*Rielaborazione delle memorie predisposte per le audizioni al Senato e alla Camera dei deputati nell’ambito dell’esame dell’Atto del Governo n.196, sul divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare
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È indubbio che nella cronaca giudiziaria, e nel sentire sociale, l’indagato è troppo spesso presunto colpevole sino alla sentenza irrevocabile di assoluzione e che è pertanto un ineludibile impegno quello di studiare rimedi che, senza compromettere il diritto costituzionale di informare e di essere informati, sappiano contrastare efficacemente questo tradimento della presunzione di innocenza. Appare però altrettanto indubbio che la proposta di perseguire questo obbiettivo introducendo un divieto di pubblicazione dell’ordinanza cautelare sino alla conclusione delle indagini o dell’udienza preliminare non sia né praticabile, né funzionale allo scopo.
Con riguardo a tale proposta si è sostenuto, dai suoi critici, che rappresenterebbe un “bavaglio” all’informazione e, dai suoi sostenitori, che si tratterebbe di disposizione necessaria al fine di garantire «l’integrale e compiuto adeguamento alla direttiva UE 2016/343», nonché di «assicurare l’effettivo rispetto dell’art. 27 comma secondo della Costituzione».
Affermazioni che appaiono entrambe prive di fondamento.
Non sembra che si possa parlare di “bavaglio” per l’informazione con riguardo ad una norma che vieta la pubblicazione testuale delle ordinanze di custodia cautelare, ma che fa salva la facoltà per il giornalista di divulgarne il contenuto. Va però aggiunto che non coglie nel segno neppure l’obiezione di chi rileva come, prima della riforma Orlando, che ne ha sancito la pubblicabilità, l’ordinanza cautelare era ugualmente segreta senza che nessuno vi ravvisasse un vulnus per l’informazione. Prima della citata riforma la pubblicazione dell’ordinanza cautelare non era vietata, non potendo certo soggiacere alla speciale disciplina di segretezza che governa gli atti di indagine. Anche con l’intervento innovativo de quo, del resto, ci si muove nello stesso ordine di idee, perché altrimenti si sarebbe considerato sufficiente abrogare la regola della pubblicabilità introdotta dalla riforma Orlando per far rivivere il divieto di pubblicazione asseritamente preesistente. La verità è che quella riforma è “incappata”, al riguardo, in una sorta di anacoluto giuridico, prescrivendo espressamente la pubblicabilità di un atto già pubblicabile. Sotto un profilo strettamente tecnico l’intervento in esame avrebbe invece giuridicamente senso, vietando la pubblicazione dell’ordinanza cautelare che altrimenti sarebbe pubblicabile. Ma si tratta di una scelta del tutto impropria sia sul piano della sua presunta riconducibilità alla Direttiva europea in materia, sia sul piano della sua idoneità funzionale allo scopo perseguito.
Sotto il primo profilo. Nella relazione che accompagna lo schema di decreto legislativo in oggetto si chiarisce che la modifica dell’art.114 c.p.p. viene proposta, nel rispetto degli artt. 21, 24 e 27 della Costituzione, «in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della Direttiva UE 2016/343». Ma per la verità nel decreto legislativo in esame non v’è proprio traccia dell’asserita coerenza. Anzi.
L'art. 3 impegna gli Stati ad assicurare che agli indagati e agli imputati «sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza» (da intendere “provata con sentenza irrevocabile”: cfr. art. 2): non solo non si può dire che il divieto de quo sia attuativo di una tale prescrizione, ma risulta con essa in aperto contrasto, là dove prevede che l’ordinanza si possa poi pubblicare a indagini o a udienza preliminare concluse. Se il divieto proposto fosse davvero funzionale al rispetto della presunzione di innocenza dovrebbe perdurare sino all'accertamento definitivo della colpevolezza. Senza dire che, non meno incongruamente, l’introducendo divieto riguarderebbe soltanto l’ordinanza di custodia cautelare e non anche quella che dispone una misura interdittiva, spesso non meno stigmatizzante per l’indagato.
L'articolo 4, poi, pretende che «le dichiarazioni pubbliche delle autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole». Aggiungendo che «ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza» e «le decisioni preliminari di natura procedurale fondate sul sospetto o su indizi di reità». Pur scrutando in ogni interstizio di questa disposizione non si riesce a trovare un posto dove alloggiare un divieto come quello che ad essa si vorrebbe ricondurre.
Sotto il secondo profilo. Anche a voler prescindere dal collegamento con i citati artt. 3 e 4 –collegamento che pure costituisce l’unico elemento che legittima l’intervento per il tramite di un decreto legislativo – la riforma in esame appare affetta da una palese eterogenesi dei fini.
