La collana “Pietro Rossi” si è di recente arricchita di un prezioso volume collettaneo a cura di Siro De Flammineis, Roberto Guerrini e Dario Micheletti, dedicato allo studio dei delitti di riciclaggio e di autoriciclaggio. L’impostazione adottata dai curatori è particolarmente pregevole: procedendo con metodo deduttivo, ai primi due capitoli che si occupano degli aspetti di ordine teorico ed interpretativo seguono due Sezioni dal tenore eminentemente pratico-applicativo. Di talché, muovendo dal generale al particolare, l’opera risulta circolare e coerente, pur preservando l’originalità dei singoli contributi e l’autonomia di pensiero di ciascun autore.
Come si evince sin dal titolo, l’obiettivo è quello di mettere in relazione e coordinare la teoria e la prassi nell’ambito di una materia, più di altre, inficiata dal disallineamento tra gli obiettivi di politica criminale, quanto mai ambiziosi, e le fattispecie concretamente intercettate dal profluvio di norme incriminatrici nel tempo progressivamente trapiantate nell’ordinamento (artt. 648, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1 c.p.).
Infatti, sebbene sia da tutti condiviso come tale fenomeno delinquenziale si connoti dei tratti più odiosi in seno al contesto d’impresa e, segnatamente, a quello della criminalità economica, allo stato attuale il sistema penalistico antiriciclaggio risulta privo di capacità selettiva ed anzi, nella prassi giudiziaria, spesso si fa carico di vicende bagatellari, se non del tutto inoffensive per il bene giuridico dell’ordine economico. Un tale vizio di “disfunzionalità” affonda le sue radici in quella che Francesco Mucciarelli definisce come una vera e propria peculiarità del settore, ossia la circostanza che «la direzione dell’offesa muta sensibilmente in relazione al contesto concreto nel quale si colloca la condotta». Più precisamente, quando le condotte lato sensu riciclatorie si sviluppano al di fuori dell’attività economica, il pericolo di pregiudicare il valore euro-unitario della concorrenza resta sullo sfondo, dato che la manovra di lecito-vestizione non si risolve nell’assunzione di una indebita posizione di vantaggio commerciale e ciò che risulta preminente è soltanto l’interesse alla corretta amministrazione della giustizia. Ponendosi in quest'angolo visuale, si spiega l’unanime istanza della dottrina di ricalibrare i reati di riciclaggio e autoriciclaggio tanto nella tipizzazione quanto nell’interpretazione, in modo da focalizzarsi sulla fase terminale della operazione riciclatoria, ovvero sulla condotta di impiego (o, più correttamente, di investimento) dei proventi illeciti nel mercato legale.
A titolo esemplificativo, il volume che si commenta ospita, tra le altre, l’autorevole proposta di Sergio Seminara che, riscontrata l’inadeguatezza dell’art. 648-bis c.p. a cogliere la dimensione criminologica e disvaloriale del riciclaggio, suggerisce di profondersi in uno sforzo di semplificazione del sistema, riconducendo, da un lato, le condotte di ricettazione, di favoreggiamento reale e quelle strettamente decettive ad un modello definitorio unitario ed inserendo, dall’altro, una sola norma incriminatrice, in grado di reprimere l’attività di impiego dei proventi illeciti, senza alcuna riduzione sanzionatoria per l’autore del reato-presupposto. Su questo secondo versante, si invita, inoltre, a contenere la risposta penale attraverso la previsione di una soglia di punibilità che si prefigga di selezionare soltanto i casi di re-impiego più significativi in termini di offensività. La soluzione ipotizzata presenta almeno due meriti.
In primo luogo, accorpando il riciclaggio alla ricettazione e al favoreggiamento reale, verrebbe a tracciarsi una linea di confine netta tra il primo e la condotta di impiego, con la conseguenza che le fattispecie in parola verrebbero sottratte alla nebulosità assiologica da cui risultano ancora oggi avvolte. Infatti, così facendo, emergerebbe in modo manifesto l’estraneità delle operazioni di mera lecito-vestizione alla tutela della concorrenza e dell’ordine economico.
