Trib. Milano, Sez. II 25.1.2024 (dep. 22.4.2024); Pres. Mancini, Est. Ballesi, Lentini
Merita particolare attenzione la recentissima sentenza del Tribunale di Milano, seconda sezione penale (25.1-22.4.2024, Pres. est. Mancini, Giud. est.ri Ballesi, Lentini) di cui qui si pubblica la parte concernente la responsabilità dell’ente ex d. lgs 231/01. Interesse che va ben oltre il dato – di rilievo poco più che cronachistico – di essere una delle rare decisioni di esclusione della responsabilità dell’ente per adeguatezza del modello organizzativo in presenza della condanna di alcune tra le persone fisiche imputate del reato-presupposto dalle stesse commesso. Il profilo d’interesse maggiore è costituito dalla perspicua motivazione – meritoriamente contenuta in una sequenza argomentativa sintetica e coerente – che muove da una ricostruzione puntuale della struttura della responsabilità dell’ente, centrata sulla nozione di colpa di organizzazione, a sua volta delineata secondo le più accreditate impostazioni dogmatiche.
Prima di dare rapido conto dei tratti salienti della pronunzia, conviene segnalare che l’addebito ascritto all’ente concerneva la violazione dell’art. 25-ter d. lgs 231/01 in relazione al delitto di false comunicazioni sociali in ipotesi d’accusa commesso da esponenti (in massima parte apicali) di una società per azioni italiana, controllata da una multinazionale con sede all’estero. Come anticipato, taluni tra gli amministratori e i dirigenti della società imputata sono stati ritenuti responsabili del reato loro ascritto, mentre altri, pure chiamati a rispondere a titolo di concorso, sono stati assolti. L’ente indagato, del quale è poi stata esclusa la responsabilità, era la società italiana, non essendo invece mai stata sottoposta a indagine la controllante estera.
La decisione dei Giudici di merito, che sviluppa in modo persuasivo l’approdo ultimo della Corte di legittimità (il riferimento è a Cass., Sez. VI, 11.11.2021-15.6.2022, n. 23401)[1], procede dapprima all’inquadramento del modello organizzativo come strumento essenziale nell’economia della disciplina della responsabilità dell’ente in funzione di prevenzione volta a fronteggiare la criminalità economica legata al perseguimento del profitto ‘a qualunque costo’.
Rilevando esattamente che il tema cruciale del giudizio di adeguatezza del modello – giudizio che, modellato sul paradigma del rimprovero colposo, implica la valutazione comparativa del modello esistente (quello in concreto adottato dall’ente) con quello che avrebbe dovuto essere – sia di difficile svolgimento per l’esiguità dei riferimenti normativi, la sentenza procede alla ricognizione dei possibili elementi sui quali fondare siffatto apprezzamento.
Articolata in due sezioni, rispettivamente destinate all’esame del modello 231 nella ‘classica’ distinzione tra ‘parte generale’ e ‘parte speciale’, la decisione dapprima coglie i punti essenziali della configurazione strutturale del modello nella sua funzione preventiva, fornendo una analitica indicazione degli elementi essenziali che lo debbono comporre, principiando dai contenuti del Codice etico (che ne costituisce parte integrante).
