidenzia dunque il paradosso di un potenziale plurimo procedimento in idem, penale davanti alla autorità giurisdizionale italiana e alla autorità giurisdizionale dello Stato della Città del Vaticano, e ‘penale-amministrativo’ davanti alla autorità canonica. Quanto al primo rapporto, la sentenza ritiene che non possa soccorrere il generico rinvio a ‘norme del diritto internazionale’ per l’esecuzione delle sentenze dei tribunali vaticani (art. 23 comma 1); quanto al secondo, a fronte della ‘piena efficacia giuridica’ in Italia delle sentenze emesse dalle autorità ecclesiastiche (art. 23 comma 2), se ne ritiene la compatibilità con l’art. 11 c.p. (p. 12 sent.) in quanto la previsione tratterebbe di un semplice ‘riconoscimento nei limiti degli effetti civili’ nonostante la disposizione espressamente si riferisca alla ‘piena efficacia giuridica anche a tutti gli effetti civili’. Il dato testuale poteva tuttavia prestarsi ad un rilievo – forse forzato per la assenza di trattati, ma utile a fini interpretativi – circa l’analogia con l’istituto del riconoscimento di sentenza straniera (art.731 c.p.p.) nei suoi rapporti con il rinnovamento del giudizio (art. 11 c.p.p.)[13], così come maggiore attenzione poteva dedicarsi al profilo dei rapporti tra giurisdizione ecclesiastica e italiana in punto di cooperazione della autorità canonica con le autorità civili, nel caso di apertura di un procedimento ‘secondo il diritto dello Stato’, che potrebbe condurre alla ‘opportunità di sospendere le attività di indagine canonica per evitare inutili sovrapposizioni’ (p. 13 sent.).
Questi spunti non riescono certo a scalfire la tesi radicale della insussistenza del divieto, nonostante se ne possa forse individuare al contrario la sua previsione sotto un peculiare profilo, aperto dalla stessa sentenza dove richiama il testo del Motu Proprio ‘ai nostri tempi’ (p. 13 sent.), a disciplina dei rapporti giurisdizionali concorrenti tra autorità canonica e autorità giurisdizionale dello Stato della Città del Vaticano, omologhi a quelli tra autorità statale italiana e canonica. L’ammissibilità di ‘una sovrapposizione o addirittura duplicazione di giudizi su identiche fattispecie criminose (atti punibili sia come reati che come delicta graviora’”), si giustifica per la diversità di sanzioni, posto che “altro sono le sanzioni previste dalle leggi penali vaticane … e altro le sanzioni canoniche attribuite iure nativo alla competenza della Congregazione della dottrina della fede nei confronti dei chierici’. In sostanza, diversi i giudizi e le fonti, differenti gli effetti sanzionatori così da costituire un doppio binario sanzionatorio a seconda dello status, clericale o civile del soggetto destinatario. Viene abbandonato il piano processuale, per accedere all’aspetto effettuale, così comunque da ricavarne la legittimità della duplicazione. Lo schema non cambia se applicato al rapporto tra autorità italiana e canonica, le cui sanzioni sono analogamente mirate a un diverso status soggettivo.
Senza volere equiparare gli effetti sanzionatori del giudizio canonico a quelli di un giudizio disciplinare, anche alla luce della giurisprudenza che ammette il bis in idem in tema[14], ci si chiede tuttavia se un approccio più aperto e più riflessivo al profilo del doppio binario avrebbe comunque potuto costituire uno spunto nella tutela del principio, quanto meno sul piano interpretativo. È evidente che neppure il richiamo, presente in sentenza, all’art. 4 Prot. 7 Cedu, non applicabile alla Santa sede, avrebbe potuto sortire un effetto. Come scrive il provvedimento riferendosi alla giurisprudenza della Corte Edu, il divieto si esprime in termini interni allo Stato, mentre rivolto all’’esterno’ non ha ancora espresso il suo potenziale, tanto meno nel suo aspetto ‘sostanziale’ e al di là dei nuovi limiti portati dalla giurisprudenza europea[15]. L’impossibile ricorso a qualsiasi fonte convenzionale o eurounitaria e, a cascata, a qualsiasi richiamo giurisprudenziale, fa sì che le sanzioni inflitte in sede canonica, pur essendo afflittive come ammette la stessa sentenza, non possano essere considerate sul piano nemmeno interno, qualora concorrenti con le sanzioni statali vaticane e tanto meno sul piano esterno se concorrenti con le sanzioni statali italiane. Un aspetto, quello del doppio binario sanzionatorio esterno, che potrebbe invece trovare affermazione alla luce delle sentenze della Corte di giustizia UE nel caso Spasic[16] e nel caso WS[17], rese in relazione all’art. 50 Carta e richiamando la precedente sentenza Akerberg Fransson[18].
