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  Scheda  
22 Settembre 2020


Reati violenti e Corte europea dei diritti dell’uomo: sancito il diritto alla vita e il “diritto alle indagini”

C. eur. dir. uomo, Sez. II, 4 agosto 2020, Dhurata Terschana c. Albania, ric. n. 48756/14



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1. Violenza di genere: le recenti vicende italiane. – Alcuni recenti episodi di cronaca nazionale hanno riproposto il tema della violenza domestica, sotto vari profili, connessi, comunque, alla tutela delle vittime, sia adulti, sia minori.

Nonostante la accresciuta sensibilità, anche normativa, nei confronti di questo problema, variamente legato all’evoluzione sociale, all’emergere di situazioni precedentemente ignorate o non emergenti e alle forti imposizioni di adeguamento legislativo derivanti dall’Europa [v., soprattutto, Raccomandazione (2000) 5 aprile 2002 sulla Protezione delle donne dalla violenza nella quale si precisa che gli Stati membri hanno “l’obbligo di esercitare la dovuta diligenza per prevenire, indagare e punire gli atti di violenza”] e, più in generale dagli accordi sovranazionali (v., fra le altre, la Convenzione di Istanbul che fornisce un quadro completo per prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro la donna e la violenza domestica e per proteggere le vittime e, al riguardo, la Convenzione europea sul risarcimento delle vittime di crimini violenti, nonché, rispetto ai minori, la Convenzione di Lanzarote), forti restano i deficit e le criticità che comunque si manifestano e che richiedono ulteriori elementi di azione, al di là di quanto, pur significativamente, si è fatto e si sta cercando di fare (v., in sequenza e senza pretesa di completezza, l. 27 giugno 2013, n. 77; d. l. 14 agosto 2013, n. 93; l. 13 luglio 2015, n. 107; d. l. 15 giugno 2015, n. 80; l. 7 luglio 2016, n. 122; l. 23 giugno 2017, n. 103; l. 17 ottobre 2017, n. 161; l. 4 dicembre 2017, n. 172; l. 11 gennaio 2018, n. 4; l. 19 luglio 2019, n. 69).

Peraltro, archiviata l’emozione e lo sconcerto per quanto accaduto (e/o si poteva evitare), le questioni emergenti dai diversi episodi, pur evidenziando linee omogenee di carenze, di ritardi, di incrostazioni burocratiche, sono in parte rimosse, sovrapponendosi ad esse altre situazioni che richiedono pari o maggiore attenzione, in attesa di riproporsi di fronte a nuovi episodi che (troppo spesso) ripetono le carenze e i ritardi dell’azione di prevenzione.

Va anche detto che quella in oggetto è materia complessa, in relazione alla quale non sempre è agevole individuare le soluzioni più adeguate, anche se certi meccanismi ripetuti potrebbero essere suscettibili di far individuare, anche al legislatore, delle soluzioni più adeguate e, soprattutto, tempestive.

 

2. Le indicazioni fornite dalla Corte europea nel caso Dhurata Terschana c. Albania. – Su queste tematiche si è di recente pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo, in relazione ad un caso albanese.

Nel caso di specie la Corte europea è stata chiamata ad esprimersi su un ricorso presentato per la ritenuta violazione degli articoli 2, 3 e 8 Cedu da un donna albanese che, il 29 luglio 2009, mentre camminava lungo una strada di Tirana ha riportato gravi ferite in un attacco con l'acido da parte di un assalitore non identificato (ma ritenuto, dalla donna, il marito).

La ricorrente lamenta il fatto che, nonostante le attività investigative intraprese dagli organi investigativi, queste si sono rivelate intempestive, inefficaci e incapaci di punire l’assalitore: l’autorità, dunque, non sarebbe stata in grado di proteggere la sua vita e il suo diritto alla vita privata.