Richiamati i profili della «configurazione degli assetti interni e dei relativi meccanismi di controllo endoaziendali (…) [e della] attività di informazione e formazione del personale attuata sia attraverso una diffusione e comunicazione a tutto il personale del Modello e del Codice etico, sia attraverso delle qualificate iniziative di formazione finalizzate a divulgare ed implementare la comprensione delle procedure e delle regole comportamentali adottate» (sent. p. 127), merita speciale attenzione un rilievo a proposito del sistema sanzionatorio. Dopo aver indicato le caratteristiche salienti del sistema disciplinare (in sostanza: tipizzazione delle sanzioni, criteri di commisurazione, proporzionalità), la sentenza prospetta l’ipotesi di sanzioni che incidano sulla parte variabile della retribuzione: ipotesi coerente con gli ormai ampiamente diffusi sistemi retributivi che attribuiscono a dipendenti di ogni livello compensi incrementali al raggiungimento di determinati obiettivi aziendali. Siffatto sistema retributivo, che determina un convergente interesse al perseguimento della massimizzazione del risultato, può costituire un incentivo alla «commissione di condotte in contrasto con le regole aziendali e/o con il Modello e che, da dette condotte, possa trarre un vantaggio anche l'ente stesso, quantomeno in termini di maggiore produttività» (sent. p. 127): sicché «un'efficace azione di contrasto potrebbe consistere nella previsione di decurtazioni, di natura sanzionatoria, che incidano sulla parte variabile della retribuzione, cosi da scoraggiare pratiche o comportamenti non conformi alle disposizioni contenute nei protocolli operativi» (sent. p. 127). Notazione perspicua, perché, da un lato, coglie un profilo di rischio e, dall’altro, suggerisce una sanzione ‘alternativa’ rispetto a quelle classiche, tuttavia efficiente sia sul versante ‘retributivo’ sia su quello ‘preventivo’.
L’esame delle caratteristiche salienti della ‘parte speciale’, esattamente individuata come quella funzionale alla “cautela”, sviluppa opportunamente la labile traccia contenuta nell’art. 6 co. 2 d. lgs 231/01, dove si parla della esigenza di “individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati”: è il tema delle attività sensibili e della “mappatura del rischio”, della quale viene fornita una caratterizzazione concettuale che merita di essere qui riportata: essa (la “mappatura del rischio”) «consiste in una fase cognitivo-rappresentativa funzionale alla percezione del rischio-reato ed alla valutazione del suo grado di intensità» (sent. p. 129, enfasi aggiunta). Interessante la notazione che ne segue, nel suo cogliere l’implicazione che deriva dalla matrice colposa che informa in termini oggettivi la responsabilità dell’ente: «come nel diritto penale individuale, sia il coefficiente psicologico che quello della colpa presuppongono che l’agente si sia rappresentato il rischio derivante dalla sua condotta attraverso le conoscenze disponibili in quel momento, allo stesso modo l’ente collettivo è chiamato a fare una ricognizione a tappeto dei fattori di rischio, il che risulta un’attività sicuramente più complicata rispetto a quanto avvenga nell’agire individuale, dal momento che ancora una volta di richiede un efficace metodo organizzativo di rilevamento e di valutazione» (sent. p. 129, enfasi aggiunta).
Coerentemente con l’impegno argomentativo, la decisione descrive i passaggi della sequenza nella quale è destinato a svilupparsi il procedimento della mappatura: «a) individuazione delle aree potenzialmente a rischio-reato con particolare riguardo alle aree c.d. strumentali, ovvero quelle che gestiscono strumenti finanziari, destinati a supportare la commissione dei reati stessi; b) rilevazione dei processi sensibili dai quali potrebbero derivare le ipotesi di reato perseguibili, il che significa selezionare le attività al cui espletamento è connesso i1 rischio di commissione di reati, indicando le direzioni ed i ruoli aziendali coinvolti; c) rilevazione e valutazione del grado di efficacia dei sistemi operativi e di controllo già in essere, allo scopo di reperire i punti di criticità rispetto alla prevenzione del rischio-reato; d) descrizione delle possibili modalità di commissione dei reati, allo scopo di forgiare le indispensabili ‘cautele’ preventive» (sent. pp. 129-130, enfasi aggiunta).
