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07 Novembre 2025


La Cassazione precisa ed estende la nozione di ‘interesse in conflitto’ nel reato societario di infedeltà patrimoniale: rilevante anche l’interesse riconducibile a terzi

Cass. Pen., Sez. V, sent. 10 giugno 2025 (dep. 31 luglio 2025), n. 28133, Pres. L. Pistorelli, Rel. P. Borrelli



1. La sentenza che può leggersi in allegato affronta la questione della natura degli interessi in conflitto in ambito societario, ed in particolare si sofferma sul problema, finora soltanto lambito dalla giurisprudenza, della possibilità di ricondurre alla fattispecie penale di infedeltà patrimoniale prevista dall’art. 2634 c.c. anche un interesse in conflitto che non sia personale, ma riconducibile a terzi. La decisione della Suprema Corte risulta la prima all’interno del panorama giurisprudenziale ad offrire un’esplicita risoluzione della questione, in modo coerente con la ricostruzione ormai consolidata dell’art. 2634 c.c.[1], e risulta conforme alla posizione della dottrina sul conflitto di interessi[2].

Il caso di specie è relativo a condotte di distrazione e di appropriazione indebita ai danni di una società nazionale di mutuo soccorso, impegnata nell’erogazione di prestazioni assistenziali, e di una controllata, da parte del rispettivo procuratore e co-direttore generale. L’imputato, in qualità a sua volta di procuratore speciale e  direttore generale della società controllata, è accusato di aver stipulato in conflitto di interessi due atti di transazione nei confronti dei precedenti direttori generali, rinunciando al diritto di esercitare una qualunque azione restitutoria o risarcitoria in capo alla società rappresentata, e provocando così un danno a quest’ultima.

La Corte d’Appello di Milano, riformando la precedente pronuncia del giudice di prime cure solo con riferimento al trattamento sanzionatorio, ha confermato il giudizio di condanna per infedeltà patrimoniale ai sensi dell’art. 2634 c.c., ritenendo integrati tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, della fattispecie.

 

2. In primo luogo, dunque, il nodo più rilevante della sentenza si identifica nelle ragioni addotte per sostenere in punto di diritto la compatibilità dell’interesse concretamente in conflitto con quello indicato dall’art. 2634 c.c. quale elemento della fattispecie. Il delitto di infedeltà patrimoniale consiste infatti nel fatto degli “amministratori, [...] direttori generali e [...] liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale”, e si configura dunque come un reato di evento che ha come presupposto dell’atto dannoso una situazione di  di conflitto di interessi in capo al soggetto agente.

Nel ritenere sussistente nel caso di specie un conflitto di interessi, in particolare, la Corte si sofferma sul problema dell’ammissibilità di un conflitto che si produca tra l’interesse della società, nella quale il soggetto agente assume una posizione qualificata, e un interesse non personale (i.e. riferibile al soggetto agente) ma unicamente riconducibile a terzi. La pronuncia muove allora dalla ricostruzione della struttura oggettiva dell’infedeltà patrimoniale già consolidata in giurisprudenza, secondo la quale il reato sarebbe integrato al verificarsi di quattro elementi: l’esistenza di un conflitto di interessi tra rappresentante e società rappresentata; l’atto di disposizione di beni sociali; l’evento di danno patrimoniale; il dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio[3].

Dopo aver ricordato i caratteri acquisiti della nozione, quali l’effettività, l’attualità e la valutabilità oggettiva del conflitto e la preesistenza dell’interesse, la motivazione della sentenza annotata esplicita allora come sia proprio l’ingiusto vantaggio per sé o per altri a porsi quale riferimento dell’interesse in antagonismo. È questo ad assumere una valenza dirimente rispetto alla questione affrontata da un punto di vista letterale, nella misura in cui potendo il vantaggio oggetto del fine specifico dell’agente riferirsi anche ad un soggetto terzo, dev’essere ammissibile un interesse presupposto che ne rifletta i contenuti. Tale implicazione viene desunta anche dagli accenni al tema presenti in precedenti sentenze della Corte, le quali esplicitano che l’interesse in conflitto può consistere in “un vantaggio soggettivo che può essere diretto, ossia per conto proprio, ovvero indiretto per conto di terzi favoriti[4].