Nel caso di specie, pur essendo state svolte indagini, si è evidenziato che è mancato, anche per la carenza di attrezzature, lo svolgimento di una perizia tesa ad accertare la natura dell’acido usato contro la vittima, così da risalire al suo utilizzatore, che l’analisi della videoregistrazione è stata parziale e che quella dei vestiti non è stata effettuata, perché l’ente al quale è stata conferita la verifica l’aveva ritenuta estranea alle proprie competenze. Inoltre, non sono state fornite delle risposte alla vittima in merito allo stato di avanzamento delle indagini, così da non consentirle di contestare lo sviluppo delle stesse.

Il riferimento all’Albania, pur non essendo decisivo, è tuttavia significativo, in considerazione dell’elevato numero di reati di violenza domestica – quale violazione diffusa dei diritti umani – che in quel Paese si registrano e di un contesto culturale e di valori sociali non favorevoli alla tutela della donna.

Ciononostante, la Corte europea ritiene la legislazione albanese in materia del tutto efficace al momento della commissione del fatto, tanto da non aver condannato, sotto tale aspetto, lo Stato chiamato a difendersi innanzi alla Corte. Al contrario la Seconda Sezione della Corte di Strasburgo ha ritenuto integrata la violazione dell’art. 2 Cedu nell’ambito del suo aspetto procedurale in quanto le autorità investigative non hanno reagito con la necessaria diligenza, celerità e determinazione nello svolgimento di un’attività investigativa di importanza cruciale. Né, peraltro, la vittima ha potuto godere delle necessarie notizie e informazioni, né dei necessari mezzi di controllo procedurali.

Il significativo punto di partenza delle riflessioni fornite, ancora una volta, dai giudici di Strasburgo è costituito dalla riconducibilità della violenza nel raggio di operatività dell’art. 2 Cedu, nei suoi aspetti sostanziali e procedurali, che tutela il diritto alla vita, anche in assenza di una responsabilità diretta da parte dello Stato.

La tutela – sì precisa – non va riferita soltanto all’eventualità della morte della vittima per atti violenti, ma entra in gioco anche in situazioni in cui la persona interessata sia stata vittima di un’attività o di un comportamento pubblico o privato che, per sua natura, ha messo la sua vita a rischio reale e imminente e lui o lei ha subito lesioni che appaiono pericolose per la vita, per le modalità delle stesse, anche se alla fine il soggetto sopravvive.

Pertanto la garanzia copre anche quelle situazioni in cui il soggetto divenga oggetto di attacchi violenti che provochino gravi lesioni, dolore e deturpazioni del corpo.

Anche tenendo conto dell’imprevedibilità della condotta umana, delle priorità e delle risorse disponibili, è necessario che lo Stato dia adeguata tutela a queste previsioni, imponendo oneri che non siano impossibili o sproporzionati, da valutare in relazione all’esistenza di rischi reali e immediati per la vita degli individui, soprattutto quando si è già in presenza di informazioni utili.

La sentenza conferma la sussistenza di un obbligo positivo di fare, già più volte affermato,

Si tratta di elementi da rapportare a dati soggettivi ed oggettivi di conoscenza portati all’attenzione delle autorità preposte, al fine di mettere in atto provvedimenti preventivi cautelari.

Inquadrata in questi termini, la sentenza non sembra evidenziare elementi significativi di novità.

Al riguardo, è possibile richiamare la sentenza Opuz c. Turchia, Rumor c. Italia, Talpis c. Italia, Volodina c. Russia dove l’accento è posto prevalentemente sulla adeguata o inadeguata attivazione – da parte delle autorità preposte – delle misure di protezione nei confronti della vittima.