In secondo luogo, uniformando il trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di impiego, si porterebbe a compimento il risalente e defaticante percorso di demolizione del c.d. beneficio dell’autoriciclaggio. In effetti, l'individuazione di una sfera di privilegio per l’autore dell’illecito-fonte smarrisce ogni sua ragionevolezza se riferita ad azioni offensive non già del patrimonio o dell’amministrazione della giustizia ma di interessi giuridici marcatamente economici e superindividuali.
Eppure, bisogna constatare come le proposte de lege ferenda più sistematiche ma anche più radicali siano destinate a rimanere inattuate nel panorama giuridico attuale. E ciò non soltanto a causa di una pervicace resistenza del legislatore nazionale ad accoglierle ma anche in considerazione dei penetranti obblighi di criminalizzazione derivanti da fonti internazionali e comunitarie. Del resto, è risaputo che, proprio di recente, i delitti che ci occupano sono andati incontro ad una modificazione in senso estensivo, che si è resa necessaria proprio per scongiurare gli esiti nefasti di una procedura d’infrazione già in atto.
Nondimeno, pare che lo studioso possa utilmente prospettare, piuttosto che drastici mutamenti dei vigenti paradigmi criminosi, l’adozione di accorgimenti de iure condendo di minimo impatto e, soprattutto, un atteggiamento misurato e restrittivo sul piano dell'interpretazione.
Quanto al primo aspetto, si avverte come ineluttabile l’esigenza di rimuovere dalla formulazione dell’art. 648-ter c.p. la clausola di riserva ancora vigente in favore dei delitti di ricettazione e di riciclaggio. Pertanto, per lo meno in parte qua, la norma incriminatrice appare irragionevole, visto che tra la condotta ivi tipizzata e quelle descritte nelle disposizioni precedenti non ricorre un rapporto di sussidiarietà, come, tra l’altro, è comprovato dal fatto che la ricettazione è punita meno severamente dell’impiego e che il riciclaggio presenta invece la medesima cornice edittale. D’altro canto, la suddetta clausola ingenera un effetto paradossale, poiché, costringendo ad una interpretazione sostanzialmente disapplicativa dell’art. 648-ter c.p., costituisce il principale ostacolo alla affermazione nella prassi del delitto più in linea con gli obiettivi della legislazione antiriciclaggio.
Circa, poi, la prospettiva esegetica, appare sufficiente, in questa sede, limitarsi ad un duplice ordine di rilievi, che attingono i profili di maggiore impatto sul piano applicativo. Anzitutto, deve essere caldeggiata un’interpretazione quanto più rigorosa della tipicità del riciclaggio, insistendo sulla necessità che la condotta possieda un autentico contenuto decettivo. Il tentativo di sospingere l’art. 648-bis c.p. verso la tutela dell’ordine economico può essere esperito soltanto a questa condizione, poiché, almeno secondo una certa corrente di pensiero, le condotte espressive di una carica dissimulatoria reale sarebbero in grado di realizzare un’offesa quantomeno potenziale alla concorrenza, atteggiandosi quale «prius logico e temporale» rispetto a quelle successive di immissione. Di contro, Federico Consulich opportunamente segnala come la giurisprudenza sia attraversata da una «interpretazione al ribasso», tale da ricondurre sotto il titolo dell’art. 648-bis c.p. «qualsivoglia contatto con denaro di provenienza illecita» e da farvi, dunque, rientrare operazioni agevolmente tracciabili, quali, a titolo esemplificativo, l’intestazione fittizia, il semplice giroconto bancario oppure il deposito su conto corrente.
Appaiono, infine, meritevoli di ogni accoglimento le censure sollevate, con i rispettivi contributi, da R. Acquaroli e Dario Micheletti avverso l’interpretazione dell’art. 648-ter.1 c.p. offerta dalla giurisprudenza di legittimità. Entrambi gli autori stigmatizzano l'invalsa tendenza del diritto vivente a dilatare il perimetro dell’azione autoriciclatoria sino al punto di includervi comportamenti di mera autodifesa.
Ebbene, quand’anche non si dovessero condividere le preoccupazioni in ordine allacompatibilità con il divieto di autoincriminazione sul presupposto che il nemo tenetur se detegere debba essere astretto alle condotte di tipo dichiarativo, nondimeno si dovrebbe convenire circa la criticità di un simile approccio ermeneutico in rapporto all’art. 3 Cost.