Questa interpretazione della norma incriminatrice è confermata dal terzo comma dell’art. 2634 c.c., che esclude l’ingiustizia del danno nel caso in cui questo sia compensato da vantaggi derivanti dall’appartenenza della società ad un gruppo. La disposizione, che applica la teoria dei vantaggi compensativi all’interno della fattispecie[5], introduce una deroga dettata dall’esigenza di tutela degli interessi di gruppo, legittimando gli atti di disposizione pregiudizievoli che siano diretti a favorire l’interesse del gruppo di appartenenza o di una società collegata. Secondo la sentenza, la norma considera implicitamente che in tutti gli altri casi di perseguimento di un interesse terzo potrebbe al contrario ritenersi integrato il fatto, dal momento che è volta ad escludere dall’ambito di applicazione del reato proprio un caso di conflitto tra interesse sociale e interesse terzo rispetto al soggetto agente, quello del gruppo. Se così non fosse, il terzo comma dell’art. 2634 risulterebbe privo di utilità, nella misura in cui l’interesse del gruppo o di una collegata, non essendo un interesse personale dell’amministratore, risulterebbe comunque scriminato.

 

3. Va segnalato, per completezza, che la sentenza in commento ha avuto modo di affermare ulteriori principi di diritto, interessanti sotto profili – sia processuali sia sostanziali – ulteriori e diversi rispetto a quello del conflitto di interessi, sin qui considerato. In primo luogo, il ricorrente ha lamentato violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al requisito di tempestività della querela presentata dai vertici della società, affermando che questi ultimi sarebbero stati a conoscenza dei fatti già nel momento in cui avevano sporto querela per i pregressi reati di distrazione e di appropriazione indebita, piuttosto che soltanto con la comunicazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari del relativo procedimento come sostenuto dalle corti di merito. È quest’ultima posizione ad essere adottata dal giudice di legittimità, sottolineando ai fini della determinazione del dies a quo dal quale computare il termine la necessità di fare riferimento alla conoscenza del solo reato di cui si discute, quello di infedeltà patrimoniale. Secondariamente, la difesa presenta censure relative alla sussistenza degli elementi sostanziali della fattispecie, ed in particolare della qualifica soggettiva, del conflitto di interessi, del danno per la società e del dolo del soggetto agente.

Rispetto al primo, il quale discende dalla natura propria del reato in esame, volto a punire unicamente gli atti di disposizione compiuti da amministratori, direttori generali e liquidatori, si evidenzia che l’imputato avrebbe rivestito soltanto la qualifica di direttore tecnico all’interno della società controllata. Argomento però superato, dalla Corte come dai giudici di merito, attraverso il richiamo all’art. 2639 c.c., il quale prevede per tutti i reati dello stesso titolo l’equiparazione tra qualifica formale e funzioni di fatto esercitate con i poteri corrispondenti a quelli che ordinariamente discendono dalla prima, nonché mediante il riferimento alle testimonianze sul passaggio della qualifica di direttore generale dai due precedenti all’imputato.

Con riferimento ai successivi profili, la motivazione della sentenza procede con una trattazione unitaria, e dopo aver rilevato la legittimità della decisione della Corte d’Appello sulla sussistenza del danno, evidenziando il suo prodursi già per effetto degli accordi transattivi, a prescindere dal loro concreto utilizzo da parte dei beneficiari, è giunta ad affermare la condivisibilità del ricorso rispetto a quelli del conflitto di interessi e dell’elemento soggettivo: non già sotto il profilo della violazione di legge, quanto valorizzando l’insufficienza della motivazione determinata dall’incapacità della pronuncia impugnata di dimostrare l’assenza di un previo accordo tra l’imputato e i vertici societari quanto al contenuto delle transazioni che il primo si sarebbe limitato ad eseguire, e dai numerosi dubbi in merito alla posizione del nuovo presidente del consiglio di amministrazione rispetto alla vicenda.

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4. La rilevanza della sentenza qui segnalata sta nell’aver contribuito a precisare la nozione di conflitto di interessi, risolvendo una questione interpretativa che ancora necessitava di essere affrontata compiutamente dalla giurisprudenza.