Il dato significativo della vicenda albanese – peraltro, già precedentemente evidenziato, proprio da vicende italiane, seppur in relazione a situazioni parzialmente diverse (Maiorano c. Italia; Mastromatteo c. Italia: v., amplius, M. Montagna, Obblighi convenzionali, tutela della vittima e completezza delle indagini, in Arch. pen. online, 2019, n. 3, 14 ss.) – è costituito dall’affermazione per la quale le riferite garanzie di tutela della vita richiedono implicitamente che vi sia una qualche forma di indagine ufficiale efficace per stabilire le cause delle lesioni e, se del caso, l’identificazione dei responsabili, in vista della loro punizione.

Il profilo evidenziato dai giudici europei è, dunque, quello dell’azione penale e della punizione dei soggetti responsabili: il problema affrontato nella recente sentenza sovranazionale si apprezza, infatti, in quanto si occupa – a chiare lettere – della necessità per gli Stati di adottare delle misure prima, ma anche durante e dopo il procedimento giudiziario.

In tal caso, la Corte europea si sofferma non tanto sul fenomeno della prevenzione alla violenza, ma, piuttosto, sul dato che è fatto obbligo all’autorità di rispondere adeguatamente a tutti i casi di violenza di genere contro le donne, per portare i presunti autori a processo in modo tempestivo ed efficace, anche con la dovuta diligenza sul piano investigativo. Una tale attività deve portare, infatti, all’identificazione, all’azione penale e alla punizione del reo: il tutto al fine di rafforzare il livello di protezione delle vittime a cui va, anche, assicurato il diritto di essere informate sullo “stato” del procedimento.

 

3. Reati violenti: la necessaria tempestività ed efficacia investigativa. – Il requisito della tempestività (ragionevole) è, quindi, implicito nel contesto di un’indagine efficace ai sensi dell'art. 2 Cedu.

Segnatamente, nella più nota decisione Talpis c. Italia la Corte europea ammonisce sul fatto che “il semplice passare del tempo può nuocere all’inchiesta, ma anche compromettere definitivamente la possibilità che questa sia portata a termine”, considerato che “il passare del tempo intacca inevitabilmente la quantità e la qualità delle prove disponibili”. D’altro canto, aggiungono i giudici europei, “l’apparenza di una mancanza di diligenza porta a dubitare della buona fede con cui vengono condotte le indagini e fa perdurare lo stato di prostrazione cui sono sottoposti i denunciati” [v., amplius, C. Valentini, La completezza delle indagini, tra obbligo costituzionale e (costanti) elusioni della prassi, in Arch. pen. online, 2019, n. 3, 2 ss.].

Certamente non si può negare che possono sussistere degli ostacoli o delle difficoltà che impediscono lo sviluppo di un'indagine in una situazione particolare. Tuttavia, pur tenendo conto delle difficoltà che la polizia può incontrare nelle società moderne, dell'imprevedibilità della condotta umana e delle scelte operative che devono essere fatte in termini di priorità e risorse, la portata dell'obbligo positivo di adottare misure operative si estende anche alla corretta esecuzione delle indagini, onde evitare che si materializzi il rischio di indagini incomplete e inidonee e, dunque, d’impunità del reo, violando, in tal modo, l’obbligo degli Stati di adottare le misure appropriate per salvaguardare la vita di coloro che sono all'interno della sua giurisdizione.

È noto che anche sulla scorta di tali ammonimenti è stata, da ultimo, adottata dal legislatore italiano l’innovativa l. 19 luglio 2019, n. 69 (recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”) meglio nota come “Codice Rosso” (v., D. Russo, Emergenza “Codice Rosso”, in questa Rivista, 9 gennaio 2020, nonché volendo, A. Marandola, Codice rosso. Commento alla l. 19 luglio 2019, n. 69, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, a cura di B. Romano e A. Marandola, Pisa, 2019, 13 ss.), che ha inserito nel nostro ordinamento innovative fattispecie di reato (v., sul tema, art. 583-quinquies rubricato “Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso” ) e modelli di prevenzione (immediata trasmissione della denuncia e dell’audizione del denunciante) e di contrasto contro alcune forme di violenza contro le donne. Il “susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne” e il “conseguente allarme sociale che ne è derivato” hanno imposto una sollecita attivazione volta alla protezione della persona offesa e alla sua audizione immediata, al fine di garantire una pronta acquisizione probatoria.