Come è stato detto, la tipicità dell’autoriciclaggio deve sempre rappresentare qualcosa di più della condotta di mero autofavoreggiamento, stante la clausola di riserva con cui esordisce l’art. 379 c.p. ma, al tempo stesso, non può mai consistere in qualcosa di meno rispetto al riciclaggio e all’impiego di proventi illeciti. Infatti, la formula descrittiva dell’art. 648-ter. 1 sintetizza le componenti tipiche dell’uno e dell’altro reato, dando vita ad un’inedita miscellanea normativa. Di talché, applicando la norma incriminatrice a fattispecie non intercettate neppure dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p., si finisce per dar vita ad una indebita disparità di trattamento, non potendosi rinvenire una valida giustificazione nella diversa qualifica soggettiva dell’agente.
Inoltre, il principio di uguaglianza può essere invocato persino per emancipare l’autoriciclaggio dall’alveo delle attività stricto sensu ostacolanti, innalzandolo verso una dimensione più spiccatamente economica. Più precisamente, se si premette che il fatto di riciclaggio arreca pregiudizio soprattutto al bene giuridico dell'amministrazione della giustizia, si deve anche riconoscere una sostanziale identità di disvalore tra questo e il favoreggiamento reale che, come detto, non è imputabile a chi concorre nel reato-presupposto. A nostro parere, ne dovrebbe discendere (se non la necessità) quantomeno l’opportunità di concentrare l’interpretazione dell’art. 648-ter.1 c.p. sulla condotta di impiego, rileggendo il riferimento alla dissimulazione alla stregua di una clausola modale, come peraltro parrebbe suggerire lo stesso tenore letterale della disposizione. Come si accennava in premessa, il testo culmina con due Sezioni, che fungono, per così dire, da "Parte speciale" del volume, nelle quali si approfondiscono temi cruciali, quali quello degli strumenti di prevenzione del riciclaggio, essenziali – al pari di quanto avviene in tema di corruzione – per contrastare efficacemente un fenomeno criminale di difficile accertamento; e quello della fisionomia, tratta in massima parte dalle indicazioni provenienti dalla prassi, dei reati presupposto, trovandosi, non di rado, l'interprete a doversi confrontare con delitti di bancarotta propri o derivanti da reati societari, con delitti contro la Pubblica Amministrazione e con reati tributari.
Quanto al profilo relativo alla prevenzione, un incremento in termini di efficacia dei "tradizionali" obblighi di identificazione e verifica della clientela e di segnalazione di operazioni sospette può discendere dal ricorso all'intelligenza artificiale, che consente un'analisi rapida ed accurata dei dati in tempo reale così da automatizzare parzialmente o completamente il processo di valutazione del rischio. È infatti pacifico che l'innovazione tecnologica abbia ampliato la platea degli operatori a cui si applicano gli obblighi antiriciclaggio e fatto emergere nuovi rischi, difficilmente presidiabili con i metodi tradizionali, ma la sfida – come opportunamente si precisa nel testo – è quella di apprezzarne le potenzialità applicative entro i confini dettati dalla «necessità di rispettare appieno i diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, la legislazione dell'Unione in materia di tutela della vita privata e protezione dei dati», oltre ad assicurare la spiegabilità, trasparenza e tracciabilità degli algoritmi. Avuto riguardo, più specificamente, al contrasto agli illeciti fiscali, si precisa come un ruolo centrale, pur sempre in chiave preventiva del riciclaggio e dell'autoriciclaggio, sia assolto anzitutto dall'Anagrafe tributaria, che rappresenta lo strumento attraverso cui raccogliere dati rilevanti al fine di ricostruire la posizione impositiva dei contribuenti, monitorandone reddito, patrimonio, scambi, produzione e consumi. E, in seconda battuta, dagli stessi contribuenti, chiamati a compilare, all'interno della dichiarazione dei redditi, il quadro RW, esplicativo degli investimenti detenuti all'estero e delle attività estere di natura finanziaria, ivi comprese le cripto-attività, di recente oggetto di una disciplina organica a mente della Legge di Bilancio 2023. Onde rendere il monitoraggio delle operazioni finanziarie concretamente funzionale agli scopi che si prefigge ed altresì coerente con la dimensione transnazionale dei reati che intende prevenire, Trattati internazionali e Direttive eurounitarie hanno da tempo predisposto un capillare sistema di scambio di informazioni tra Stati, che sia capace di offrire un quadro esaustivo della posizione di un determinato soggetto, acquisendo consapevolezza dei movimenti da questi effettuati al fine di dislocare le proprie risorse in paesi caratterizzati da una più lieve pressione fiscale. Con le conseguenti ricadute in termini di garanzia del rispetto delle norme in tema di protezione dei dati sensibili e personali, come a più riprese precisato dal Garante della privacy, per quanto la Suprema Corte di cassazione si sia ripetutamente mostrata incline a sanare originarie violazioni del segreto bancario, assicurando prevalenza alla tutela dell'interesse alla prevenzione ed al contrasto degli illeciti fiscali e di quelli ad essi correlati rispetto ai diritti di coloro ai quali i dati oggetto di scambio tra amministrazioni finanziarie di paesi comunitari si riferiscono.