L’orientamento adottato risulta efficace nel dirimere la questione della natura degli interessi potenzialmente in conflitto e interviene in modo coerente dal punto di vista sistematico con gli altri elementi che la fattispecie di infedeltà patrimoniale contempla, valorizzandone il ruolo. All’interno della fattispecie ogni elemento oggettivo si distingue così dagli altri, assumendo una funzione specifica, in assenza di sovrapposizioni. L’elemento del danno illumina l’offesa rilevante, limitando i fatti perseguibili ai soli che abbiano effettivamente una valenza lesiva del bene giuridico tutelato (il patrimonio sociale)[6]; il fine specifico del conseguimento di un vantaggio ingiusto connota soggettivamente la condotta dell’agente; il conflitto, invece, costituisce la situazione oggettiva degli interessi in contrapposizione prima ancora del compimento dell’atto dispositivo e a prescindere quindi dal verificarsi del danno. Rappresenta il corrispettivo del dolo specifico sul piano oggettivo, ed in quanto tale non può che essere riferito allo stesso soggetto cui si riconduce il vantaggio ingiusto. Sarebbe illogico così, nonché inutilmente intricato sul piano probatorio, ritenere che anche quando l’agente persegue un beneficio patrimoniale di un terzo è necessario riscontrare il suo interesse personale in conflitto. Piuttosto, l’interesse è sempre quello del terzo, e l’elemento finalistico si limita a richiedere che il giudice dimostri non soltanto l’esistenza di una contrapposizione tra questo e l’interesse sociale, ma che l’amministratore ha effettivamente agito con l’intento di realizzare il primo a scapito del secondo. Conflitto e dolo specifico vertono sullo stesso interesse, ma declinato prima oggettivamente e poi soggettivamente, a miglior completamento del disvalore del fatto.

Inoltre, risulta implicita rispetto alla motivazione della sentenza un’ulteriore presa di posizione sul ruolo svolto dal conflitto di interessi rispetto alla struttura della fattispecie. La Corte propende in primo luogo per una ricostruzione in termini sostanzialistici dell’elemento, muovendo, ancorché non esplicitamente, dai relativi parametri di valutazione della sussistenza del conflitto: segnatamente, quelli di patrimonialità, oggettività, effettività ed attualità[7]. La sussistenza degli interessi in conflitto viene quindi valorizzata quale fattore da valutarsi in concreto, piuttosto che un mero presupposto implicito nel compimento di un atto dannoso per il patrimonio sociale. Il conflitto di interessi viene assunto quale componente autonoma della fattispecie, idonea a svolgere un filtro delle condotte punibili attraverso la selezione tra gli atti di disposizione di quelli che avrebbero richiesto l’astensione del soggetto agente[8].

Al contempo, la soluzione proposta dalla pronuncia risulta, a nostro avviso, compatibile con la definizione civilistica di interesse in conflitto secondo gli artt. 2391 e 2475 ter c.c., per quanto non riproposta pedissequamente nel testo dell’art. 2634 c.c. Tali disposizioni, rispettivamente rubricate “interessi degli amministratori” e “conflitto di interessi”, continuano a rappresentare il riferimento per la definizione della situazione in cui versa il soggetto attivo del reato di infedeltà patrimoniale in occasione del compimento dell’atto dannoso, attraverso il loro riferimento esplicito alla possibilità che il portatore dell’interesse lo “abbia [...] per conto proprio o di terzi”.

La ricostruzione, nel suo complesso, consente così di far convergere la nozione di interesse in materia penale e nella disciplina di diritto societario L’apparente indicazione letterale contenuta nell’art. 2634 c.c. della titolarità in capo al soggetto agente dell’interesse non implica, per quanto sia mancante il riferimento espresso ai terzi, la sua natura strettamente personale; piuttosto, si deve intendere che l’agente ha un interesse in conflitto con quello sociale a prescindere dal fatto che questo sia diretto al perseguimento di un vantaggio patrimoniale proprio o di terzi. Dal ragionamento della sentenza, la quale si incentra sul parallelismo tra interesse ed ingiusto profitto per sé o altri, non si può dunque ricavare una diversa definizione dell’interesse individuale, capace di includere anche quelli di natura non patrimoniale di affettività o amicalità nei confronti del terzo cui si intende procurare un vantaggio ingiusto. L’interesse permane dunque strettamente patrimoniale, corrispondente alla comune nozione civilistica, come comunemente ritenuto dalla dottrina[9].

Alla luce di queste considerazioni, la sentenza annotata avrebbe forse potuto fondare la propria motivazione sulla riconduzione dell’interesse ex art. 2634 c.c. a quello ex artt. 2391 e 2475 ter c.c., quale elemento normativo extra-penale della fattispecie[10]. Collegamento, quest’ultimo, che è assicurato anche dal tenore della precedente disposizione ex art. 2629 bis c.c. sul delitto di omessa comunicazione del conflitto di interessi, il quale alla disciplina di diritto societario degli interessi degli amministratori fa esplicito rinvio. Senonché le argomentazioni della Corte consentono di confermare il rapporto di identità tra le due nozioni: non tanto sull’assunto della coerenza sistematica del delitto con la disciplina civilistica (rispetto alla quale ha carattere accessorio[11]), quanto sulla lettura specifica delle norme penali, e di rendere così la soluzione raggiunta, dotata di un fondamento interno alla fattispecie, maggiormente solida.