Sebbene indubbiamente ispirata da un meritorio intento di tutela della presunzione di non colpevolezza, risulta non soltanto del tutto inidonea allo scopo, ma persino per molti aspetti controproducente e sistematicamente in difficoltà di senso. Non si comprende per quale ragione, infatti, dovrebbe risultare meno pregiudizievole per l'immagine dell'indagato una sintesi giornalistica dei motivi che ne hanno determinato la custodia cautelare rispetto alla motivazione del giudice. Tanto più se si considera che il decreto legislativo 188/2021, emanato in attuazione della stessa Direttiva europea, vieta all'autorità giudiziaria e non anche all'operatore dell'informazione di indicare pubblicamente come colpevole l'indagato «fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con sentenza irrevocabile» (art. 2). E se si considera altresì che il medesimo decreto legislativo 188/2021 ha introdotto l’art.115 bis c.p.p. (Garanzia della presunzione di innocenza) che dispone tra l’altro: «nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell'imputato, che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, l'autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione del provvedimento». Davvero singolare che il legislatore, dopo aver opportunamente dettato regole restrittive per la redazione dell’ordinanza cautelare, in modo che non esondi senza necessità in considerazioni relative alla colpevolezza dell’indagato, ne vieti la pubblicazione lasciando però il giornalista libero di rappresentarne il contenuto senza vincolo alcuno.
Se poi a ciò si aggiunge che la richiesta di custodia cautelare del pubblico ministero resterebbe liberamente pubblicabile, riesce difficile capire il senso e la coerenza sistematica dell’innovazione. Tanto più se si tiene presente che il primo comma dell’art. 115-bis sopra richiamato (introdotto in attuazione, è opportuno ribadirlo, della stessa Direttiva europea che si asserisce essere matrice del decreto legislativo oggi in esame), dopo aver stabilito che l’accusato non può essere indicato come colpevole «fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna divenuti irrevocabili», prevede che «tale disposizione non si applica agli atti del pubblico ministero» volti a dimostrarne la colpevolezza.
In conclusione, non è certo difficile prefigurarsi – anche a non voler considerare la testuale pubblicazione della richiesta cautelare del pubblico ministero – rappresentazioni mediatiche che, attingendo liberamente da tale richiesta e dall’ordinanza del giudice, diano delle ragioni che hanno indotto a restringere la libertà dell’indagato un quadro molto più stigmatizzante di quello che offrirebbe la pubblicazione dell’ordinanza, i cui contenuti – come ricordato – sono rigorosamente e restrittivamente disciplinati dalla legge. L’impossibilità di riportare parti del testo dell’ordinanza, d’altro canto, finirebbe per rendere difficile contestare improprietà e gratuiti sensazionalismi.
Per contrastare le degenerazioni della narrazione mediatica, invece di precludere agli operatori dell’informazione l’accesso agli atti non segreti o perdersi in analitici e settoriali rivoli prescrizionali per l’autorità giudiziaria (cfr. anche d.lgs 188/2021), bisognerebbe prevedere l’illiceità di qualsiasi forma di comunicazione pubblica (conferenza stampa, highlights della polizia, articolo giornalistico, programma televisivo, ecc.) che rappresenti implicitamente o esplicitamente l’accusato come colpevole, senza cioè che i destinatari della comunicazione possano capire con la normale diligenza che si ha invece a che fare con un’ipotesi di responsabilità, ancora suscettibile di essere smentita o comunque infirmata. Sarebbe controproducente e farisaico impedire di riferire anche dell’esistenza di convergenti indizi di responsabilità; è doveroso, però, pretendere che sia inequivocabile il carattere unilaterale o comunque provvisorio degli addebiti.
Per i casi di violazione di questa nucleare garanzia della presunzione di innocenza, poi, si potrebbe prevedere l’applicazione di sanzioni disciplinari, amministrative e interdittive a chiunque pubblicamente affermi o lasci intendere come accertata la colpevolezza di una persona indagata o imputata. Con due opportuni accorgimenti per garantire l’effettività di questa risposta sanzionatoria e la sua efficacia general-preventiva. Evitare forme di autodichìa (magistrati che giudicano magistrati; giornalisti che giudicano giornalisti; appartenenti alle forze dell’ordine che giudicano appartenenti alle forze dell’ordine; avvocati che giudicano avvocati, ecc.), affidando il compito di valutare e sanzionare simili condotte comunicative ad una Autorità di garanzia indipendente e composita. Disporre altresì che sia resa pubblica l’irrogazione di tali sanzioni, con ciò contribuendo a rendere l’opinione pubblica consapevole dello scorretto agire di giornalisti, di magistrati, di rappresentanti delle forze dell’ordine, di avvocati, di politici, di opinion leader, in tal modo consentendole di meglio valutarne la credibilità e la professionalità alla luce di questo indicatore di inciviltà, non soltanto giuridica.