C. eur. dir. uomo, Sez. I, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia, ric. n. 24340/07
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1. Da tempo la grande e la piccola Europa hanno mosso passi determinanti nello sviluppo di quel processo di “riscoperta” della vittima del reato sulla scena processuale europea[1]. Allo stato attuale, è ormai innegabile che le fonti europee ed eurounitarie sono protese a costruire, sul terreno penale, un quadro di tutela delle garanzie a salvaguardia non solo dell’accusato, ma anche della vittima[2]. Basti considerare, come emblema di tale paradigma, la significativa affermazione racchiusa nel considerando n. 9 della direttiva 2012/29/UE, secondo cui «un reato è non solo un torto alla società, ma anche una violazione dei diritti individuali delle vittime».
In tale cornice generale, per quanto qui più interessa, non si può certo dire che la Corte e.d.u. sia rimasta inerte nell’accompagnare questo fenomeno. Anzi, proprio a livello della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la quale si presta a una continua interpretazione evolutiva «in the light of present-day conditions»[3], si possono cogliere chiari segnali della crescente valorizzazione delle prerogative delle vittime del reato.
È ben noto, infatti, che la C.e.d.u. è silente in ordine alla posizione della vittima. Nondimeno, ciò non ha impedito alla Corte europea di sviluppare una notevole casistica giurisprudenziale in favore della medesima[4], attraverso l’elaborazione, a livello ermeneutico, di due versanti di tutela ricavati dalle garanzie convenzionali.
Da un lato, si staglia la cospicua evoluzione giurisprudenziale sviluppatasi sul piano del civil limb dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u., il quale viene, ad ogni modo, in gioco nelle sole ipotesi in cui la vittima vanti pretese di tipo civilistico. Detto altrimenti, in base alla costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, tale parametro convenzionale non si applica alla vittima ove intervenga in un procedimento penale con il solo intento di perseguire penalmente l’autore del reato, a meno che ciò non si accompagni a un’istanza risarcitoria, anche solo simbolica, o tesa alla salvaguardia di un diritto civile, come quello a una buona reputazione[5].
Dall’altro lato, acquistano rilievo le molteplici decisioni intervenute in relazione alle cosiddette positive obligations nell’ambito di alcune garanzie tutelate dalla Convenzione, quali gli artt. 2, 3, 4 e 8 C.e.d.u.[6]. Ci si riferisce non solo agli obblighi da parte degli Stati di rendere penalmente rilevanti quelle condotte lesive dei più rilevanti tra i beni fondamentali, ma anche, e soprattutto, ai doveri di carattere procedurale, che prescrivono ai Paesi contraenti indagini effettive e complete[7].
Ebbene, tale quadro articolato si è arricchito, di recente, di un ulteriore importante tassello. Si allude alla decisione nel caso Petrella c. Italia, nel quale la Corte era chiamata a pronunciarsi su una fattispecie in cui la vittima non aveva potuto costituirsi parte civile nel procedimento penale, a causa dello spirare del termine della prescrizione del reato maturato nel corso delle indagini preliminari. In tale caso, la Corte e.d.u. ha condannato l’ordinamento italiano per la violazione dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u., quanto al diritto della vittima alla ragionevole durata del procedimento e alla garanzia di accesso al giudice, nonché in ordine alla lesione di un rimedio effettivo ex art. 13 Convenzione.
L’arresto assume un’importanza di non poco conto: da esso trapela un’ulteriore e netta presa di posizione da parte della Corte di Strasburgo verso la tutela dei diritti della vittima nell’alveo della giustizia penale.
D’altra parte, per comprendere pienamente la portata della sentenza, appare imprescindibile iniziare questa disamina, ripercorrendo il quadro giurisprudenziale in cui si è inserita. Non deve sfuggire, infatti, il complesso tracciato su cui si pone la decisione, la quale, per un verso, si colloca sulla medesima linea di continuità del precedente Arnoldi c. Italia e, per altro verso, prosegue il confronto inaugurato da una rilevante pronuncia della Corte costituzionale intervenuta in materia.