Una applicazione in astratto al caso di specie dei cosiddetti Engel criteria, di cui già si faceva cenno in relazione al precedente specifico già citato[19], non sarebbe impropria a voler rilevare la sottolineatura circa la ‘natura afflittiva’ della ‘pena espiatoria perpetua’ (p. 7 sent.) e l’ambito della decisione canonica, “difficilmente (da) assimilarsi alla sola materia spirituale’ (p. 12 sent.). E anche applicando i criteri restrittivi sopraggiunti nella esegesi europea[20] potrebbe ammettersi il divieto quanto meno in relazione alla condizione della ‘sufficiente connessione temporale’ tra procedimenti che non sussiste per definizione.
Nel caso in esame l’ostacolo al ne bis in idem è tuttavia totale e tangibile a fronte di due ordinamenti sottratti al dialogo per mancanza di appartenenza non tanto a uno spazio giudiziario comune, quanto a uno spazio di garanzie da cui non si dovrebbe peraltro poter prescindere. Ci si chiede allora quale sia il giusto processo interno se ancora sacrifica i diritti al principio di territorialità dell’art. 11 c.p. o quale sia il giusto processo canonico[21] che consente plurimi processi in idem nei rapporti con la giurisdizione vaticana. E ciò in particolare alla luce dei principi del sistema canonico dove i diritti fondamentali dovrebbero essere tutelati indipendentemente dal loro riconoscimento sul piano internazionale[22].
[1] Corte permanente di giustizia internazionale, Arrêt Lotus, in Rév. int. dr. pén, 1928, p. 347.
[2] I fatti contestati risultano sanzionati dall’art. 6 §1 comma 1 delle Nuove norme “De Gravioribus Delictis”.
[3] Corte cost. 14 febbraio 1997 n. 58.
[4] G. De Amicis, Lineamenti della riforma del Libro XI del codice di procedura penale, in Dir. pen. cont., 19 aprile 2019.
[5] La giurisprudenza è pressoché costante. Cass. Sez, III, 2 marzo 2017 n. 35165, rv 270686; Cass. Sez. V, 15.10.2018 n. 57018, rv 274376; Cass. Sez. IV, 20.05.2021 n. 35510, rv 281853.
[6] Cass. Sez. III, 13 marzo 2018 n. 21997, rv 273158. Il caso trattato riguardava analogamente il secondo processo in Italia a carico di un sacerdote accusato di violenza sessuale in danno di minori, nei cui confronti era stata applicata nel procedimento canonico la sanzione della riduzione allo stato laicale. Per il commento, L. Barontini, Rigiudicabile in Italia il chierico rimesso allo stato laicale? Il ne bis in idem tra dimensione internazionale e doppio binario sanzionatorio, in Dir. pen. proc., 2020, p. 99.
[7] G. De Amicis, L’attuazione nell’ordinamento italiano della decisione quadro sulla prevenzione e risoluzione dei conflitti di giurisdizione, in Cass. pen., 2016, p. 3028; N. Galantini, Diritti e conflitti di giurisdizione, in Processo penale e regole europee, a cura di F. Ruggieri, Torino, 2017, p. 113.
[8] Cass. Sez. V, 20 febbraio 2009 n. 7687, rv 242454; Cass. Sez, IV, 4 dicembre 2009 n. 49706, rv 245801.
[9] Corte Edu, 20 febbraio 2018, ricorso 67521, Krombach c. Francia.
[10] Per la giurisprudenza interna, Cass. 15 novembre 2016 n. 54467, rv 268931, sul rigetto della richiesta di estradizione di Stato terzo per l’esecuzione di sentenza resa in uno Stato membro, su cui A. Spinelli, Richiesta di estradizione e giudicato transnazionale: la Cassazione esalta il ne bis in idem in ambito europeo, in Dir. pen. cont., 20 febbraio 2017.
V., inoltre, per la giurisprudenza eurounitaria, CG, Grande Sezione, 12 maggio 2021, causa C-505/19, WS contro Repubblica Federale di Germania in cui, in applicazione dell’art. 54 Schengen, in combinato disposto con l’art. 50 Carta dei diritti, si afferma che uno Stato contraente è tenuto ad astenersi dall’assistere uno Stato terzo attraverso l’arresto provvisorio di persona interessata da un avviso rosso pubblicato dall’Interpol su richiesta di Stato terzo, se la persona è stata giudicata in via definitiva per gli stessi fatti da uno Stato parte dell’accordo di Schengen o da Stato membro dell’UE. In tema, N. Canestrini, Interpol red notices incompatibili con il diritto dell’Unione europea?, Libertà di circolazione e ne bis in idem europeo, in Cass. pen., 2019, p. 4103.