Circa, poi, il possibile intreccio tra riciclaggio ed autoriciclaggio, da un lato, e delitti di bancarotta, dall'altro, i nodi problematici che l'interprete è chiamato a sciogliere corrono lungo talune direttrici ermeneutiche, tra loro accomunate dalla disputa sulla effettiva ascrivibilità tra i reati presupposto della:
a) bancarotta fraudolenta patrimoniale anche prima della declaratoria di liquidazione giudiziale, che la giurisprudenza di legittimità risolve in senso favorevole, limitandosi a considerare quel fatto distrattivo come un'ipotesi di appropriazione indebita, suscettibile, poi, di mutare in bancarotta fraudolenta patrimoniale una volta sopraggiunta la sentenza declaratoria di fallimento. Con una soluzione che, negli interventi di taluni dei coautori del volume che qui si segnala, viene sottoposta a revisione critica, in quanto viziata da una sorta di eccesso di semplificazione, giacché incapace di adeguatamente soppesare il reale disvalore della condotta (auto) riciclatoria, tenuto conto della chiara opzione legislativa, tesa a calibrare la risposta sanzionatoria più sulla "qualità" del reato presupposto che sull'intrinseca antidoverosità del comportamento susseguente. E, dunque, lungi dal convalidare un approccio che si fonda su una sorta di indifferenza, sul versante dell'inquadramento del delitto presupposto, tra appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta patrimoniale – ben potendosi il reato conseguente innestare anche su una bancarotta in itinere – si ritiene, al contrario, imprescindibile una valutazione in concreto della lesività, anche soltanto potenziale, degli atti di disposizione patrimoniale per gli interessi dei creditori, non potendo la sentenza dichiarativa di fallimento essere sufficiente ad "illuminare retrospettivamente" sull'oggettività giuridica pregiudicata o messa in pericolo, la quale potrebbe non essere stata affatto attinta da comportamenti "soltanto" devianti rispetto al corretto perseguimento dell'oggetto sociale.
A ciò si aggiunga che tra appropriazione indebita e bancarotta, legate tra loro da un rapporto di specialità reciproca, insistono differenze tanto sul piano dell'oggetto materiale, specificamente circoscritto nella prima al solo denaro o alle cose mobili "altrui", con esclusione, dunque, dei beni immobili, di quelli immateriali e di quelli "propri"; quanto su quello della tipicità, perché, anche al di là della non coincidenza tra le nozioni di appropriazione e di distrazione, si può realizzare la prima e non la seconda fin a quando l'emorragia del patrimonio sociale non sia in grado di mettere a repentaglio la garanzia dei creditori e pure in caso di distrazioni commesse nel perseguimento dell'interesse sociale e non già per finalità prettamente egoistiche;
b) bancarotta fraudolenta patrimoniale, quando questa si realizzi attraverso condotte diverse dalla distrazione e, segnatamente, attraverso la distruzione, rispetto alla quale è inipotizzabile un séguito costituito da manipolazione e dissimulazione e l'esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, in quanto meramente preparatoria al distacco del bene, che, se non avviene (e se ciò fosse si integrerebbe una distrazione), non può essere prodromica ad una successiva attività di nascondimento. Assai complesso è, poi, tracciare un confine tra l’occultamento e la dissimulazione tipiche della bancarotta ed i contegni di money laundering: per quanto cronologicamente distanti, ciò che le distingue è la finalità concretamente perseguita, essendo le une volte a sottrarre ai creditori beni sociali su cui soddisfare coattivamente le loro pretese e le altre idonee ad ostacolare l'identificazione della loro provenienza nei riguardi di una più ampia platea di possibili interessati.