Lo sforzo ermeneutico prosegue affrontando il passaggio cruciale, esattamente definito come «il contenuto più significativo del Modello 231», rappresentato dai protocolli di organizzazione, la funzione dei quali è in modo esatto còlta nell’«obiettivo strategico […] della ‘cautela’, cioè l’apprestamento di misure idonee a ridurre continuativamente e ragionevolmente il rischio-reato» (sent. p. 130, enfasi aggiunta): appena il caso di notare come lo scopo da perseguire – che diviene uno dei parametri, quello forse essenziale, per la valutazione dell’idoneità del modello – è fissato nella riduzione del rischio, e non nella sua radicale eliminazione (obiettivo come tale strutturalmente impossibile da raggiungere), riduzione ulteriormente qualificata in termini di ragionevolezza e di continuatività, ciò che implica la puntualità concreta delle cautele e la loro effettiva attuazione. Se il riferimento alla “segregazione delle funzioni” spicca tra i canoni fondamentali nell’architettura dei protocolli, nella prospettiva di un modello adeguato, il loro contenuto «richiede: a) l'indicazione di un responsabile del processo a rischio-reato, il cui compito principale è quello di assicurare che il sistema operativo sia adeguato ed efficace rispetto al fine che intende perseguire; b) la regolamentazione del processo, ovvero l'individuazione dei soggetti che hanno il presidio di una specifica funzione, e ciò in osservanza del predetto principio di segregazione delle funzioni; c) la specificità e la dinamicità del protocollo, laddove il primo requisito evoca la sua aderenza sostanziale rispetto al rischio da contenere, mentre il secondo presupposto attiene alla capacità del modello di adeguarsi ai mutamenti organizzativi che avvengono nella compagine sociale; d) la garanzia di completezza dei flussi informativi, che rivestono un ruolo assolutamente centrale sul versante dell’effettività della cautela e, da ultimo, un efficace monitoraggio e controllo di linea, ovvero quelli esercitati dal personale e dal management esecutivo come parte integrante della propria attività gestionale e decisionale, il che presuppone, non solo la necessaria distinzione di ruoli tra controllore e controllato, ma anche la necessità di evitare possibili condizionamenti impropri che possono verificarsi ogniqualvolta il controllo è esercitato da soggetti che condividono con i controllati la medesima prospettiva retributiva, sia in termini di incentivazione che di disincentivazione» (sent. pp. 130-131, enfasi aggiunta).
Una notazione prima di procedere oltre in questa sintetica ricognizione della sentenza del Tribunale di Milano. L’impegno argomentativo dell’interprete è meritoriamente volto a indicare i parametri sulla base dei quali formulare il giudizio di adeguatezza del modello secondo la corretta prospettiva propria dei giudizi normativi, che, in quanto giudizi di relazione – com’è tipicamente in quello di colpa, che in ciò consiste in ultima analisi sul piano oggettivo – si esauriscono nella rilevazione dell’eventuale ‘scarto’ fra quello che avrebbe dovuto essere e quello che è stato.
Al di là della piena condivisibilità dei parametri di riferimento individuati dai giudici milanesi facendo esatto governo della elaborazione giurisprudenziale e degli esiti del vasto dibattito (multidisciplinare) in materia, non può sfuggire che, soprattutto in considerazione del ruolo che tale profilo assume nella dinamica dell’accertamento della responsabilità dell’ente, auspicabile è un intervento legislativo che dia stabilità e certezza a tali parametri. Stabilità e certezza che, a tacer di ogni altro rilievo, permetterebbero all’ente ‘scrupoloso’ di disporre di un paradigma di riferimento ex ante tendenzialmente obiettivo e non affidato alla logica postuma del caso per caso, che non è detto che giunga sempre a ricostruzioni corrette e affidabili come quelle di cui è prova la presente decisione, che – non lo si dimentichi – non esita a definire “primordiale” l’informazione offerta in materia dall’art. 6 co. 2 d. lgs 231/01.
Esigenza, quella della certezza e della stabilità dei parametri di giudizio, ben significativa in un contesto nel quale la colpa di organizzazione assume le sembianze della colpa specifica, nozione cui accede per necessità l’esistenza del riscontro normativo pre-determinato, cruciale per ruolo e funzione. Fermo restando che anche in siffatta sperata prospettiva l’attività dell’interprete è destinata a mantenere importanza decisiva nell’apprezzamento delle variabili legate ad un giudizio in concreto, strutturalmente ex post, ma condotto con logica ex ante (come pure la sentenza in discorso ha cura di precisare a proposito della prevedibilità e della evitabilità: v. sent. p. 139).