Il tema si inserisce nell’ambito del rapporto segnato tra preclusione e assistenza giudiziaria di cui ad alcune convenzioni su cui volendo, N. Galantini, Una nuova dimensione per il ne bis in idem internazionale, in Cass. pen., 2004, 1206.
[11] Sez. Un. 28 giugno 2005 n. 34655, rv 231799.
[12] Sez. Un. 28 giugno 2005 n. 34655, rv 231800.
[13] V., volendo, N. Galantini, Ne bis in idem internazionale, in Il ne bis in idem, a cura di A. Mangiaracina, Torino, 2021, p. 271. In giurisprudenza, Cass. Sez. I, 9 maggio 2018 n. 27495, in Cass. pen., 2019, p. 1162.
[14] Cass. Sez. II, 9 dicembre 2020 n. 5048, rv 280570, secondo cui “Non sussiste la violazione del "ne bis in idem" convenzionale nel caso della irrogazione, per il medesimo fatto per il quale vi sia stata condanna a sanzione penale definitiva, di una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale, ai sensi dell'art. 4, Protocollo n. 7, CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle cause "Grande Stevens e altri contro Italia" del 4 marzo 2014, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema sanzionatorio, secondo il criterio dettato dalla suddetta Corte nella decisione "A. e B. contro Norvegia" del 15 novembre 2016. (Nella specie, la Corte ha escluso la violazione del divieto nel caso di una sanzione amministrativa irrogata in ambito assicurativo (ISVASS) a seguito di procedimento disciplinare relativo agli stessi fatti oggetto di procedimento penale)”.
V., inoltre, Cass. Sez. VI, 12/11/2019 n. 1645, rv. 278099 secondo cui non integra una violazione del principio del "ne bis in idem" l'irrogazione, per il medesimo fatto oggetto di sanzione penale, di una sanzione disciplinare che, per qualificazione giuridica, natura e grado di severità non può essere equiparata a quella penale, secondo l'interpretazione data dalla sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo nella causa "Grande Stevens contro Italia" del 4 marzo 2014. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione dal delitto di cui all'art. 337 cod. pen., emessa, nei confronti di un detenuto, sul presupposto che per il medesimo fatto gli fosse stata inflitta la sanzione disciplinare prevista dall'art. 39 l. 26 luglio 1975, n. 354).
[15] Corte Edu, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B. c. Norvegia. V., N. Recchia, Note minime sulle tre recenti sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea in tema di ne bis in idem, in Eurojus.it, 22 marzo 2018; S. Manacorda, Doppia pregiudizialità e Carta dei diritti fondamentali: il sistema penale al cospetto del diritto dell’Unione europea nell’era del disincanto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 597
[16] CG, Grande Sezione, 27 maggio 2014, C-129/14, Spasic, su cui, N. Recchia, Il ne bis in idem transnazionale nelle fonti eurounitarie, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 1405.
[17] CG, Grande Sezione, 12 maggio 2021, WS contro Repubblica Federale di Germania, cit.
[18] CG, Grande Sezione, 26 febbraio 2013, C- 617/10, Aklagaren c. Akerberg Fransson.
[19] V, supra, nota 6 e la nota di L. Barontini, Rigiudicabile in Italia il chierico rimesso allo stato laicale? Il ne bis in idem tra dimensione internazionale e doppio binario sanzionatorio, cit.
[20] V., supra, nota 15. V., inoltre, CG, 20 marzo 2018, C‑537/16, Garlsson Real Estate SA e CG, 20 marzo 2018, C‑524/15, Menci, su cui, B. Galgani, Ne bis in idem e spazio giudiziario europeo, in Il ne bis in idem, cit., p. 248.
[21] G. Dalla Torre, “Qualche riflessione su processo canonico e principio del «giusto processo»”, in Janusz Kowal -Joaquín Llobell (a cura di), «Iustitia et iudicium». Studi di diritto matrimoniale e processuale canonico in onore di Antoni Stankiewicz, Libr. Ed. Vaticana, 2010, vol. 3, 1305.
[22] Sul tema della tutela dei diritti nel processo canonico, Joaquín Llobell, Giusto processo e “amministrativizzazione” della procedura penale canonica, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 14/2019 e A. Hari – A. Verdoodt, I diritti dell’uomo nella Bibbia e oggi, Libr. Ed. Vaticana, 2001, p. 150.