In linea con tali premesse, il dato significativo della vicenda albanese è proprio costituito dall’affermazione per la quale le riferite garanzie, volte alla tutela della vita, richiedono implicitamente che vi sia anche una efficacia dell’indagine ufficiale, efficacia idonea a stabilire le cause delle lesioni e, se del caso, l’identificazione dei responsabili in vista della loro punizione.

In altri termini, in caso di violenza domestica o di violenza contro donne è necessaria una diligenza speciale da parte delle autorità per affrontare la natura specifica della violenza nel corso dei procedimenti domestici (v. Volodina c. Russia).

Ne discende, come si è già sottolineato, che gli artt. 2 e 3 Cedu individuano precisi doveri che gravano sulle autorità giurisdizionali a cui “spetta garantire l’identificazione e la punizione di coloro che si rendono autori di azioni lesive, operando, attraverso una corretta interpretazione e applicazione delle norme penali, l’espletamento di indagini ufficiali, approfondite, trasparenti, celeri e imparziali” le quali “ in caso di accertata colpevolezza, possono condurre, in esito al processo, ad applicare sanzioni proporzionate alla gravità del fatto commesso. D’altro canto, si è sottolineato, approfondimento, celerità, trasparenza e imparzialità delle indagini sono il punto in cui s’incrociano il giusto processo (art. 6 Cedu) e il diritto alla vita (art. 2 Cedu) (v., in particolare, M. Montagna, Necessità della completezza delle indagini, in AA. VV., I principi europei del processo penale, a cura di A. Gaito, Roma, 2016, 351 ss.).

Collocando il discorso sul versante nazionale – al di quanto di quanto stabilisce la l. n. 69 del 2019 limitatamente, tuttavia, all’incipit della fase investigativa – si fa perentorio, dunque, l’impegno del P.M. di compiere “ogni attività necessaria” ai fini delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.

Il dato appare, in altri termini, significativo al fine di interpretare e ben applicare tutte le norme che costituiscono lo statuto di garanzia e protezione delle vittime e/o persone offese dei segnalati delitti.

A tale proposito la Corte sottolinea la necessità sia della tempestività, sia dell’efficacia dell’azione statuale, in quanto ritenute essenziali per mantenere la fiducia del pubblico nella loro adesione allo Stato di diritto e per impedire qualsiasi comparsa di tolleranza nei confronti di atti illeciti, garantendo altresì l’accessibilità della famiglia della vittima ai risultati delle indagini nella misura necessaria alla salvaguardia dei suoi legittimi interessi (v. Giuliani e Gabbio c. Italia).

Rapportando queste affermazioni alla disciplina processuale vigente in materia, appaiono evidenti, nonostante le significative modifiche introdotte con il d.lgs. n. 212 del 2015 in attuazione della direttiva 2012/29/UE (sostitutiva della decisione quadro 2001/920/GAI) (v., per tutti, L. Luparia, Lo statuto europeo delle vittime di reato, Padova, 2016, passim.) e con quelle di cui alla l. n. 103 del 2017, i deficit di tutela esistenti.

 

4. Uno sguardo domestico: il deficit dello statuto nazionale. – Invero, ponendo lo sguardo sulla legislazione nazionale, le manchevolezze si riscontrano tanto su tale specifico settore, così da imporre una legislazione ad hoc, quanto su un versante più generale.

Invero, se l’art. 90 bis c.p.p. prevede significativi diritti in capo alla “vittima vulnerabile”, con specifico riferimento al tema qualificabile come “diritto alle indagini”, deve sottolinearsi che, il panorama normativo è sprovvisto – per l’intera fase delle indagini – di un adeguato profilo sanzionatorio, ai sensi dell’art. 178 c.p.p.