c) bancarotta da reato societario, quando l'attività di ripulitura sia intervenuta prima dell'evento-dissesto: essendo richiesto un nesso causale tra il reato societario e il tracollo dell'impresa, non è possibile recuperare ex post la bancarotta quale reato presupposto del riciclaggio, dovendosi tenere conto, ai fini della dosimetria sanzionatoria per il fatto riciclatorio, del solo frammento iniziale del reato complesso di bancarotta, integrato, per l'appunto, dal reato societario, i cui proventi siano stati successivamente occultati attraverso una o più condotte volte ad ostacolarne l'identificazione;
d) bancarotta da operazioni dolose causali rispetto al dissesto, ove vanno tenute distinte le ipotesi nelle quali il reato presupposto appare in grado di assorbire l'offensività dell'intero ciclo delle manovre illecite poste in essere, che generano sì un profitto ma senza che si possano isolare condotte di trasferimento o reimpiego dello stesso sussumibili entro la tipicità dei reati di riciclaggio, reimpiego o autoriciclaggio; e quelle in cui si ha, per un verso, il consolidamento del profitto (es: vantaggio di imposta derivante da sistematiche operazioni di false fatturazioni) adeguatamente ripulito da terzi, incaricati di trasformare i fondi illeciti in denaro contante e, per l'altro, la reimmissione del profitto illecito nel circuito economico attraverso i meccanismi dell'interposizione, reale o fittizia;
e) bancarotta preferenziale, che postula che il pagamento si situi in quel lasso temporale che, muovendo da una situazione di insolvenza già conclamata o comunque imminente (essendo altrimenti qualificabile come doveroso adempimento delle obbligazioni gravanti sul debitore), approdi ad una sentenza dichiarativa di fallimento, a seguito della quale il creditore favorito non concorrente nella bancarotta preferenziale tenga una condotta di sostituzione, trasferimento et similia. Infatti, nel caso in cui ciò avvenisse prima della declaratoria di liquidazione giudiziale, non potrebbe aversi riciclaggio per mancanza di un delitto presupposto consumato; e, nel caso in cui il creditore privilegiato in violazione della par condicio creditorum abbia fornito il proprio contributo concorsuale al delitto di bancarotta preferenziale, sollecitando il pagamento, il riciclaggio eventualmente posto in essere muterebbe in autoriciclaggio.
Non meno articolato il rapporto tra reati contro la Pubblica Amministrazione e reati di riciclaggio, che va declinato, anzitutto, isolando la corruzione dalle altre figure delittuose, il cui prezzo non può essere oggetto materiale dei reati di riciclaggio nel caso in cui il delitto si perfezioni seguendo lo schema sussidiario dell'accettazione della promessa o quando esso assuma i caratteri di un'utilità, che consista in un vantaggio materiale o morale privo di carattere patrimoniale, come può essere, ad esempio, quello sessuale; qualora, invece, il prezzo si identifichi in un flusso finanziario erogato direttamente all'agente pubblico, è necessario tenere distinta la ricezione del denaro dalla conseguente attività riciclatoria. Dinanzi, poi, alla c.d. corruzione triangolare, caratterizzata, cioè, da una divaricazione soggettiva tra l'autore dell'atto remunerato ed il beneficiario dell'utilità, è essenziale non confondere il riciclaggio con le operazioni finalizzate a veicolare il prezzo del reato al reale percettore di esso.
