Scheda  
07 Dicembre 2020


L’esclusione del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo: infondate o inammissibili le questioni di legittimità costituzionale


Guglielmo Leo

Corte cost., 18 novembre 2020 (dep. 3 dicembre 2020), n. 260, Pres. Coraggio, Rel. Viganò


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1. Con la sentenza n. 260 del 2020, depositata il 3 dicembre scorso, la Corte costituzionale ha definito tre giudizi incidentali di legittimità, pervenendo ad una valutazione organica delle questioni sollevate da una recente e discussa riforma del sistema penale: la preclusione, cioè, del ricorso al giudizio abbreviato nel caso di reati puniti con la pena dell’ergastolo.

La riforma, attuata con la legge 12 aprile 2019, n. 33 («Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell'ergastolo»), si è concretata attraverso modifiche recate all’art. 429 c.p.p. (inserimento del comma 2-bis), all’art. 438 c.p.p. (inserimento dei commi 1-bis e 6-ter, e modifica del comma 6), all’art. 441-bis (inserimento del comma 1-bis). La norma chiave, indubbiamente, è rappresentata dal nuovo comma 1-bis dell’art. 438, ove testualmente è stabilito, appunto, che «Non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo».

Le censure rivolte alla novella sono state molteplici, così che la sentenza conclusiva del giudizio incidentale presenta un dispositivo complesso, segnato da decisioni di inammissibilità, di manifesta infondatezza, e di non fondatezza. Per i particolari, comunque, può certamente rinviarsi alla consultazione del provvedimento. Qui si cercherà, piuttosto, di fare un quadro sintetico della disciplina scaturita dalla riforma, e delle ragioni per le quali la Consulta (tutto considerato e con qualche segno di perplessità) ha ritenuto di non intervenire con proprie manipolazioni sulla disciplina medesima.

 

2. La storia dei rapporti tra giudizio abbreviato e reati puniti con la massima pena detentiva è stata travagliata. Nella versione finale, la direttiva 52 della legge delega per il vigente codice di procedura penale[1] aveva indicato solo una riduzione proporzionale della sanzione quale incentivo per l’accesso al rito (« nel caso di condanna le pene previste per il reato ritenuto in sentenza siano diminuite di un terzo »), ma il Governo aveva ritenuto ugualmente di estendere l’istituto ai delitti puniti con l’ergastolo, per quanto ovviamente fosse necessario, in quei casi, un criterio non proporzionale di riduzione della risposta sanzionatoria. Varie voci dottrinali avevano denunciato un eccesso di delega, ed in effetti la Consulta aveva ben presto dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 442 c.p.p., nella sola parte in cui stabiliva: «alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione per anni trenta»[2].

La rievocazione di quella fase ha assunto particolare importanza dopo la nuova e recente preclusione introdotta dal legislatore, perché avevano dovuto essere affrontati problemi tornati oggi di attualità. In radice, era discusso se fosse ragionevole una disciplina che escludeva per una intera classe di reati l’opportunità di una rapida ed economica definizione, a prescindere dalla volontà dell’accusato e dalla stessa qualità della prova a suo carico[3]. V’erano poi state numerose questioni applicative: ad esempio, se l’esclusione del rito dovesse essere determinata dal tenore dell’imputazione o piuttosto dalla qualità della pena in concreto irroganda. E poiché le Sezioni unite della Cassazione avevano stabilito che contava l’astratta comminatoria dell’ergastolo in base alla contestazione operata dal pubblico ministero (infra), si era posto il problema delle garanzie da assicurare all’accusato per il caso di qualificazione giuridica arbitraria del fatto, così come il problema, per certi versi speculare, della più severa valutazione giudiziale di un fatto erroneamente contestato in termini compatibili col ricorso al rito (infra).

Il dibattito su questi temi (esteso in realtà a numerose altre questioni) si era sostanzialmente esaurito, per altro, con la riforma del rito attuata mediante la cd. legge Carotti[4]. Il legislatore, libero da ogni vincolo di delega,  aveva infatti reintrodotto la possibilità di procedere con giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo, ponendo quale incentivo la sostituzione della pena perpetua con la reclusione per anni trenta (testo del comma 2 dell’art. 442, come novellato ex art. 30 della legge n. 479 del 1999).

Non erano mancate critiche, legate ad esempio al carattere monocratico dell’organo giudicante per reati con elevatissima risposta sanzionatoria e tradizionalmente affidati alla cognizione del giudice collegiale a composizione mista, tale da inverare la partecipazione del popolo alla amministrazione della giustizia. Erano state prospettate anche questioni di legittimità costituzionale, talvolta risolte già dai giudici comuni nel senso della manifesta infondatezza[5], e in qualche caso rigettate dalla stessa Corte costituzionale[6].  

Naturalmente, non si può rinunciare ad una menzione del più grave problema indotto dalla riforma Carotti, che, nella sua formulazione originaria, conduceva all’assoluta inapplicabilità dell’ergastolo, anche nei casi di cumulo delle pene per una pluralità di gravi delitti. Le polemiche seguite ad alcuni casi di cronaca avevano spinto il legislatore verso la scorciatoia di una sedicente norma interpretativa, tale da prevedere l’applicazione dell’ergastolo nei casi in cui, seguendo il rito ordinario, avrebbe dovuto applicarsi anche l’isolamento diurno quale misura aggiuntiva per il cumulo di pene[7]. Si trattava in effetti di un’innovazione della disciplina del rito, che, come tale, non avrebbe dovuto essere applicata retroattivamente: di qui la celeberrima sentenza Scoppola della Corte edu[8], con il complesso contenzioso che ne era scaturito[9].

