Se è vero, come è vero, che uno dei peggiori difetti di un avvocato è quello di non riuscire a spiegarsi bene, a far comprendere fino in fondo il proprio pensiero, io sono riuscito nella non facile impresa di fare ancora peggio.
Devo, quindi, fare pubblica ammenda perché, nel mio intervento all’incontro a più voci “Tangentopoli, trent’anni dopo” (svoltosi il 18 marzo 2022 nell’Aula Magna dell’Università Statale di Milano) [qui la registrazione video], non solo non sono stato capace di esprimere in modo comprensibile il mio pensiero, ma ho dato finanche l’impressione di manifestare opinioni che sono addirittura l’esatto contrario di quanto avrei voluto dire.
Mi ha fatto comprendere questa mia congenita incapacità il Prof. Fiandaca nel suo secondo intervento (quello scritto), in cui ha proposto quelle considerazioni che avrebbe voluto svolgere oralmente al Convegno nel programmato secondo giro di interventi, che non aveva però avuto luogo perché si era andati fuori tempo massimo nel primo giro.
Questo mio breve secondo intervento deve essere quindi letto, non certo come una replica alla replica del prof. Fiandaca, ma, molto più terra terra, come un ulteriore (e spero questa volta un po’ meglio riuscito) tentativo di esprimere in modo chiaro e comprensibile ciò che non ero riuscito a spiegare a voce nel mio primo intervento.
Approfitterò, quindi, dello scritto del prof. Fiandaca per “usarlo” come linea guida per tentare di raggiungere questo scopo, per dissipare cioè le ombre e i dubbi che il mio intervento orale può aver suscitato.
Fatta questa assolutamente doverosa premessa, mi permetto subito di respingere il ruolo di “difensore dell’operato del pool”, che, secondo il prof. Fiandaca, mi sarei attribuito.
Non è con questa veste che mi sono presentato; tutt’altro.
Quello che pensavo di aver detto (anche chiaramente! pensate un po’ fino a che punto un maldestro avvocato come me può arrivare, non sapendo esprimersi in modo appropriato) era che, dopo aver ascoltato le riflessioni di colui che avevo indicato come un facente funzione di Pubblico ministero (il prof. Fiandaca), tutti stavano cercando, con buone o meno buone ragioni, di difendere il proprio “orticello (sic!)”, e cioè che il dott. Colombo aveva difeso il pool, che i giornalisti avevano difeso i giornalisti e che io, come avvocato di molti indagati di Mani Pulite, mi accingevo a quel punto a difendere l’operato di allora, mio e di altri avvocati.
Vorrei subito anticipare eventuali ulteriori fraintendimenti dovuti alla mia scarsa capacità comunicativa: è noto che ho difeso in altri tempi ed in ben altra sede qualcuno dei magistrati del pool e con questa precisazione non sto affatto prendendo le distanze da qualcuno di loro.
Ci mancherebbe altro!
Sto solo ribadendo che in questa sede non mi sono mai presentato come “difensore del pool”, ma soltanto come difensore di me stesso e di tutti quegli altri avvocati che si erano allora comportati, né più né meno, proprio come me e che, per i più disparati motivi, non erano (o non potevano essere) presenti alla Statale.
Dal mio (purtroppo poco comprensibile) intervento il prof. Fiandaca – autoproclamatosi giudice – ha tratto spunto per criticare quelle che lui ha ritenuto essere state le mie parole di adesso ed essere stato il mio comportamento di allora e l’ha fatto enunciando due circostanze specifiche: la prima sarebbe quella che avrei suggerito ai miei assistiti di allora di collaborare con i magistrati e la seconda sarebbe quella di aver dato questi consigli perché, in tal modo, “il difensore evitava di farsi complice di un sistema criminale di grave e diffusa corruzione”.
Queste sarebbero state le mie parole, come le ha intese il prof. Fiandaca.
Però, c’è … un però, che non è di poco conto, ma che è grande come una casa: non ho mai né pensato né pronunciato quelle parole e, soprattutto, non mi sono mai sognato di mettere in pratica un comportamento siffatto.
E, quando dico mai, dico proprio mai, né allora né in questi ultimi trent’anni.
Anzi, per dirla tutta (sperando questa volta di riuscire ad esprimermi un po’ più decentemente), quello che volevo manifestare era un pensiero esattamente opposto.