La vittima dei reati di violenza può, infatti, accedere al registro delle indagini, di cui conosce gli sviluppi (cronologici ma non contenutistici), è destinataria dell’informazione di garanzia, della notizia di eventuali misure cautelari disposte nei confronti dell’indagato e dei suoi sviluppi (revoca, sostituzione), dell’avviso di deposito degli atti all’esaurimento delle indagini, della richiesta di archiviazione e le sue dichiarazioni sono raccolte, per lo più, anche a seguito di incidente probatorio, ma occorre ammettere che solo dopo la richiesta di rinvio a giudizio le garanzie di cui è portatrice si rafforzano sotto il profilo sanzionatorio.

È vero che la decisione europea contro l’Albania, in effetti, sanziona le carenze investigative dello Stato, ma è palese che un rafforzamento di questi obblighi, ai quali lo Stato deve comunque ottemperare, possono essere rafforzati da adeguate iniziative di parte.

Si conferma, così, che indagare e ben indagare è un dovere: tempi, scelte, modi e forme delle investigazioni non sono indifferenti o discrezionali e ogni deviazione da quel dovere implica una violazione dei diritti fondamentali dell’individuo.

La tutela di quest’ultimi genera, in definitiva, una duplice incidenza sul sistema della giustizia penale: da un lato, trova esplicazione in quanto limite alla pretesa punitiva dello Stato e, dall’altro lato, diviene, invece, oggetto indispensabile di garanzia, anche processuale (v., per tutti, H. Belluta, Il processo penale ai tempi della vittima, Torino, 2019, 91 ss.).

Per quanto attiene ai profili processuali, in seno alla giurisprudenza di Strasburgo sono emersi i c.d. obblighi procedurali scaturenti dagli artt. 2 o 3 Cedu: quelli profilati sono obblighi (positivi) posti a carico dello Stato che sorgono una volta che la violazione del diritto fondamentale sancito dall’art. 2 Cedu (diritto alla vita) o dall’art. 3 Cedu sia avvenuta. Sorge, in tal caso, il dovere dello Stato di attivarsi, a fronte dell’avvenuta violazione, per compiere indagini effettive e idonee ad accertare i fatti di reato, anche in prospettiva di tutela e di ristoro della vittima del reato (v., ancora, M. Montagna, Obblighi convenzionali, tutela della vittima, cit., 1).

Ma anche sotto tale profilo sono fin troppo noti gli orientamenti giurisprudenziali che, in plurime occasioni, hanno degradato e fortemente ridotto la valenza delle sanzioni processuali introdotte per questa parte del procedimento, declinandoli quali puri inviti o sollecitazioni, del tutto discrezionali.

Invero, allo stato – al di là di costose e difficile investigazioni difensive – la vittima può solamente sollecitare con istanze e memorie l’attività di indagine della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, consegnando, in tal modo, nei menzionati atti le premesse per il possibile riconoscimento dell’inattività o dell’inefficace azione di accertamento delle responsabilità.

Nel funzionamento complessivo della giustizia penale, nonostante le plurime riforme, tale peculiare aspetto è troppo spesso sottovalutato.

Del pari, non va trascurato il funzionamento delle indagini preliminari, fase dalla quale dipende tutto il successivo sviluppo processuale: le malpractices del processo penale, gli errori, le lacune e i ritardi nella qualità e quantità delle investigazioni distruggono per sempre la realizzazione della corretta (e dovuta) amministrazione della giustizia, in dispregio degli artt. 2 e 3 Cedu.

In virtù dei descritti “obblighi positivi”, è, in conclusione, compito dello Stato garantire il diritto alla vita creando una legislazione penale “concreta” che dissuada dal commettere reati contro la persona e predisporre un meccanismo completo di applicazione delle norme, soprattutto processuali, volto a (prevenire) reprimere e sanzionare le violazioni integrate.