 

3. La legge n. 33 del 2019 è intervenuta nuovamente ad escludere la possibilità di definizione alternativa dei procedimenti «per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo», al culmine di un dibattito  pubblico sull’asserita carenza di proporzionalità delle pene temporanee applicate, grazie al rito abbreviato, anche riguardo a delitti di estrema gravità[10].

Il legislatore è stato avaro di specificazioni circa il criterio da utilizzare per l’identificazione dei casi di operatività del divieto. Nella prima fase di preclusione del rito, come accennato (supra, § 2), le Sezioni unite della Corte di cassazione avevano stabilito che dovesse farsi riferimento alla astratta comminatoria della pena perpetua, sulla base del titolo del reato ipotizzato dal pubblico ministero e della correlative circostanze aggravanti[11]. Nel contempo, doveva considerarsi priva di rilievo ogni eventuale prefigurazione di circostanze attenuanti[12], comprese quelle di più sicura integrazione, come la fattispecie concernente la minore età dell’imputato [13]. Sono soluzioni, in effetti, che sembrano agevolmente trasferibili alla nuova disciplina[14].

Una conferma dell’assunto può essere ricavata anche dall’attenzione che il legislatore ha rivolto, questa volta, alle implicazioni di un regime ove sono le scelte del pubblico ministero a condizionare risolutivamente le possibilità di accesso al rito. Senza evocare  la complessa sequenza delle pronunce circa la necessità del sindacato giudiziale sui provvedimenti con effetti preclusivi, va ben ricordato come il ricorso al giudizio speciale  comporti l’effetto sostanziale di una drastica riduzione della pena in caso di condanna. La necessità di specifiche garanzie per l’imputato – nel caso di abusi od errori del pubblico ministero o dello stesso giudice nella qualificazione del fatto come delitto punito con la massima pena detentiva – era già emersa dopo la decisione della Consulta in merito al secondo comma dell’art. 442 c.p.p., ed aveva generato una (non del tutto lineare) soluzione nel più vasto campo del diritto pretorio nato al fine di assicurare, in termini generali, un controllo sui provvedimenti preclusivi del rito.

In estrema sintesi, la giurisprudenza aveva negato ogni possibilità di sindacato preliminare del giudice sulla congruenza dell’imputazione[15], ed era giunta piuttosto ad ammettere una diminuzione di pena, in esito al giudizio condotto secondo le forme ordinarie, quando risultasse erronea la qualificazione del fatto come delitto punibile con la pena dell’ergastolo[16]. Attenzione: non in ogni caso nel quale l’imputazione dovesse essere ridimensionata o diversamente atteggiata per effetto dell’attività istruttoria condotta nel processo, e neppure ovviamente nei casi in cui la pena perpetua non fosse applicata per effetto del riconoscimento di circostanze attenuanti; ma solo, ed appunto, quando risultasse ab origine arbitraria la configurazione del fatto come delitto punito con la massima pena detentiva[17].

Ebbene, come sopra si anticipava, la centralità dell’imputazione, quale elemento discretivo tra ammissibilità e inammissibilità della richiesta di accesso al rito, è confermata dalla cura che il legislatore ha riposto, questa volta, nel delineare una disciplina, complessa anche se non esaustiva, in merito all’eventuale recupero del rito (almeno nelle sue implicazioni sanzionatorie) o, all’inverso, per l’uscita dal rito stesso nel caso di modifiche della contestazione tali da prefigurare la possibile applicazione della pena dell’ergastolo.

 

4. Quali siano poi le caratteristiche della disciplina in questione è argomento che interessa solo indirettamente l’odierna pronuncia della Corte costituzionale, e che dunque vale la pena di richiamare solo sommariamente.

L’obiettivo di garanzia per il diritto dell’imputato di accedere al rito, quando questo sia nella sostanza ammissibile, è stato perseguito anzitutto con il comma 6 dell’art. 438 c.p.p., che disciplina il caso di un provvedimento dichiarativo dell’inammissibilità deliberato prima (o in apertura) della udienza preliminare: la domanda di accesso al rito può essere «riproposta» fino a quando non siano fomulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422 c.p.p.

In secondo luogo, e per tutti i provvedimenti negativi assunti nell’ambito della stessa udienza preliminare, è stato disciplinato un meccanismo post-dibattimentale di sindacato, in forza del quale il giudice, quando «all’esito del dibattimento ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato, applica la riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 comma 2» (nuovo comma 6-ter dell’art. 438 c.p.p.).

Infine una terza ipotesi, cioè quella della riqualificazione del fatto in esito all’udienza preliminare, mediante il decreto che dispone il giudizio, con il passaggio da una contestazione preclusiva del pubblico ministero ad una configurazione giudiziale che invece avrebbe consentito l’accesso al rito. In questo caso, secondo il nuovo comma 2-bis dell’art. 429 c.p.p., il provvedimento giudiziale deve contenere l’avviso che sarà possibile, entro quindici giorni dalla lettura o dalla notifica del medesimo provvedimento, formulare una richiesta di giudizio abbreviato. Per regolare gli adempimenti successivi, il legislatore della riforma ha disposto l’applicazione dell’art. 458 c.p.p., norma che regola la situazione analoga di un giudizio dibattimentale disposto al di fuori dell’udienza preliminare (e cioè mediante il rito immediato).