Nel mio intervento, non solo non ho pronunciato quelle parole, ma avevo anche ricordato il contesto di allora, da cui era facile comprendere che non c’era alcun motivo per cui un qualsiasi avvocato avrebbe dovuto “consigliare” o “suggerire” al proprio assistito di presentarsi spontaneamente al Pubblico ministero o, comunque, di collaborare.
È notorio infatti che in quei mesi gli imprenditori, come tutti gli altri cittadini, sapevano perfettamente come stessero le cose: se agli atti emergeva la colpevolezza di qualcuno per aver dato o ricevuto tangenti, l’emissione di un’ordinanza cautelare in carcere era scontata, quasi automatica.
Nell’intervento immediatamente precedente al mio, l’avv. Giuseppe Bana, a perfetta riprova del fatto che non ci fosse alcun bisogno che l’avvocato consigliasse o suggerisse alcunché, aveva ricordato quell’imprenditore che, di fronte alla domanda di cosa avrebbe fatto nel caso in cui la G.d.F. avesse suonato al suo campanello, aveva di getto risposto che avrebbe confessato tutto al citofono, senza neppure fare entrare gli agenti.
Avevo anche ricordato che erano diversi i motivi per cui gli imprenditori, allorché si trovavano al tragico bivio di dover scegliere quale strada intraprendere dopo che il pubblico ufficiale, cui avevano corrisposto una tangente, era stato arrestato, di solito preferivano optare per anticipare la più che prevedibile mossa del Pubblico ministero, evitando quindi di passare per le patrie galere.
Uno di questi motivi era che il sistema delle tangenti si era talmente espanso che era diventato un sistema opprimente che non lasciava alternative: o si pagava o non si lavorava.
Non c’erano altre possibilità.
All’epoca era addirittura stata coniata l’espressione “dazione ambientale”, che ben rendeva l’idea di quale fosse il clima in cui fino a quel momento dovevano muoversi gli imprenditori.
Era un sistema che aveva creato un’economia nazionale drogata, dove il prezzo delle opere pubbliche doveva essere maggiorato per tener conto anche delle tangenti, e che ad un certo punto era diventato insostenibile.
A questo proposito, non si deve dimenticare che i tre imprenditori che per primi avevano cominciato a svelare quel sistema imperante (che nessuno poteva ancora immaginare che avesse le dimensioni che poi si sono rivelate) non solo erano liberi cittadini, ma non avevano alcun timore che qualche pubblico ufficiale confessasse e li chiamasse in correità, perché questa era la ferrea legge non scritta dell’omertà su cui fino a quel momento si era sempre sostenuto ed alimentato il sistema corruttivo di portata nazionale.
In altre parole, quei primi tre imprenditori non avevano alcuna paura di finire in manette ed avevano parlato soltanto perché quel sistema era diventato per loro insostenibile.
Un altro motivo – avevo poi ricordato – era rappresentato dall’opinione pubblica che (senz’altro esageratamente) faceva un tifo da stadio perché il pool Mani pulite andasse avanti (manifestazioni, cortei, striscioni, slogan, ecc.) e facesse venire alla luce tutte le corruttele che erano avvenute negli anni precedenti.
Questa opinione pubblica non era un’entità astratta, ma svolgeva un’opera persuasiva molto forte, sia in assoluto sia perché comprendeva anche i giovani.
Molti di quei giovani, che al mattino erano gli studenti che sfilavano per le strade cittadine scandendo slogan a sostegno del pool, erano, senza sapere di esserlo, anche i figli di coloro che avevano corrisposto o che avevano ricevuto le tangenti e la sera in famiglia, davanti alla televisione, esprimevano il proprio entusiasmo per il pool e la propria condanna, senza appello, verso tutti i “tangentisti”.
Questi ultimi avevano quindi il sacrosanto timore che, se fossero stati pubblicamente scoperti i loro altarini, avrebbero potuto perdere anche la stima dei figli.
Pure questo è stato un elemento di grande impulso in quei momenti.
