Trib. Firenze, I sez. penale, ord. 20 febbraio 2023
1. Segnaliamo ai lettori l’ordinanza con la quale il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p. “nella parte in cui, nei ·procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso”.
L’ordinanza, che argomenta la violazione degli artt. 3, 13 e 27 co. 3 Cost., finisce per sollevare numerose questioni di sicuro interesse penalistico, alcune delle quali – per quanto ci consta – mai affrontate dalla giurisprudenza costituzionale, almeno nei termini delineati nel provvedimento di cui si discute.
2. Il procedimento nell’ambito del quale viene emessa l’ordinanza in commento sorge a seguito di un tragico infortunio avvenuto in un cantiere edile, ove l’imputato, titolare di una piccola ditta individuale, e la vittima, nipote assunto “in nero” nella ditta del primo, erano stati incaricati di eseguire alcune riparazioni al tetto di un capannone, «in un contesto contrassegnato sia dalla mancata formalizzazione dei rapporti, sia dalla sottoremunerazione del lavoro [...], sia dal mancato rispetto [...] delle più basilari disposizioni in materia di sicurezza».
Quando, nel corso dei lavori, scoppia all’improvviso un incendio dovuto alla posa di una guaina in catrame, la vittima tenta improvvidamente di spegnerlo con una scopa, rompendo il piano di appoggio e trovando la morte dopo una rovinosa caduta dall’altezza di quasi nove metri.
L’imputato viene pertanto rinviato a giudizio per il delitto di omicidio colposo, aggravato dall’aver commesso il fatto con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, commesso in concorso con il committente dei lavori; nonché per alcune contravvenzioni previste dal d.lgs. n. 81/2008.
Ad esito dell’istruttoria, il giudice a quo ravvisa la sussistenza di tutti gli estremi del contestato delitto di omicidio colposo, in particolare rimproverando all’imputato la violazione di numerose regole cautelari «con efficienza causale rispetto al verificarsi dell’evento letale».
Tuttavia, il remittente rileva come, a suo avviso, l’imputato avesse «certamente già patito una sofferenza morale proporzionata alla gravità del reato commesso, con la conseguenza che un’ulteriore pena inflitta con la sentenza di condanna risulterebbe sproporzionata».
Infatti, non soltanto lo stesso «operava in una situazione di evidente svantaggio economico rispetto al committente e di carenza di mezzi, in cui esposta a rischio era anche la sua stessa incolumità personale»; ma «il [...] patimento morale [...] subito per effetto del reato» si sarebbe potuto presumere «in considerazione del rapporto tra l’imputato e la vittima», che era «l’unico membro della famiglia di origine del nipote presente in Italia e costituiva un punto di riferimento per lo stesso» e che, peraltro, veniva rinvenuto dalle forze dell’ordine accorse sul luogo del fatto «accovacciato vicino al giovane, nel disperato e vano tentativo di rianimarlo».
Si sarebbe trattato, insomma, di un caso paradigmatico in cui l’imputato avrebbe già sofferto una “pena naturale”; vale a dire, «un male [...] di carattere fisico, morale od economico» subito dall’autore di un reato «per effetto della sua stessa condotta illecita [...] al di fuori della reazione sanzionatoria dell’ordinamento», rappresentato, in questa particolare ipotesi, dalla sofferenza dovuta alla perdita di un prossimo congiunto.
Così, dopo aver sommariamente ricostruito la nozione – non certo inedita alla scienza penalistica – di “pena naturale”, il giudice a quo osserva come, a differenza di altri ordinamenti, nel sistema di giustizia penale italiano non sia possibile rinvenire alcun istituto che attribuisca specifica rilevanza a tale costellazione di casi, «se non nei limiti generali del possibile riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche o nell’ambito della commisurazione giudiziale della pena».
Proprio tale carenza rappresenterebbe, secondo il giudice di prime cure, un rilevante vulnus costituzionale, al quale il Giudice delle leggi viene dunque invitato a porre rimedio.
3.1. Nel formulare la questione di costituzionalità, il giudice a quo si mostra innanzitutto consapevole del fatto che la materia appare «contrassegnata da un notevole margine di discrezionalità del Legislatore e in cui, per di più, un intervento organico del Legislatore sarebbe opportuno per assicurare la sistematicità della disciplina», essendo molteplici le possibili strade che il Parlamento potrebbe percorrere per dar rilievo alle ipotesi di “pena naturale”; tuttavia, giusta l’assenza di qualsivoglia intervento legislativo in merito, il rimettente invita comunque la Corte costituzionale a intervenire, rilevando come «la mancata previsione della possibilità per il giudice di astenersi dal pronunciare una sentenza di condanna [...] allorché l’agente, per effetto della morte del prossimo congiunto conseguente alla sua condotta, abbia già subito una sofferenza morale proporzionata alla gravità del reato commesso [...] pare violare i principi costituzionali sotto tre distinti profili».
3.2. Sotto un primo profilo, la carenza di un istituto che consenta di assolvere l’imputato di un reato colposo a fronte del patimento di una “pena naturale” da parte dello stesso violerebbe il principio di proporzionalità della pena, derivato – com’è noto – dagli artt. 3 e 27 co. 3 Cost.
Secondo il remittente, infatti, pur essendo ontologicamente diversa dalle risposte sanzionatorie «penali o amministrative-punitive», la pena naturale condividerebbe con «la pena vera e propria (e con le altre sanzioni a tal fine assimilabili) la propria portata afflittiva» e il fatto che entrambe costituiscono una «conseguenza del fatto illecito».