È una disciplina articolata, specie considerando che si tratta del primo rilevante intervento legislativo su una materia in precedenza governata solo dal “formante giurisprudenziale”, e tuttavia segnata da vuoti e gravida di problemi applicativi, parte dei quali già individuati nel dibattito dottrinale[18]. È una disciplina che vale palesemente a confermare, comunque, che il legislatore non ha inteso introdurre una possibilità di sindacato preliminare sulla imputazione preclusiva dell’accesso al rito[19].

Per quel che poi riguarda l’uscita dal rito, quando si debba proseguire il processo in base ad una imputazione preclusiva, il problema si pone anzitutto nei casi regolati agli artt. 438, comma 5 e 441-bis c.p.p., laddove il mutamento della base cognitiva del giudizio comporta, appunto, la possibilità di modifiche della contestazione con riguardo ad un fatto nuovo, diverso o diversamente circostanziato[20]. Ma un effetto di preclusione può derivare dalla mera riqualificazione del medesimo fatto storico, possibile anche quando non vi sia stata alcuna integrazione istruttoria[21].

Ebbene, il legislatore della riforma ha inserito una regolazione del fenomeno nel corpo dell’art. 441-bis (nuovo comma 1-bis), sebbene la norma sia nata con una diversa funzione (non quella di espellere l’imputato, eventualmente suo malgrado, dal rito abbreviato, ma consentire all’imputato stesso una rinuncia a fronte della nuova contestazione). Si tratta  di una nuova e formale fattispecie di revoca dell’ordinanza di accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato, per altro riferita in modo espresso al solo caso che si proceda (o si debba procedere) con udienza preliminare, tanto che la revoca comporta la fissazione di una nuova sessione camerale. Ciò pone naturalmente il problema dei meccanismi di riattivazione del giudizio, nelle forme originarie, riguardo ai casi in cui l’udienza preliminare non debba essere celebrata: problema sul quale sono già intervenuti alcuni autori, palesando la difficoltà di individuare soluzioni lineari e funzionali[22].

 

5. Fatto dunque un punto, per quanto sommario, sulle condizioni che attivano la nuova preclusione di accesso al rito abbreviato, v’è da dire che già durante l’iter di approvazione della riforma erano nate polemiche intorno alla compatibilità costituzionale della medesima preclusione, poi sviluppate a fronte della concreta articolazione assunta dalla novella.

Parte essenziale del dibattito sono stati i giudici di merito, alcuni dei quali hanno sollevato le questioni poi risolte dalla Consulta con la sentenza in commento[23], pur non essendo mancate pronunce nel senso, invece , della infondatezza manifesta[24]. Anche la dottrina, comunque, aveva espresso dubbi circa la compatibilità costituzionale della riforma, prospettando tra l’altro profili di contrasto con l’art. 3 Cost. (per l’asserita sperequazione in danno degli imputati di reati puniti con pena perpetua), con il comma 2 dell’art. 27 Cost. (presunzione di innocenza), con l’art. 24 Cost. (afferendo la scelta dei riti alle forme di manifestazione del diritto di difesa), con l’art. 27, terzo comma, Cost. (nell’ambito di critiche generali alla previsione dell’ergastolo in rapporto alla finalizzazione rieducativa della pena), con l’art. 111 Cost. (sotto il profilo della ragionevole durata del processo). Si era pure osservato, in punto di razionalità della normativa (ed anche di ragionevolezza dell’automatismo sanzionatorio che ad essa sarebbe sotteso), che la nuova disciplina sconterebbe il falso presupposto che il giudizio abbreviato produca una pena necessariamente sproporzionata per difetto, laddove sbandamenti rilevanti sarebbero dati piuttosto, e semmai, dal gioco delle circostanze e della relativa comparazione[25].

 

6. Ecco, comunque, le questioni effettivamente sollevate nel giudizio incidentale definito mediante la sentenza in commento: sono stati censurati per un verso il comma 1-bis dell’art. 438 c.p.p., cioè la norma che stabilisce direttamente la preclusione per l’accesso al rito, e per altro verso gli artt. 3 e 5 della legge n. 33 del 2019, cioè, rispettivamente, la norma che ha eliminato le disposizioni concernenti la riduzione premiale della pena nel caso di reati puniti con l’ergastolo e la norma   per cui le nuove disposizioni «si applicano ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore» della citata legge di riforma.

Nel complesso, i giudici rimettenti hanno prospettato violazioni degli artt. 3, 24, 27, secondo comma, 111, primo e secondo comma,  117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Come detto in apertura, tali questioni sono state definite dalla Corte nel senso della inammissibilità o della infondatezza (in parte manifesta). Conviere dare subito una rapida descrizione delle censure “collaterali” o più palesemente insuscettibili di accoglimento, così da concentrare poi l’attenzione sul nucleo essenziale delle critiche rivolte alla novella.

Anzitutto i rilievi concernenti l’art. 5 della legge n. 33 del 2019. Si è già avuto modo di notare come la disposizione abbia opportunamente risolto in modo espresso il nodo della irretroattività di una disciplina certamente meno favorevole al responsabile di un reato punibile con l’ergastolo, e certamente afferente, sotto il profilo sanzionatorio, al diritto penale sostanziale. Il giudice spezzino aveva ipotizzato che, stabilendo la perdurante ammissibilità del rito solo con riguardo ai “fatti” commessi prima della riforma, la disciplina precludesse ormai il giudizio abbreviato anche nei casi (come quello di specie) in cui l’evento lesivo fosse maturato dopo la riforma stessa, sebbene la condotta causativa fosse stata tenuta in epoca antecedente. Un presupposto erroneo, ha spiegato la Corte: proprio recentemente, le Sezioni unite della Cassazione hanno chiarito che il tempus commissi delicti, nel caso dei così detti reati ad evento differito, deve identificarsi con riferimento alla condotta, e non all’evento conseguente[26]. Il giudice a quo avrebbe quindi potuto ed anzi dovuto accogliere la richiesta di giudizio abbreviato proposta nel giudizio principale: la Corte ha dunque escluso che la norma censurata stabilisca il divieto ipotizzato dal rimettente, entrando così nel merito  della questione, e dichiarandone la non fondatezza.