 

5. Sia consentita, infine, una notazione che guarda al tema del conflitto di interessi in una dimensione più ampia. Un contributo ad una definizione chiara del conflitto di interessi è tanto più importante, infatti, quanto più si consideri la sua presenza anche in altre fattispecie ispirate ad una stessa ratio di tutela: nella stessa disciplina dei reati societari, come nella corruzione tra privati (art. 2635 c.c.) e nell’omessa comunicazione del conflitto di interessi (art. 2629 bis c.c.); in altri settori del sistema penale, di cui costituisce un esempio paradigmatico l’ambito dei reati finanziari ed in particolare quello di gestione infedele (art. 167 t.u.f.); in altri ambiti ancora in cui l’interesse non è esplicitamente menzionato ma può essere comunque presupposto, come quello dei reati contro la pubblica amministrazione.

È interessante a tal proposito sottolineare che in quest’ultimo ambito del diritto penale in particolare si è assistito ad una progressiva perdita di rilevanza dei reati fondati sul conflitto di interessi: prima, con l’abrogazione nel 1990 del delitto di interesse privato in atti di ufficio ex art. 324 c.p., volto a punire le ipotesi di assunzione da parte di un pubblico ufficiale di un interesse privato, e corrispondente pubblicistico dell’analogo reato di conflitto di interessi che un tempo precedeva, all’art. 2631 c.c., quello qui in esame; poi, con l’eliminazione più recente dal codice penale anche del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), che puniva l’omessa astensione in presenza di  un “interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”, e poteva dunque abbracciare, in parte, le stesse ipotesi criminose. Emerge allora da questo pur sintetico quadro uno dei nodi ancora irrisolti della disciplina del conflitto di interessi penalmente rilevante, al di là del problema definitorio: l’evidente mancanza di coerenza e ragionevolezza in un ordinamento che attribuisce rilevanza penale per se agli atti pregiudizievoli in conflitto di interessi compiuti da soggetti titolari di funzioni di rappresentanza privatistiche, come l’amministratore di società o l’intermediario finanziario, ma non da chi operi contro gli interessi della pubblica amministrazione. E’ un frutto nascosto, ma insidioso, della più recente legislazione, che evidentemente ha trascurato, tra l’altro, esigenze di coerenza sistematica. Lo stesso fatto commesso dall’imputato nel procedimento oggetto della sentenza annotata, se commesso in un ente pubblico, sarebbe penalmente irrilevante dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio.

 

 

 

 

[1] Il reato previsto dall’art. 2634 del codice civile è il frutto della riforma intervenuta con d.lgs. n. 61 del 2002, che ha introdotto questa nuova figura al fine di punire i comportamenti di mala gestio nelle società commerciali come auspicato anche dalla dottrina, al posto della precedente disposizione ex art. 2631 c.c., di scarsa applicazione, e tesa a colmare le lacune rispetto al settore societario del delitto di appropriazione indebita; cfr. E. Mezzetti, L’infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario. Spunti critici su ratio dell’incriminazione e bene giuridico tutelato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1, 2004, p. 193 ss.

[2] Cfr. ad esempio L. Foffani, Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi nella gestione d’impresa. Profili penalistici, Giuffrè, 1997, p. 97 ss.; P. Chiaraviglio, Il delitto di infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.), in G. Canzio, L. Lupária Donati (a cura di), Diritto e procedura penale delle società, Giuffrè, 2022, p. 576; A. L. Maccari, Articolo 2634. Infedeltà patrimoniale, in F. Giunta (a cura di), I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali. Commentario del D.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, Giappichelli, 2002, p. 157 ss.; E. Mezzetti, L’infedeltà patrimoniale, cit., p. 215 ss., il quale ricostruendo anche dal punto di vista storico-dogmatico la fattispecie evidenzia il nesso tra infedeltà e sviamento o eccesso di potere, e dunque come utilizzo abusivo del potere in funzione di interessi altri rispetto a quelli per il quale è stato attribuito, siano essi personali o altrui.