Posto, dunque, che la pena naturale e la pena “giuridica” mostrano significativi elementi in comune, della prima si dovrebbe tenere conto nel giudizio costituzionale di proporzionalità della seconda; con la rilevante conseguenza per cui la risposta sanzionatoria ordinamentale dovrebbe considerarsi nel complesso sproporzionata – e, dunque, contraria a Costituzione – ogni qual volta «per effetto dello stesso fatto illecito, il relativo autore abbia già subito un’afflizione paragonabile a quella che lo Stato vorrebbe produrre con la propria sanzione o addirittura notevolmente superiore, quale quella normalmente conseguente alla morte di un prossimo congiunto».
3.3. In secondo luogo, la condanna per un reato colposo dal quale siano derivate rilevanti conseguenze in termini di sofferenza morale per l’autore risulterebbe anche contraria al principio di ragionevolezza-proporzionalità, comportando una compressione non necessaria del diritto fondamentale alla libertà personale dell’imputato.
Tale profilo di incostituzionalità, incardinato dal remittente sulla violazione degli artt. 3 e 13 Cost., emergerebbe più precisamente «avendo riguardo alle plurime funzioni cui la pena assolve».
Così, sul piano della prevenzione generale, occorrerebbe ammettere che, «nel caso in cui l’autore del reato abbia già patito una sofferenza adeguata in relazione alla morte del congiunto», la sua mancata punizione non frustrerebbe l’efficacia dissuasiva della norma incriminatrice, posto che «chiunque [...] constatando le possibili gravi conseguenze della violazione delle regole cautelari (in termini di morte di un congiunto), sarebbe indotto a osservare dette regole a prescindere dalla punizione o meno dell’autore del reato».
Inoltre, in tali costellazioni, la pena non potrebbe assolvere nemmeno una funzione special-preventiva, posto che, da un lato, l’autore del reato, «che già veda tragicamente segnata la propria vita per la perdita del congiunto e per la possibile compromissione anche dei rapporti con i parenti superstiti», non potrebbe che percepire la pena come «un crudele accanimento dello Stato nei suoi confronti» e, dunque, rigettare il «trattamento rieducativo»; dall’altro, lo stesso non potrebbe che astenersi dal commettere fatti analoghi «in ragione dell’esperienza personale delle gravi conseguenze della sua condotta colposa, a prescindere dall’applicazione da parte del giudice di una pena».
Né, infine, la condanna apparirebbe necessaria «sotto il profilo della retribuzione [...], posto che «l’autore del fatto ha subito per effetto di questo un “male” che potrebbe essere (e normalmente lo è) già proporzionato alla gravità del reato commesso».
3.4. L’inidoneità della pena inflitta a soddisfare qualsivoglia esigenza di prevenzione generale e speciale, nel caso in cui l’autore «abbia già patito (e stia ancora patendo), in ragione della morte del congiunto, una sofferenza proporzionata alla gravità del reato», invererebbe poi un terzo ed ultimo profilo di incostituzionalità della disposizione impugnata, con riferimento al divieto di trattamenti inumani, consacrato anch’esso nell’art. 27 co. 3 Cost.
Più in particolare, infatti, qualora fosse impossibile raggiungere alcuno degli scopi per cui la sanzione penale è inflitta, l’irrogazione di una pena finirebbe per rappresentare «la fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo, noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza» e si ridurrebbe dunque «ad un atto irrazionale e disumano».
3.5. Quanto, infine, all’individuazione – «particolarmente problematica» – della specifica norma sospettata di illegittimità costituzionale, il remittente, dopo aver vagliato plurime alternative, si concentra sull’art. 529 c.p.p. che, com’è noto, riguarda l’ipotesi di pronuncia di una sentenza di non doversi procedere per mancanza di una condizione di procedibilità dell’azione penale.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione in parola, «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso», viene infatti ritenuta dal giudice a quo la soluzione, se non costituzionalmente imposta, almeno «costituzionalmente adeguata»; e ciò – parrebbe – in ragione del carattere asseritamente “residuale” e “di chiusura” dell’art. 529 c.p.p., che consente la chiusura del procedimento in senso favorevole all’imputato a fronte «delle più svariate evenienze».
4. In attesa della pronuncia della Corte costituzionale, ci limitiamo ad osservare che, qualora la questione sollevata non venga dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata, il Giudice delle Leggi avrà l’occasione di gettare un po’ di luce su alcuni aspetti non ancora esplorati del test di proporzionalità della pena e di quello relativo alla proporzionalità delle scelte di criminalizzazione, nonché di chiarire l’effettiva portata del divieto di pene che consistono in trattamenti contrari al senso di umanità.
Più in particolare, almeno tre ci sembrano gli originali interrogativi posti dall’ordinanza in epigrafe:
- se nella valutazione relativa alla gravità della sanzione comminata – che rappresenta un passaggio obbligato per verificare la proporzionalità della stessa rispetto al reato commesso – si debba tenere in conto anche delle sofferenze morali patite dal reo e dovute alla propria condotta criminosa;
- se l’eventuale inidoneità della sanzione comminata a raggiungere le finalità che, secondo la tradizionale teoria degli scopi della pena, giustificano il ricorso alla stessa da parte del legislatore comporti una violazione del principio di proporzionalità-ragionevolezza in materia di scelte di criminalizzazione;
- se, infine, l’inflizione di una pena nelle ipotesi in cui la sanzione non sembri poter raggiungere alcuna di tali finalità contrasti anche con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.