Un secondo errore di lettura – questa volta riferibile alla Corte d’assise napoletana – ha condotto addirittura ad una dichiarazione di infondatezza manifesta della questione sollevata, concernente il comma 1-bis dell’art. 438 c.p.p. in rapporto a una presunta violazione dei parametri sovranazionali (nella specie, gli artt. 6 e 7 della Cedu). La novella escluderebbe ingiustamente una “categoria di imputati” dalla possibilità di accesso al rito. Ma la stessa decisione della Corte di Strasburgo invocata a sostegno della regola asseritamente vulnerata aveva chiarito che  «gli Stati contraenti non sono costretti dalla Convenzione a prevedere […] delle procedure semplificate», altra questione essendo quella dei rimedi contro provvedimenti individuali di esclusione, che nel nostro ordinamento non mancano (supra, § 4) e che comunque rappresentano un problema diverso da quello delle preclusioni dettate in astratto con riguardo a categorie generali di reati.

 

7. Va ancora dato conto della soluzione adottata per ulteriori censure, anch’esse in certo senso esterne al nucleo centrale della critica mossa alla riforma, che ruota essenzialmente intorno ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza.

Così anzitutto per la tentata valorizzazione del diritto di accesso ai riti speciali come profilo essenziale del diritto di difesa (art. 24, considerato in sé ed in relazione agli artt. 2, 3 e 27, secondo comma, Cost.), concetto più volte enunciato, in effetti, dalla stessa Corte costituzionale. Anche qui la risposta è stata agevole: la norma costituzionale non assicura il diritto di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall’ordinamento processuale penale, quale che sia il reato in contestazione; semmai – come già si è notato – la Costituzione impone la garanzia che l’accesso al rito non sia precluso sulla base di decisioni arbitrariamente assunte con riguardo al caso concreto[27].

Per altro verso, la Corte napoletana aveva delineato una sorta di diritto dell’accusato a quella esclusione del pubblico cui normalmente dà luogo la celebrazione del giudizio abbreviato, quale presidio del suo interesse alla riservatezza ed alla dignità della propria persona (di qui l’evocazione, in particolare, dell’art. 2 Cost.). Ebbene, se è vero che la pubblicità del processo è costruita dalla disciplina sovranazionale soprattutto quale garanzia per l’imputato (più difeso, grazie al “controllo” pubblico, contro l’eventualità di errori o vessazioni), con la conseguenza che dovrebbe trattarsi di una garanzia disponibile, è anche vero che la proiezione pubblica della giurisdizione esprime delle rationes concorrenti, e potenzialmente confliggenti. La Corte ne ricorda diffusamente alcune, espressioni del principio secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo (art. 101, primo comma, Cost.), e legate anche all’interesse delle vittime dei reati, il cui diritto ad una conduzione trasparente del processo non può essere annichilito, proprio ed anche in ragione di norme sovranazionali di tutela[28].

Quanto al giudice di Piacenza, la sua ordinanza aveva sviluppato un ragionamento relativamente complesso, riferito per un verso alla presunzione di non colpevolezza, e per l’altro ai principi di uguaglianza e ragionevolezza. In estrema sintesi, non sarebbe tollerabile che l’accesso al rito di una persona – da considerarsi innocente fino a prova contraria – sia precluso da una opzione del pubblico ministero, tale da “forzare” il processo verso un esito drammatico (l’inflizione del carcere a vita), magari (non è del tutto chiaro) in eccedenza rispetto allo stesso principio di proporzionalità delle sanzioni penali.

Agevole, anche qui, la risposta della Corte. Come già si è visto, uno dei meriti della riforma sta proprio nell’avere tentato (riuscendovi solo in parte) la costruzione di un sistema di garanzia tale da sterilizzare gli effetti sulla pena dei provvedimenti arbitrari del pubblico ministero, sia  consentendo l’accesso al rito, sia e comunque procurando la relativa riduzione di pena (supra, § 4). D’altra parte, nel procedimento ordinario non mancano gli strumenti per evitare l’applicazione dell’ergastolo, quando la stessa sia priva di corrispondenza ai criteri dell’art. 133 c.p., e sempreché, naturalmente, non sussista neppure un ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’accusato, ché altrimenti lo stesso, com’è ovvio, andrebbe esente da qualsiasi pena.

Infine, le censure riferibili più o meno direttamente al principio della ragionevole durata del processo, inteso anche quale “giusto processo” (primo e secondo comma dell’art. 111 Cost.), in base all’idea che l’approdo alla fase dibattimentale di tutti i giudizi concernenti delitti gravissimi (a cominciare dall’omicidio) implichi una progressiva congestione dei ruoli, ed inevitabili riflessi sui tempi di definizione del contenzioso penale.