Quanto alle restanti ipotesi di reato, essendo tutte idonee a generare profitto o, comunque, flussi di utilità in grado di determinare un incremento del patrimonio dall'esterno, questi ultimi potranno rientrare nell'oggetto materiale del riciclaggio se ulteriormente movimentati con modalità decettive. Con precipuo riferimento al delitto di malversazione di erogazioni pubbliche possono riproporsi osservazioni in parte analoghe a quelle già formulate con riferimento alla bancarotta fraudolenta, dato che anch’esso si incardina su una condotta ditipo distrattivo. In particolare, l’illecito si sviluppa secondo modalità intrinsecamente dissimulatorie (presenta, cioè, una stabile componente di self-laundering), ma le fattispecie riciclatorie non possono essere contestate in un tempo antecedente alla scadenza del termine per la destinazione delle risorse pubbliche, perché non risulterebbe integrato il reato-presupposto. Dunque, in linea di massima, fatti di riciclaggio potranno scorgersi allorquando la malversazione risulti perfezionata, con la doverosa precisazione che, anche in questo caso, non è sempre agevole individuare il momento di passaggio tra il delitto-fonte e quello presupponente e che, per dirla con le parole di Siro De Flammineis, il riciclaggio deve sempre rappresentare un «impiego di secondo livello» dei fondi già distratti. Tratti peculiari, sul piano applicativo, contraddistinguono, infine, il riciclaggio dei proventi dei resti tributari, poiché qui il profitto non comporta alcun accrescimento del patrimonio dell'autore del reato-fonte ma soltanto un risparmio di spesa e, dunque, un mancato decremento di ricchezza. In realtà, nonostante le perplessità avanzate da una consistente parte della dottrina, la giurisprudenza di legittimità fa, da anni, leva su una nozione "economica" e non "naturalistica" di profitto, essendo sufficiente che questo si traduca in un qualsiasi vantaggio economicamente apprezzabile, ancorché non cristallizzatosi in una entità materiale, concretamente percepibile nella realtà esterna.
Ciò nondimeno, il fatto che risulti oramai acquisito che anche il risparmio di spesa sia annoverabile come profitto non porta quale conseguenza che possa dirsi individuato un nesso di derivazione tra il provento del reato presupposto e l'utilità oggetto di riciclaggio, peraltro impredicabile in termini qualitativi, essendo il denaro il bene fungibile per eccellenza e come tale insuscettibile di essere "isolato" all'interno del patrimonio liquido del soggetto (in questo senso, a più riprese, le Sezioni unite a proposito della natura diretta e non già per equivalente della confisca del denaro).
La necessaria ricostruzione del collegamento tra la quota parte non intaccata dal mancato pagamento delle imposte ed il flusso finanziario riciclato in termini esclusivamente quantitativi fa sì che questo possa essere apprezzato soltanto valorizzando le modalità con le quali il denaro viene movimentato. In altri termini, l'evidenza di una finalità di occultamento, tesa ad ostacolare l'identificazione della sua provenienza, darà conto della genesi illecita del profitto e, per l'effetto, dell'avvenuta consumazione di un reato presupposto. D'altro canto, affinché riciclaggio o autoriciclaggio vi sia, di reato deve trattarsi e non già di illecito risparmio di imposta derivante da una violazione di carattere meramente amministrativo; il che, dunque, non esime l'interprete dalla prova della commissione dell'illecito penale da cui discendono le risorse che si andrebbero a ripulire, in alcun modo vicariabile attraverso il ricorso a presunzioni, sia pure plausibili.