L’esame dell’adeguatezza del modello adottato e attuato dall’ente sottoposto al giudizio del Tribunale di Milano mostra una peculiare attenzione non soltanto ai profili strutturali del modello stesso, costantemente rapportati alla tipologia dei reati fra i quali si colloca quello addebitato alle persone fisiche, ma anche – e vien da dire, soprattutto – alle attività in concreto svolte per assicurare la efficace ed effettiva applicazione del modello.
In questo senso la decisione ripercorre, dando ad essi un coerente riscontro concreto, i canoni ermeneutici stabiliti dalla Corte di Cassazione a partire dalla ricordata sentenza 23401/2021 (sentenza “Impregilo”), ragionando in particolare sulla notazione concernente la “colpa di organizzazione” e l’esigenza conseguente di tenere in considerazione anche il c.d. “comportamento alternativo lecito”, cioè l’evenienza nella quale «l'osservanza della regola cautelare, al posto del comportamento inosservante, non avrebbe comunque consentito di eliminare o ridurre il pericolo derivante da una data attività» (sent. p. 138, citando Cass. 23401/2021): sicché «[s]e (…) l'evento realizzato a causa dell'inosservanza delta regola cautelare risulta non evitabile, non vi è spazio per l’affermazione di colpa» (sent. p. 138, citando Cass. 23401/2021).
Egualmente, sul tema – assai delicato e controverso – dell’elusione fraudolenta, la sentenza del Tribunale di Milano, partendo dall’insegnamento del Giudice della legge, nota che la condotta definita dalla clausola normativa (tutt’altro che perspicua, in quanto, se considerata nella sua obiettività, farebbe dipendere la responsabilità dell’ente dal fatto altrui: le modalità di elusione del modello da parte del soggetto apicale) non può corrispondere alla condotta costitutiva del reato, ma deve consistere in comportamento dell’agente volto all’aggiramento del modello. Per restituire oggettività a tale estremo e non incorrere nella contraddizione sopra ricordata, il criterio ermeneutico viene còlto nella considerazione delle caratteristiche del comportamento dell’apicale, espressive di una decettività indirizzata a neutralizzare i presidi del modello, sicché si possa concludere che «anche adottando un modello idoneo, di cui sia stata accertata l'efficacia in concreto, il reato si sarebbe comunque verificato» (sent. p. 139, enfasi aggiunta).
Interessante segnalare che, nel caso oggetto del processo, le caratteristiche dell’elusione fraudolenta sono state riconosciute nel «fenomeno del c.d. management override, ovvero (...) uno scenario in cui il comportamento aziendale diviene forzatamente improntato alla sistematica violazione ed aggiramento fraudolento di ogni regola, procedura, codice etico e modello organizzativo e, in presenza del quale qualsiasi Modello seppur adeguato ed efficacemente attuato, non sarebbe in grado di evitare comportamenti elusivi e manipolatori come quelli sopra descritti» (sent. p. 140).
Da ultimo si noti che la sentenza ha cura di avvertire che la frode è emersa tramite una segnalazione anonima pervenuta alla controllante tramite il sistema del whistleblowing, procedura richiamata nel codice di comportamento della società e parte integrante del modello organizzativo.
Una sentenza di grande interesse, sotto molteplici profili, ed è facile prognosi immaginare che ad essa verranno dedicate riflessioni ben più ampie della presente sintetica nota. (FM)
[1] V. Cass., Sez. VI, 11 novembre 2021 (dep. 15 giugno 2022), n. 23401, Pres. Fidelbo, Rel. Rosati, con nota di C. Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione pone fine all’estenuante vicenda “Impregilo”, in questa Rivista, 27 giugno 2022, v. altresì, C.E. Paliero, E. Fusco, L’“happy end” di una saga giudiziaria: la colpa di organizzazione trova (forse) il suo tipo, in questa Rivista, 27 settembre 2022. In senso analogo v. anche Cass. pen. Sez. IV, 5 ottobre 2023 (de. 28 dicembre 2023), n. 51455, Pres. Dovere, Rel. Sessa.