Troppo spesso, in effetti, si dimentica che durata “ragionevole” non equivale a durata “breve”, quanto piuttosto ad un impegno di tempo (e risorse) adeguato alla complessità ed al valore degli interessi in gioco. La Corte in particolare ha ricordato, a questo proposito,  che il principio costituzionale può considerarsi violato solo quando si individua un fattore che appesantisce tempi e gestione della procedura senza che ne derivi alcun incremento dei livelli di tutela per i diritti fondamentali coinvolti nel giudizio[29].

Una volta esclusa l’irragionevolezza dell’opzione per un processo pubblico e gestito con le modalità tipiche del dibattimento (infra), la conseguente rinuncia a forme contratte di esercizio della giurisdizione non può, a sua volta, considerarsi irragionevole.

 

8. Ma può giungersi finalmente all’esame del nucleo essenziale delle critiche mosse alla riforma, dislocato tra la logica del giudizio “triadico” di uguaglianza ed il sindacato sulla intrinseca ragionevolezza dell’opzione legislativa.

Qui, per vero, gli argomenti dei rimettenti ricalcavano nella maggior misura quelli già sottoposti alla Consulta nell’epoca in cui – per effetto della più volte citata sentenza n. 176 del 1991 – i delitti puniti con la pena dell’ergastolo erano rimasti esclusi dal campo di applicazione del rito abbreviato. In quella occasione la Corte aveva stabilito che la preclusione «non è in sé irragionevole, né l’esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l’ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee». Il precedente era tanto pertinente che, nell’odierna sentenza, la Corte si è chiesta apertamente se dovesse optare per un overruling, giungendo per altro alla soluzione negativa[30].

I nuovi rimettenti, riguardo al principio di uguaglianza formale, hanno prospettato tanto un vizio di pari trattamento per situazioni diseguali, tanto un profilo di differente trattamento per situazioni assimilabili. Quale prova di equiparazione indebita, è stata in sostanza proposta la comparazione tra delittimi gravissimi (come potrebbero essere le stragi di mafia o di matrice terroristica) e l’omicidio d’impeto nei confronti del coniuge, fatti tutti ugualmente insuscettibili di giudizio mediante il rito abbreviato, essendo punibili con la pena dell’ergastolo. Riguardo invece alle differenze di trattamento asseritamente ingiustificate, sono state evocate ipotesi di omicidio non sanzionate con l’ergastolo (quella in danno dell’ex coniuge dopo il divorzio, ad esempio, in ciò discriminata rispetto al fatto commesso contro il coniuge in costanza del matrimonio, anche nel caso di seperazione legale), oppure ipotesi di indebita contestazione di fattispecie circostanziali con effetti preclusivi, poste a raffronto con i casi in cui l’ergastolo non venga applicato per effetto di favorevole comparazione con circostanze attenuanti.

Ora, per le perequazioni dovute alla comune previsione edittale dell’ergastolo  (ma anche, mutatis mutandis, per le sperequazioni dipendenti da difformi comminatorie), le critiche dei rimettenti appaiono risolte in censure concernenti le scelte sanzionatorie del legislatore, più che in sindacato circa le relative implicazioni processuali. Censure – ha osservato la Corte – che i giudici a quibus non hanno sollevato espressamente, e che comunque non condurrebbero ad un giudizio di manifesta irragionevolezza, il solo praticabile riguardo ad opzioni rimesse ad una discrezionalità particolarmente elevata del legislatore.

D‘altra parte – e qui si viene alle differenti conseguenze sanzionatorie prodotte dalla preclusione, a seconda che il giudice dibattimentale escluda una aggravante (e dunque riconosca la diminuzione connessa al rito) o piuttosto la neutralizzi mediante comparazione con attenuanti (caso in cui la riduzione “processuale” non spetta) – il legislatore può certamente rifersi, per limitare  l’accesso ad un rito premiale, all’astratta comminatoria di pena, che esprime la valutazione normativa circa il disvalore del fatto (supra). Così stabilito, subito si percepisce la differenza (e dunque il carattere arbitrario dell’equiparazione proposta) tra il caso in cui un soggetto sia “correttamente” accusato del delitto aggravato che giustifica il giudizio di disvalore più severo, quand’anche lo stesso soggetto venga poi ammesso a valersi di fattori attenuanti, ed il caso in cui l’accusato abbia subito la preclusione senza che si giustificasse la contestazione con effetti preclusivi dell’accesso al rito. Nel primo caso la comminatoria astratta produce fisiologicamente l’esclusione del giudizio abbreviato; nel secondo caso l’esclusione risulta patologica, e va fronteggiata almeno con il riconoscimento tardivo della riduzione di pena[31].

Quanto poi ai denunciati profili di intrinseca irragionevolezza dell’opzione legislativa, la Corte ha ripetuto, ancora una volta, che non può definirsi irrazionale l’ancoraggio alla previsione edittale di pena per una selezione dei fatti ritenuti immeritevoli della semplificazione: con conseguenze per vero eterogenee, visto che, alla pena effettivamente più elevata, fanno comunque riscontro le maggiori garanze dovute alla connotazione ordinaria del rito, in casi nei quali la decisione giudiziale, quale che sia, produce effetti particolarmente rilevanti, anche (sebbene non soltanto) per lo stesso imputato[32].

La Corte non ha certo ignorato, infine, la finalità politica forse più evidente e controvertibile della riforma, cioè quella di aumentare la pressione punitiva per i fatti di reato più gravi, in particolare favorendo la pronuncia di un numero più elevato di condanne alla pena dell’ergastolo. Una finalità palesemente non supportata dalla decisione in commento, ma certo non classificabile come esercizio irrazionale della sovranità del Parlamento nelle scelte di politica criminale. E del resto, come già notato, l’applicazione della novella non trasmoda irrimediabilmente nell’applicazione di pene sproporzionate per eccesso, essendo sempre possibile, per le Corti d’assise, l’irrogazione di sanzioni più moderate, ove il singolo caso lo richieda (ad esempio per effetto della confessione dell’accusato, evocata a più riprese quale fattore che renderebbe inutile il ricorso al dibattimento).