Non da ultimo c’era un clamore assordante sui media, che davano ampio risalto alle notizie sugli sviluppi dell’inchiesta, un clamore che aveva suggerito a Bettino Craxi di pronunciare, dopo pochissimi mesi dall’inizio di Mani pulite (per l’esattezza nel luglio 1992) un discorso in Parlamento (cioè davanti all’istituzione repubblicana più rappresentativa della nostra democrazia), nel quale condannava e chiamava in correità tutti gli altri parlamentari per la commissione, continuata per anni, di un delitto (l’illecito finanziamento dei partiti).
L’insieme di tutti questi motivi (l’insostenibilità del sistema, i media, l’opinione pubblica, i figli) facevano sì che gli imprenditori, se decidevano di confessare, avevano la sensazione di fare una cosa giusta e per i quali, al contrario, il sacrificarsi (magari con una carcerazione) per quel sistema, che stava crollando, non aveva più alcun senso.
Ebbene, dopo aver ricordato la situazione di fatto di quegli anni, ero entrato in medias res ed avevo proposto il tema che riguarda il comportamento, deontologicamente corretto, che doveva allora (e che deve tutt’oggi) tenere un avvocato in certe situazioni.
Questo tema lo ripropongo qui, esattamente come pensavo di aver detto nel già ricordato recente incontro a più voci, ed è questo.
Durante Mani pulite, succedeva molto spesso che una persona telefonasse in studio e chiedesse un appuntamento con urgenza.
Nella prima riunione il suo racconto, che si divideva in due punti, era all’incirca questo: “Ieri è stato arrestato un pubblico ufficiale perché ha ricevuto delle tangenti; purtroppo anch’io ho corrisposto tangenti, a lui così come in altre occasioni le ho corrisposte anche ad altri pubblici ufficiali; sono quasi sicuro che la persona arrestata racconterà delle tangenti ricevute da me”.
Dopo di che, aggiungeva: “Io non ho alcuna intenzione di andare in prigione”.
Per poi concludere: “Avvocato, mi spieghi per favore come è la situazione processuale e, in particolare, mi dica a che cosa vado incontro se parlo o se taccio, se mi presento io per primo al Pubblico ministero o se aspetto che sia lui a venire a prendermi”.
Capisco (e quasi quasi invidio) il prof. Fiandaca, che, “studioso privo di significative esperienze di avvocato”, come lui si è compiaciuto di definirsi, quella situazione, a mio giudizio altamente drammatica, non l’ha mai vissuta, che nessuno cioè ha mai bussato alla porta del suo studio per fargli quel discorso, che per noi era quasi quotidiano.
Ebbene, questo era il tema che ho posto, anzi, per essere più precisi, che ho riproposto perché era già stato sollevato qualche settimana prima nel corso del Convegno indetto dalla Camera penale di Milano, dove alcuni avvocati avevano sostenuto che il buon difensore avrebbe dovuto non avere a cuore soltanto gli interessi personali di questo individuo, perché li avrebbe dovuti in una certa qual misura sacrificare sull’altare di una asserita (ma per me astratta) difesa del giusto processo.
In quell’occasione, un avvocato aveva citato me e gli altri avvocati che avevano avuto molti assistiti in Mani pulite, dicendo che eravamo stati “eterodiretti (sic!) dai nostri assistiti”, come se fosse una gravissima colpa quella di sentire e rispettare la loro volontà.
Un altro avvocato aveva sostenuto che, invece di difendere fino in fondo l’interesse dell’assistito, un buon avvocato penalista avrebbe dovuto “fare un passo indietro” (senza specificare in che cosa consistesse questo ipotetico passo indietro).
Un altro avvocato ancora aveva detto esplicitamente che, nell’eventuale conflitto fra la difesa dell’individuo e la difesa del giusto processo, l’avvocato avrebbe dovuto far prevalere quest’ultima anche se con grave danno della prima.
Il presidente della Camera penale di Milano, tirando le fila di questi interventi, nel corso di un’intervista rilasciata a latere di quel Convegno, aveva concluso che l’avvocatura aveva fatto autocritica rispetto al comportamento generalmente da lei tenuto al tempo di Mani pulite.
Ebbene, poiché io non avevo fatto alcuna autocritica, ma anzi avevo rivendicato la correttezza dell’operato mio e dei colleghi, avevo voluto riproporre questo tema nel corso di questo Convegno all’Università Statale.
Ho detto allora e ribadisco adesso che un avvocato difensore deve – sempre e soltanto – perseguire l’interesse del suo assistito e non può far prevalere una sua personalissima opinione rispetto alla volontà di quest’ultimo.