Al pari di quanto già visto con riguardo ai rapporti tra bancarotta per distrazione e riciclaggio, anche qui è necessario che l'indebita locupletazione da risparmio non venga dirottata dal patrimonio del contribuente prima che il reato tributario sia giunto a consumazione, perché altrimenti quelle operazioni "distrattive" non integrerebbero gli estremi di uno dei delitti di riciclaggio, insistendo su somme in quel momento incapaci di assurgere ad oggetto materiale di un fatto penalmente rilevante. Circa, poi, le apparenti analogie tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11 D.lgs. n. 74/2000) ed il delitto di re-impiego di cui all'art. 648 ter c.p., si chiarisce nel testo come i tratti distintivi tra le due previsioni siano assai più significativi dei punti di contatto, sia perché le condotte dell'uno sono essenzialmente riconducibili ad ipotesi di frode e quelle dell'altro imperniate sull'ostacolo alla tracciabilità; sia perché il primo, a differenza del secondo, non postula affatto la provenienza illecita delle risorse. Da ultimo, occorre anche accennare alle modalità di interazione tra le fattispecie riciclatorie e i reati propri della criminalità organizzata. In chiave dogmatica, si deve considerare che il concorrente nel pactum sceleris non soltanto non può vedersi imputati i delitti di cui agli artt.648-bis e 648-ter c.p. per la ripulitura dei proventi associativi, come peraltro precisato da una nota pronuncia a Sezioni unite, ma che egli non può neppure rispondere di autoriciclaggio laddove l’attività di lecito-vestizione abbia rappresentato il proprio contributo alla fattispecie plurisoggettiva. Il volume in commento, ricostruendo alcuni tra i filoni giurisprudenziali ascrivibili al caso del clan dei Casalesi, dà la riprova di come questo approccio sia stato sostanzialmente recepito anche nella prassi. Infatti, la condotta decettiva tenuta da taluni imprenditori collusi con l’organizzazione criminale è stata inquadrata come concorso esterno ovvero come riciclaggio, a seconda che vi fossero o meno gli estremi del contributo agevolativo alla realizzazione del delitto di cui all'art. 416-bis c.p. Laddove vi sia una netta cesura cronologica e materiale tra il reato associativo e l’autoriciclaggio persistono, comunque, delle perplessità circa la configurabilità del concorso materiale tra i due titoli di reato. Come noto, infatti, alla giurisprudenza più estensiva si contrappone la voce di chi, in dottrina, ritiene che l’operatività in via autonoma dell’art. 648-ter.1 sia impedita dalla compresenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, c.p.
Concludendo, le molteplici sollecitazioni emerse non possono certo essere compendiate in una soluzione unitaria, se non a costo di risultare approssimativi. Eppure, percorrendo trasversalmente la materia, il volume in commento offre al lettore il vantaggio di uno sguardo ampio e sistematico sul fenomeno del money-laundering, sospingendo a qualche osservazione d’insieme, per quanto inevitabilmente rapsodica e decisamente sommaria.
Il contrasto all’attività riciclatoria si sviluppa lungo due piani distinti ma complementari: l'uno, quello della prevenzione amministrativa e l'altro, quello della repressione penale. Ora è chiaro che un’esigenza di rafforzamento vi sia soprattutto rispetto al primo fronte, tenendo conto, ad esempio, delle potenzialità espresse dalle nuove tecnologie e dall’intelligenza artificiale in sede di monitoraggio dei movimenti di denaro e di selezione delle operazioni meritevoli di approfondimento. Così come si conviene con Siro De Flammineis che l’attività di controllo e di segnalazione da parte dei c.d. soggetti obbligati debba essere rivolta non soltanto, come è adesso, alla fase genetica di verifica della clientela quanto piuttosto all’intera progressione della transazione e ciò a maggior ragione se si considera che una significativa parte delle sovvenzioni di matrice nazionale e eurounitaria erogate per fronteggiare la crisi pandemica e finanziaria è destinata a circolare mediante gli operatori privati del mercato creditizio. Quanto al versante più propriamente penalistico, è diffusa in dottrina l’opinione che un approccio legislativo di tipo estensivo risulti disfunzionale e che, al contrario, il numero delle fattispecie vigenti nonché l’analiticità delle formule descrittive ivi impiegate abbia contribuito ad appesantire inutilmente il sistema, rendendolo bizantino e disorganico. Da qui, il comune caveat a rileggere i vari tipi criminosi alla luce del dato assiologico, «per correggere la sopra-inclusività» ed allinearsi nella prospettiva di tutela della concorrenza. Allo stato, tuttavia, non pare che il diritto vivente si sia avviato lungo la direttrice da tempo tracciata dalla dottrina. Anzi, la prassi si rivela piuttosto prodiga, dapprima nell’accertamento del reato-presupposto, come attestato anche dalla giurisprudenza in tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare e, poi, nel discernere la fisionomia del riciclaggio e dell’autoriciclaggio, spesso riscontrata in fatti inidonei a mettere in pericolo il bene giuridico dell’ordine economico.