In altre parole – questo è forse uno dei significati di una sentenza obiettivamente complessa – l’ampio dibattito sulla compatibilità dell’ergastolo con la Costituzione non può trovare scorciatoie nella ricerca di soluzioni processuali caricate, impropriamente, del compito di precluderne o di renderne assai difficoltosa l’applicazione.

 

 

[1] Legge 16 febbraio 1987, n. 81.

[2] Corte cost., 23 aprile 1991, n. 176, in Riv. it. dir. proc. pen. 1991, 1029. Il fatto che l’ablazione si fosse limitata alla norma concernente la riduzione di pena aveva indotto dubbi e discussioni circa l’effetto di totale preclusione dell’accesso al rito, che secondo alcuni sarebbe rimasto ammissibile, con soluzioni variamente proposte riguardo alla pena irrogabile nel caso di condanna. Alla fine, comunque, era prevalsa la conclusione che l’assenza della previsione sanzionatoria comportasse l’inammissibilità delle domande di giudizio abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo: Cass., Sez. un., 6 marzo 1992, n. 2977, in Cass. pen.  1992, 2701.

[3] La Consulta aveva ritenuto la manifesta infondatezza di questi sollevate riguardo all’art. 3 Cost.: Corte cost., 2 aprile 1992, n. 163, in Giur. cost. 1992, 1251.

[4] Legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennita' spettanti ai giudice di pace e di esercizio della professione forense).

[5] Ad esempio, Cass., sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, in C.E.D. Cass., n. 240762-01.

[6] Ord. 2 aprile 2009, n. 102, in Giur cost. 2009, 921.

[7] Art. 7, comma 2, del decreto-legge n. 341 del 2000, come conv. dalla legge n. 4 del 2001, di ulteriore modifica del comma 2 dell’art. 442: «alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati, è sostituita quella dell’ergastolo».

[8] Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, in Riv. it. dir. proc. pen. 2010, 356.

[9] Per una sintesi recente della vicenda può leggersi E. Valentini, Giudizio abbreviato, ergastolo, tempus regit actum: alla vigilia di una importante decisione della Corte costituzionale, in questa Rivista, 2020, 11, p. 27 ss. La matura consapevolezza del legislatore circa lo spessore delle questioni di diritto intertemporale ha fortunatamente indotto, in occasione della più recente riforma ad adottare una soluzione radicale, stabilendo, con l’art. 5 della citata legge n. 33 del 2019, che «le disposizioni di cui alla presente legge si applicano ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge»: in sostanza, riguardo a reati commessi dal 21 aprile 2019 in poi (essendo fissata al 20 aprile la data di entrata in vigore della novella). Dunque, anche considerandola per intero pertinente alla disciplina sostanziale del trattamento delle condotte punibili, la nuova regolazione del giudizio abbreviato, per i fatti in astratto sanzionati con l’ergastolo, sarà comunque e sempre una legge penale antecedente ai fatti medesimi.

[10] Sugli antecedenti parlamentari della legge, e sulla sua ratio complessiva, si veda ad esempio D. Vigoni, Ancora una riforma del giudizio abbreviato: l’inammissibilità per i delitti puniti con l’ergastolo, in Dir. pen. e proc. 2019, p. 919 ss.

[11] Cass., sez. un., 6 marzo 1992, n. 2977, cit., anche in Riv. it. dir. e proc. pen. 1993, 370, con nota di G. Lozzi, La non punibilità con l’ergastolo come presupposto del giudizio abbreviato.

[12] Ad esempio, Cass., sez. I, 21 gennaio 1998, n. 7427, in Cass. pen. 1999, 3167; si veda anche C. cost., 19 giugno 1995, n. 263, ivi 1995, 2795.

[13] Cass., sez. I, 20 dicembre 1995, n. 880/96, in C.E.D. Cass., n. 203505-01.

[14] Cosi ad esempio D. Vigoni, Ancora una riforma del giudizio abbreviato, cit., p. 920 ss.

[15] In questo senso si era indirettamente pronunciata anche Corte cost., 3 aprile 1992, n. 163, in Giur. cost. 1992, 1251.

[16] Giurisprudenza pressoché  costante, da Cass., sez. I, 2 aprile 1993, n. 4608, in Arch. nuova proc. pen. 1993, 426, a  Cass., sez. I, 14 gennaio 1998, n. 2764, in Cass. pen. 1999, 3166.

[17] Anche in questo caso si era cumulata una copiosa giurisprudenza conforme. A esempio Cass., sez. VI, 7 maggio 1997, n. 7322, in C.E.D. Cass., n. 209741-01;  Cass., sez. V, 19 settembre 2000, n. 11462, ivi, n. 217529-01. Una conferma era venuta anche dalla Consulta, che aveva rigettato questioni mirate a consentire l’applicazione della diminuente in ogni caso di concreta non applicazione della pena perpetua: C. cost., 24 ottobre 1995, n. 449, in Cass. pen. 1996, 447.