È questo il tema che ho voluto riproporre nel Convegno alla Statale, perché non sono affatto sicuro che gli avvocati avessero avuto allora un comportamento riprovevole, come oggi si vorrebbe far ritenere.
Ripeto: è soltanto questo il tema di confronto che ho presentato, che è – come ognuno ben vede – totalmente diverso da come è stato inteso dal prof. Fiandaca, e l’ho riproposto riferendo anche le parole di quegli avvocati che ho testé ricordato.
Non si è mai posto in discussione (prima d’ora) se fosse corretto o meno che l’avvocato consigliasse o suggerisse al proprio assistito di collaborare con gli inquirenti.
Era stata da più avvocati, come detto, invece avanzata la questione esattamente inversa, se cioè l’avvocato avesse il dovere di contrastare o comunque di frenare la volontà dei diretti interessati (forse anche dissuaderli?) in nome e sull’altare di un’asserita salvaguardia del giusto processo.
Quando io e la maggior parte degli altri colleghi ci siamo trovati davanti a quelle domande, che ci venivano rivolte in quelle situazioni, non abbiamo mai avuto alcuna esitazione: abbiamo sempre informato nel modo più oggettivo possibile il nostro assistito di quale fosse la reale situazione, senza tacere nulla.
A volte quella persona aveva poi autonomamente deciso di aspettare, altre volte (il più delle volte) aveva, sempre autonomamente, deciso che fosse suo precipuo interesse anticipare i tempi e presentarsi spontaneamente al Pubblico ministero.
È facile parlare in astratto (soprattutto trent’anni dopo), ma io ho posto e continuo a porre la questione sul piano rigorosamente concreto, chiedendo che le risposte non si fermino a vuote ed astratte frasi apodittiche, ma scendano appunto nel concreto, indicando specificatamente quale sarebbe stato invece il comportamento ritenuto doverosamente corretto.
A fronte di un art. 27 del codice deontologico, che impone all’avvocato il dovere (non la facoltà, proprio l’obbligo) di dare compiuta ed esauriente informazione a chi si rivolge a lui, non riesco proprio a comprendere in base a quale altro principio deontologico l’avvocato avrebbe potuto (o dovuto, secondo alcuni) dare una rappresentazione falsa della realtà o deformare a proprio piacimento i reali dati di fatto.
Quindi, contrito ma non pentito, ribadisco: allora, come oggi, ho sempre tentato (spero di essere riuscito) di descrivere al mio assistito il più oggettivamente possibile la sua situazione processuale, senza nascondere nulla.
È ovvio che la situazione di allora non era certamente una situazione rosea; tutt’altro, perché come tutti sanno, il Tribunale del riesame non aveva mai accolto un ricorso (tranne uno solo, a marzo 1993, per quanto mi ricordi), così come non lo aveva mai accolto la Cassazione, per cui c’era il rischio più che concreto di una non breve carcerazione preventiva.
Cos’altro avrei (o avremmo) dovuto fare? Dire a quella persona, che chiedeva lumi, che stava subendo un’ingiustizia e che poteva stare tranquilla perché certamente non sarebbe finita a San Vittore? o forse che il suo soggiorno in carcere sarebbe comunque stato di breve durata? avrei dovuto illuderlo? oppure avrei dovuto dirgli che era suo dovere sacrificarsi sull’altare della difesa del giusto processo?
Torno a ripetere e a chiedere: in concreto, cosa sarebbe stato giusto dirgli di diverso? insomma, come altro avrei dovuto comportarmi?
Sempre in concreto, si capisce.
Chiedo scusa, ma continuo a ritenere che un avvocato può comportarsi soltanto in un modo, perché non ha alcun diritto di decidere lui della vita del suo assistito (e della sua famiglia) facendo prevalere le sue personalissime opinioni rispetto a quelle del diretto interessato.
Per la verità, uno di quegli avvocati, cui ho fatto prima cenno, un esempio concreto di comportamento diverso l’aveva proposto e l’aveva fatto ricordando un caso di vita vissuta, che può essere così riassunto.
