Corte cost., sent. 4 dicembre 2019, n. 253, Pres. Lattanzi, est. Zanon
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Diamo immediata notizia ai lettori del deposito della sentenza con cui la Corte costituzionale si pronuncia sulle questioni di legittimità sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia in relazione alla norma, di cui all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., che vietava la concessione di permessi premio ai condannati per delitti di "contesto mafioso" – in particolare, per il delitto di cui all'art. 416-bis ovvero per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui al medesimo articolo, ovvero al fine di agevolare tale associazione – a meno che il detenuto non avesse collaborato con la giustizia.
Con sent. 253/2019, la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale
a) dell'art. 4-bis co. 1, «nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti»;
e, in via consequenziale (art. 27 l. 87/1953),
b) dell'art. 4-bis, co. 1, «nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti».
Riportiamo di seguito, testualmente, il comunicato dell'Ufficio stampa della Corte costituzionale che accompagna il deposito della sentenza.
«Il detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente – negandogli benefici riconosciuti a tutti – se non collabora. In questo caso, la presunzione di pericolosità resta ma non in modo assoluto perché può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti. Pertanto, non basta un regolare comportamento carcerario (la cosiddetta “buona condotta”) o la mera partecipazione al percorso rieducativo. E tantomeno una semplice dichiarazione di dissociazione. La presunzione di pericolosità – non più assoluta ma relativa – può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale.
È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 253 depositata oggi (relatore Nicolò Zanon), dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4-bis, primo comma, dell’ordinamento penitenziario là dove non contempla che, nelle condizioni indicate, il giudice possa concedere al detenuto il permesso premio. L’incostituzionalità della norma – derivante dal contrasto con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione) – è stata estesa a tutti i reati compresi nel primo comma dell’articolo 4 bis, oltre a quelli di associazione mafiosa e di “contesto mafioso”, anche puniti con pena diversa dall’ergastolo.
La Corte precisa infatti preliminarmente che le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al suo esame non riguardano il cosiddetto ergastolo ostativo, su cui si è di recente pronunciata la Corte di Strasburgo (13 giugno 2019, caso Viola contro Italia) perché non censurano, oltre il 4 bis, primo comma dell’Ordinamento penitenziario, anche l’articolo 2, secondo comma, del decreto legge 13 maggio 1991 n.152, convertito nella legge n. 203 del 1991, che non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato 26 anni effettivi di carcere. Le questioni sollevate davanti alla Corte non riguardano chi ha subito una condanna a una determinata pena ma chi ha subito una condanna (nella fattispecie all’ergastolo) per reati cosiddetti ostativi, in particolare di tipo mafioso.
Prima della dichiarazione di incostituzionalità, la disposizione censurata presumeva che la mancata collaborazione con la giustizia dopo la condanna per certi delitti dimostrasse in modo inequivocabile la persistenza di rapporti con la criminalità organizzata. Questa presunzione era assoluta, nel senso che poteva essere superata soltanto dalla collaborazione stessa. Sulla base di questa disciplina, la richiesta del detenuto non collaborante di ottenere i benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario (nella fattispecie, il permesso premio) non poteva mai essere valutata in concreto dal magistrato di sorveglianza, ma doveva essere dichiarata inammissibile.
Ora la sentenza sottolinea che non è la presunzione in sé ma la sua assolutezza ad essere in contrasto con la Costituzione (si veda anche il comunicato stampa della Corte del 23 ottobre 2019).
Mentre non è irragionevole presumere che il condannato non collaborante non abbia rescisso i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, lo è invece impedire che quella presunzione sia superata da elementi diversi dalla collaborazione.
Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari.
In primo luogo, le esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva sottese all’assolutezza della presunzione finiscono per incidere sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive, a carico del detenuto non collaborante, ulteriori rispetto alla condanna già subìta. Mentre è corretto “premiare” la collaborazione con la giustizia prestata anche dopo la condanna – riconoscendo vantaggi nel trattamento penitenziario – non è invece costituzionalmente ammissibile “punire” la mancata collaborazione, impedendo al detenuto non collaborante l’accesso ai benefici penitenziari normalmente previsti per gli altri detenuti.
In secondo luogo, l’assolutezza della presunzione impedisce al magistrato di sorveglianza di valutare in concreto il percorso carcerario del singolo condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale.
Infine, la presunzione assoluta si fondava su una generalizzazione a base statistica, cioè sulla probabilità che la mancata collaborazione del detenuto fosse sintomo dell’attualità dei suoi collegamenti con il sodalizio criminale originario. Per non essere irragionevole, però, questa generalizzazione deve poter essere contraddetta nei singoli casi – tanto più con il trascorrere della detenzione – dalla presenza di elementi che ne smentiscano il presupposto. In sostanza, la detenzione può determinare cambiamenti sia nel detenuto sia nel contesto esterno in cui egli potrebbe essere ricollocato, sia pure brevemente e temporaneamente con il permesso premio. E questi eventuali cambiamenti devono poter essere oggetto di una specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.
Tuttavia, trattandosi del reato di affiliazione a un’associazione mafiosa (e dei reati ad esso collegati), notoriamente caratterizzato dalla forte intensità del vincolo associativo imposto dal sodalizio criminale, la valutazione in concreto di questi cambiamenti dev’essere svolta sulla base di criteri particolarmente rigorosi, proporzionati alla forza del vincolo criminale di cui si esige dal detenuto il definitivo abbandono.
Il magistrato di sorveglianza compirà queste valutazioni non da solo, ma sulla base sia delle relazioni dell’Autorità penitenziaria sia delle dettagliate informazioni acquisite dal competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.
È fondamentale aggiungere che, ai sensi del comma 3 bis del medesimo articolo 4 bis, tutti i benefici penitenziari, compreso il permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
In buona sostanza, la sentenza sottrae la concessione del solo permesso premio (e non degli altri benefici) al circuito “ostativo” previsto dall’articolo 4 bis per i detenuti che non collaborano con la giustizia.
Infine, la Corte ha spiegato perché la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa a tutti i reati compresi nell’elenco contenuto nel primo comma dell’articolo 4 bis.
In virtù di varie scelte di politica criminale – non sempre tra loro coordinate e accomunate solo da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario – adottate in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti, la disposizione in questione ha progressivamente allargato i propri confini, finendo per contenere, attualmente, una disciplina speciale relativa a un eterogeneo e stratificato elenco di reati, anche non necessariamente associativi.
In queste condizioni, se la dichiarazione di illegittimità costituzionale non venisse estesa a tutti questi reati, ne deriverebbe una paradossale disparità di trattamento in danno dei detenuti per i quali possono essere del tutto privi di giustificazione sia il requisito della collaborazione con la giustizia sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un inesistente sodalizio criminale di originaria appartenenza.
In definitiva, non estendere l’intervento compiuto con la presente sentenza a tutti i reati previsti dal primo comma dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario (al di là, quindi, di quelli di associazione mafiosa e di “contesto mafioso”) finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta».
Ospiteremo già nei prossimi giorni contributi di commento all'importante decisione.