[18] Tra gli autori che hanno trattato dell’argomento, in generale o su aspetti particolari, possono segnalarsi: Agostino, Giudizio abbreviato ed ergastolo: un rapporto complicato, in Giust. pen. 2019, III, c. 482 ss.; A. Marandola, La riforma del giudizio abbreviato: prime questioni applicative ed esegetiche della legge n. 33 del 2019, in Studium iuris 2019, p, 1428 ss.; C. Marinelli, Giudizio abbreviato ed ergastolo: la legge 33/2019 tra aporie esegetiche e ricadute sistemiche, in Riv. it. dir. proc. pen. 2020, p. 37 ss.; S. Preziosi, Ergastolo e paradigma punitivo nel fuoco del giudizio abbreviato: linee di intersezione tra diritto e processo penale, in Dir. pen. e proc. 2020, 245; G. Spangher, Esclusi dall’abbreviato i reati puniti con l’ergastolo, in Il processo 2019, 2, p. 489 ss.; D. Vigoni, Ancora un riforma, cit., p. 919 ss.

[19] In tal senso, fra gli altri, A. SCALFATI, L’uso strategico dei procedimenti “differenziati”, in Arch. pen.  2019, p. 853 ss.

[20] Si ricordi in proposito come, dopo una lunga stagione di incertezze, le Sezioni unite della Corte di cassazione abbiano stabilito che nel corso del giudizio abbreviato, ove si sia proceduto ad integrazione della prova (su richiesta condizionante dell’imputato o su iniziativa officiosa), la modifica dell’imputazione è possibile solo per i fatti emergenti dalle nuove fonti cognitive, ed entro i limiti previsti dall’art. 423. Non solo dunque le variazioni sono precluse quando non vi sia alcuna attività di integrazione della prova. Quand’anche tale integrazione sia stata operata, le nuove contestazioni possono riguardare solo i fatti non precedentemente emersi: in sostanza, le contestazioni suppletive nell’abbreviato possono avere solo carattere “fisiologico” (Cass., sez. un., 13 febbraio 2020, n. 5788, in questa Rivista, con nota di  di V. Gramuglia, L’oggetto probatorio delle contestazioni suppletive nel giudizio abbreviato "a prova integrata").

[21] Da ultimo, Cass., sez. II, 17 luglio 2019, n. 44574, in C.E.D. Cass., n. 277761-01.

[22] Sul punto, tra gli altri, C. Marinelli, Giudizio abbreviato ed ergastolo, cit., p. 57; G. Spangher , Esclusi dall’abbreviato, cit., p. 489 ss.

[23] Si tratta in particolare di: G.i.p. La Spezia, 6 novembre 2019, in Giust. insieme, 7 febbraio 2020, con nota di G. Spangher, La questione di legittimità Costituzionale sollevata dal Tribunale di La Spezia con l’ordinanza del 6 novembre 2019; Ass. Napoli, III sez., 5 febbraio 2020, in G.U. - 1ª Serie speciale, n. 27, 1° luglio 2020; G.i.p. Piacenza, 16 luglio 2020, in Quot. giur., 31 luglio 2020, con nota di A. De Caro,  Profili di legittimità costituzionale del divieto di giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo. I tre provvedimenti sono stati pubblicati anche in questa Rivista, con la citata nota di E. Valentini, Giudizio abbreviato, ergastolo, tempus regit actum: alla vigilia di una importante decisione della Corte costituzionale.

[24] Così ad esempio  G.i.p. Alessandria, 28 maggio 2020, in questa Rivista, con nota di E. Crippa, Pena perpetua e giudizio abbreviato: manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale; Ass. Santa Maria Capua Vetere, 10 giugno 2020, ivi, 24 luglio 2020, con nota di A. Franceschini, Giudizio abbreviato e reati puniti con l’ergastolo: storia di un rapporto tormentato e di ricorrenti dubbi costituzionali.

[25] Per uno o più di tali aspetti possono leggersi, tra gli altri, F. Barbero, L’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo. Brevi note a caldo, in Giur. pen. online, 5 maggio 2019; A. De Caro, Le ambigue linee di politica penale dell’attuale legislatore: giudizio abbreviato e reati puniti con la pena dell’ergastolo, in Dir. pen. e proc. 2018, p. 1632 ss.; G. Di Chiara, Giudizio abbreviato, reati da “ergastolo”, populismo penale e Stato di diritto, in Proc. pen. giustizia 2019, p. 1037 ss.; F. Giunchedi, De profundis per i procedimenti speciali. Considerazioni a margine alla legge di inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo, in Arch. pen. 2019, p. 2 ss.;   S. Preziosi, Ergastolo e paradigma punitivo, cit., p. 248; F. Zacchè, Inammissibile l’abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo: osservazioni a margine della l. 12 aprile 2019, n. 33, in Proc. pen. e giust. 2019, 1202.  Va comunque detto come altra parte della dottrina avesse escluso profili di incompatibilità della nuova disciplina con la Carta costituzionale, anche alla luce delle decisioni già assunte dalla Consulta (Corte cost. ord. 28 dicembre 2006, n. 455, in Cass. pen. 2007, 2444) con riguardo alle preclusioni concernenti il cd. patteggiamento allargato (in generale, si vedano G. Spangher, Come cambia il giudizio abbreviato: conseguenze dell’inapplicabilità del rito speciale ai delitti puniti con l’ergastolo, in Il penalista 8 aprile 2019; D. Vigoni, Ancora un riforma del giudizio abbreviato, cit., p. 929,  quest’ultima con margini di perplessità riguardo al procedimento minorile, ove la preclusione si scontra con l’inapplicabilità della pena perpetua; sullo specifico avrgomento anche C. Marinelli, Giudizio abbreviato ed ergastolo, cit., p. 62.