Il difensore di un detenuto (si trattava di un politico) aveva ricevuto una telefonata da Di Pietro che gli prospettava l’ipotesi di fargli fare un interrogatorio in vista di una possibile liberazione; questo difensore, senza neppure interpellare il proprio assistito, aveva sdegnosamente risposto: “Non si fa nessun interrogatorio”, mettendo così a serio repentaglio la libertà del suo assistito.
Chiedo, pertanto, a tutti ed al prof. Fiandaca in particolare: era questo il comportamento deontologicamente corretto che avrei dovuto tenere? è questa la figura dell’avvocato-modello alla quale si dovrebbe fare riferimento, allora come oggi?
In attesa di una risposta e scusandomi ancora per il mio infelice intervento orale, spero, almeno adesso, di essere stato un po’ più chiaro, restando ovviamente in attesa di contributi, purché concreti e pertinenti.
Vengo ora alla seconda questione posta dal prof. Fiandaca, che, partendo dalla premessa che io avrei detto che, “suggerendo di collaborare il difensore evitava di farsi complice di un sistema criminale di grave e diffusa corruzione”, ha posto la questione se sia “deontologicamente legittima la difesa tecnica a scopi collaborativi in funzione di lotta alla criminalità”.
Ebbene, più che per le mie inadeguate capacità espressive, probabilmente la colpa del fraintendimento delle mie parole è dovuta al collegamento audio, che era in quel momento particolarmente disturbato, dal momento che io non ho mai detto una cosa del genere (chiedo a tutti di controllare andando a sentire la registrazione del mio intervento), ma ho detto una cosa completamente diversa.
Il prof. Fiandaca, infatti, non era fisicamente presente nell’Aula, ma era collegato in teleconferenza ed è un dato obiettivo indiscutibile che il collegamento audio in quell’occasione non ha funzionato bene, tanto è vero che anch’io mi sono perso più di qualcosa del suo intervento.
Il mio pensiero è così risultato, addirittura, completamente capovolto.
Avevo, infatti, detto che a mio avviso il conflitto fra la difesa dell’individuo e la difesa del giusto processo deve sempre alla fine essere risolto dando la prevalenza alla prima.
Avevo anche aggiunto che sostenere che allora si sarebbe dovuto invece sacrificare la difesa dell’individuo in favore della seconda avrebbe avuto – indipendentemente dal fatto che lo si volesse perseguire o meno quale scopo primario – una conseguenza inevitabile: la tutela del sistema corruttivo, che si fonda – come tutti sanno – anche sull’omertà.
Quindi sul piatto della bilancia, dicevo, non andavano posti soltanto la difesa dell’individuo da una parte e la difesa del giusto processo dall’altro, anche se per me la bilancia dovrebbe pendere dal lato della difesa dell’individuo.
Su un piatto andava aggiunta anche questa ulteriore considerazione, che cioè, frenando e condizionando la volontà dell’individuo, oggettivamente si sarebbe favorito anche il sistema corruttivo.
Insomma, non ho mai detto o pensato che un avvocato dovesse suggerire al proprio assistito di confessare perché così partecipava alla “lotta alla criminalità”, così come – all’inverso – non mi sono mai sognato di dire che un avvocato che difenda una persona, che non abbia alcuna intenzione di collaborare con gli inquirenti, si farebbe “complice di un sistema criminale”.
Ho detto – ripeto – qualcosa di diametralmente opposto: se un difensore avesse spinto un imputato a non parlare in nome della difesa del giusto processo ed a scapito della difesa dell’individuo, così facendo doveva sapere che la sua induzione avrebbe favorito obiettivamente la sopravvivenza e lo sviluppo di un pesantissimo sistema corruttivo.
Spero che con queste mie precisazioni il mio pensiero sia adesso risultato più chiaro e mi spiace che il pesante disturbo auditivo sulla linea del collegamento abbia potuto far sorgere nel prof. Fiandaca l’impressione che io possa aver detto qualcosa di diverso da quanto ho ribadito nelle righe precedenti.
Ovviamente il prof. Fiandaca è più che mai padronissimo di sottoporre il mio pensiero ed il mio comportamento alla critica, anche la più spietata, però, per favore, partendo dalle parole che ho veramente detto e dai comportamenti che ho per davvero tenuto e non sulla base di errate suggestioni, probabilmente dovute anche ad un collegamento acustico palesemente difettoso, che si è pericolosamente aggiunto alla modestia della mia oratoria.