[3] Cfr. P. Chiaraviglio, Il delitto di infedeltà, cit., p. 569; E. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, Zanichelli, 2022, p. 191; Cass. Pen., sez. V, 5 marzo 2020, n. 17957, inedita. Tale considerazione è in linea con il processo di progressiva conversione del settore dei reati societari verso la tutela del bene giuridico del patrimonio delle società, e che nel caso specifico dell’infedeltà patrimoniale è il frutto dell’intento di garantire un maggior rispetto del principio di offensività attraverso un distacco dal modello di infedeltà semplice tipico dell’ordinamento tedesco, fondato sull’Untreue e dunque sull’abuso di potere o violazione del dovere che si traducano nella rottura del rapporto fiduciario nell’esercizio della funzione, in termini quindi di anticipazione della tutela, recuperando la natura di danno della fattispecie. Su questo v. E. Mezzetti, L’infedeltà patrimoniale, cit., p. 197 ss., il quale si esprime peraltro in termini critici rispetto al nuovo modello di incriminazione dell’infedeltà.

[4] Cfr. Cass. Pen., Sez. 2, Sent. n. 55412 del 30/10/2018; v. anche Cass. Pen., Sez. F, Sent. n. 40136 del 04/08/2011.

[5] Cfr. P. Chiaraviglio, Il delitto di infedeltà, cit., p. 601; A. Mignoli, Interesse di gruppo e società a sovranità limitata, in Contr. impr., 1986, p. 720 ss., P. Montalenti, Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm., I, 1995, p. 733 ss.

[6] Cfr. E. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 190; Cass. Pen., sez. V, 14 luglio 2017, n. 44053, in Società, 11, 2017, p. 1265, con nota di Chiaraviglio.

[7] Per una trattazione più approfondita del problema, fin dalle prime versioni della disposizione, cfr. E. Mezzetti, L’infedeltà patrimoniale, cit., pp. 224-226; L. Foffani, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 70 ss.; M. Romano, Profili penalistici del conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni, Giuffrè, 1967, p. 54 ss.

[8] Ricostruzione sostenuta da V. Militello, L’infedeltà patrimoniale (art. 2634), in A. Giarda, S. Seminara (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Cedam, 2002, p.484; P. Chiaraviglio, Il delitto di infedeltà patrimoniale, cit., p. 583; A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Giappichelli, 2004, p.175; contra E. Mezzetti, L’infedeltà patrimoniale, cit., pp. 224-225; E. Ambrosetti, E. Mezzetti, M. Ronco, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 191.

[9] Cfr. E. Musco, I nuovi reati societari, Giuffrè, 2007, p. 212 ss.; C. Santoriello, Il reato di infedeltà patrimoniale, in C. Santoriello (a cura di), La disciplina penale dell’economia, Giappichelli, 2008, p. 176 ss., E. Amati, Infedeltà patrimoniale, in A. Rossi (a cura di), Reati societari, Utet, 2005, p. 407; E. Venafro, Commento all’art. 2634 c.c., in Legisl. pen., 2003, p. 512; A. L. Maccari, Articolo 2634, cit., p. 158; F. Giunta, Lineamenti di diritto penale dell’economia, Giappichelli, 2004, p. 287; A. Rossi, Reati ed illeciti amministrativi societari, in F. Antolisei, I reati e gli illeciti amministrativi, societari e bancari. I reati di lavoro e previdenza. La responsabilità degli enti, in C. F. Grosso (a cura di), Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Giuffrè, 2007, p. 422, F. Consulich, Art. 2634. Infedeltà patrimoniale, in A. Perini (a cura di), Disposizioni penali in materia di società, di consorzi e di altri enti privati, in G. De Nova (a cura di), Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, Zanichelli, 2018 p. 476 ss.; N. Mazzacuva, E. Amati, Diritto penale dell’economia, Cedam, 2020, p. 146 ss.; P. Chiaraviglio, Il delitto di infedeltà patrimoniale, cit., p. 580.

[10] Cfr. L. Foffani, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 97, il quale afferma la totale coincidenza tra l’elemento della fattispecie di infedeltà patrimoniale e la nozione riconducibile al diritto societario.

[11] Cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 2025, p. 26 s., che sul punto distingue tra norme incriminatrici in rapporto di accessorietà rispetto a materie già regolate dal diritto civile o amministrativo, le quali costituiscono di conseguenza il riferimento necessario degli elementi extrapenali delle fattispecie, e norme autonome, i cui elementi normativi, anche se nominalmente corrispondenti alle norme di altri rami dell’ordinamento, trovano una definizione nella stessa legge penale o nell’interpretazione del giudice.