[26] Cass., Sez. un., 19 luglio 2018, n. 40986, in Dir. pen. contemporaneo 2018, con nota di S. Zirulia, Le Sezioni Unite sul tempus commissi delicti nei reati c.d. ad evento differito (con un obiter dictum sui reati permanenti e abituali), ed in Cass. pen.  2019, 76, con nota di A. Nocera,Tempus commissi delicti e reati ad evento differito.

[27] In tal senso, recentemente, Corte cost. 14 maggio 2015, n. 95, in Cass. pen.  2015, 3112.

[28] Non è certo la prima volta che la Consulta evidenzia il valore di interessi confliggenti con l’ambizione dell’imputato a sottrarsi allo strepitus fori. Già nel 1991 la Corte  aveva considerato la pubblicità del processo quale connotato essenziale per l’esercizio democratico della giurisdizione, specie quella penale, pur ammettendo eccezioni « per singole categorie di procedimenti » (Corte cost., 8 febbraio 1991, n. 69, in Giur. cost. 1991, 496). Per altro, dopo breve tempo, la stessa Consulta aveva giudicato costituzionalmente necessaria una diversa mediazione tra gli interessi in gioco, che assicurasse il « controllo della pubblica opinione sullo svolgimento dei processi penali » (Corte cost., 27 luglio 1992, n. 373, in Giur. cost. 1992, 2977). La Corte non trascurava la dimensione soggettiva del problema, nel cui ambito la garanzia della pubblicità è derogabile, ed ammetteva che le esigenze di celerità del rito potessero legittimare una particolare modulazione del principio. Tuttavia il bilanciamento tra gli interessi concorrenti spettava al legislatore, così da rendere inammissibile, al proposito, un sindacato della stessa Consulta (nello stesso senso, successivamente, Corte cost., 21 aprile 1994, n. 160, in Giur. cost. 1994, 1218). In seguito, com’è noto, la disciplina in questione è stata modificata dalla legge Carotti: secondo l’attuale comma 3 dell’art. 441, la regola continua ad essere quella della forma camerale del giudizio, e tuttavia, « quando ne fanno richiesta tutti gli imputati », il giudice dispone che il procedimento sia celebrato in pubblica udienza. È significativo come gran parte della dottrina abbia lamentato un eccessivo sacrificio dell’interesse sociale alla diretta conoscenza delle attività di giurisdizione (tra gli altri, Caprioglio, Sub artt. 27-31, in Dir. pen. e proc. 2000, p. 298; Degl’Innocenti-De Giorgio, Il giudizio abbreviato, Milano, 2018, p. 109; Diotallevi, Ciò che è pubblico deve svolgersi in pubblico (note su giudizio abbreviato e pubblicità delle udienze), in Quest. giust. 2001, p. 657; Montagna, voce Giudizio abbreviato, in Dig. d. pen., Agg. 2004, Utet, p. 330; Negri, Il « nuovo » giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di Peroni, Padova, 2000, p. 496; Raiteri, Profili del “nuovo” giudizio abbreviato, in Giur. it. 2001, 192; Zacché, Il giudizio abbreviato, Milano, 2004, p. 130. Prima dell’odierna occasione, risulta che la Consulta avesse deliberato una sola decisione sull’argomento, dichiarando per altro inammissibile per irrilevanza la questione proposta nella specie (Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115, Cass. pen. 2001, 2603).

[29]  In tal senso, tra i provvedimenti più recenti, Corte cost., 29 gennaio 2016, in Foro it. 2016, I, 756.

[30] Va ricordata in particolare l’ordinanza 28 dicembre 2006, n. 455, in Giur. cost.  2006, 4597, concernente le esclusioni oggettive dal cd. “patteggiamento allargato”, che si fondano, com’è noto, tanto sui livelli di pena edittale che sul titolo di specifici comportamenti criminosi. In quella sede la Corte aveva tra l’altro affermato che «l’individuazione delle fattispecie criminose da assoggettare al trattamento più rigoroso – proprio in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all’allarme sociale generato dai singoli reati, il quale non è necessariamente correlato al mero livello della pena edittale – resta affidata alla discrezionalità del legislatore; e le relative scelte possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto alle eventuali disarmonie del catalogo legislativo, allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione». Il concetto è stato di recente ribadito da Corte cost. 28 maggio 2015, n. 95, in Cass. pen.  2015, 3112.

[31] Rilievi critici sulla esclusione della tutela ai casi di neutralizzazione delle aggravanti attraverso il giudizio di comparazione erano stati svolti ad esempio da E. Valentini, Giudizio abbreviato, cit., p, 38 ss., con la prospettazione di una possibile interpretazione adeguatrice del comma 1-bis dell’art. 438, utile all’estensione del meccanismo proprio “con riguardo ai casi in cui l’aggravante, pur correttamente contestata, risulti poi ‘assorbita’ in conseguenza del giudizio ex art. 69 c.p.”.

[32] Sull’affidabilità epistemica del rito, e sulla sua pubblicità, convergono come detto anche gli interessi della vittima di delitti tanto gravi, ché tale dev’essere considerato, alla luce della normativa sovranazionale di tutela, anche il «familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona» (art. 2, paragrafo 1 della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI). L’art. 10  della medesima direttiva garantisce alla vittima, in linea di principio, il diritto di essere «sentit[o] nel corso del procedimento penale» e di «fornire elementi di prova», in conformità alle norme «stabilite dal diritto nazionale».