2. A ben guardare, infatti, a porre le basi rispetto alla decisione che si annota è stato, in particolare, il menzionato arresto Arnoldi c. Italia, che ha condannato l’Italia per l’irragionevole durata del procedimento sul versante civilistico dell’art. 6 Convenzione[8].
Nel caso concreto, era stata disposta l’archiviazione del procedimento per falsità ideologica in atto pubblico, a causa dell’intervenuta prescrizione del reato[9]. La persona offesa si era rivolta a quel punto alla Corte d’appello di Venezia, facendo valere il suo diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del procedimento ai sensi della l. 24 marzo 2001, n. 89 (la cosiddetta “legge Pinto”)[10]. Il ricorso era stato, tuttavia, dichiarato inammissibile, in quanto, secondo una giurisprudenza granitica[11], il periodo da prendere in considerazione, ai fini del calcolo della ragionevole durata, avrebbe iniziato a decorrere dal momento della costituzione di parte civile[12]. Una soluzione che – preme sin d’ora precisarlo – è stata poi codificata nel 2012 con l’aggiunta di un comma 2-bis all’art. 2 l. n. 89 del 2001[13].
Ebbene, per parte sua, la Corte di Strasburgo ha adottato una soluzione opposta a quella fatta propria nel sistema interno, mettendo così in chiara luce l’inadeguatezza dell’ordinamento nostrano rispetto all’osservanza del diritto alla ragionevole durata del procedimento in capo alla vittima, sul fronte dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u.
Il fulcro dell’arresto va colto nel ragionamento svolto in merito alla portata operativa del versante civilistico dell’art. 6 Convenzione, con riferimento alla vittima nel corso delle indagini preliminari, la quale non si è ancora costituita parte civile, perché impossibilitata a procedere in tale senso secondo la disciplina propria del diritto nazionale.
In virtù del consueto assunto secondo cui la Convenzione tutela diritti concreti ed effettivi, i Giudici europei hanno escluso che l’applicabilità dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u. possa dipendere dal riconoscimento in capo all’interessato dello status di “parte” secondo la normativa interna[14]. Piuttosto, per la Corte e.d.u., bisogna vagliare la sussistenza di un duplice requisito. In primo luogo, occorre accertare l’intenzione della vittima di chiedere la salvaguardia del suo diritto o di ottenere il risarcimento in seno al procedimento penale; in secondo luogo, è necessario verificare se l’esito della fase delle indagini sia determinante «pour le “droit de caractère civil en cause”»[15].
Una volta calati tali requisiti nella fattispecie concreta e tenute in considerazione le caratteristiche del sistema processuale penale italiano, i Giudici di Strasburgo sono giunti a un’importante conclusione. Sulla scia di taluni precedenti[16], si è rilevato che in Italia la vittima, che non ha ancora potuto costituirsi parte civile, ma che ha esercitato uno dei diritti o delle facoltà stabiliti dalla legge, non presenta differenze sostanziali, ai fini dell’operatività dell’art. 6 C.e.d.u., rispetto alla parte civile[17].
Merita enfatizzare le due argomentazioni poste alla base di tale assunto.
In primo luogo, la Corte e.d.u. ha ravvisato nei diritti conferiti alla vittima nella fase delle indagini preliminari una funzione che può rivelarsi essenziale per una effettiva costituzione di parte civile, specie in presenza di quegli elementi di prova che possono deteriorarsi con il decorso del tempo e la cui acquisizione può divenire impossibile «dans les phases ultérieures de la procédure»[18].
In secondo luogo, un peso centrale è stato attribuito al principio di obbligatorietà dell’azione penale, proprio del sistema italiano: alla luce di tale paradigma, i Giudici europei hanno osservato che la vittima, che ha presentato una denuncia, può attendersi, qualora vi siano i presupposti fissati dalla legge, l’apertura di un procedimento penale nel quale costituirsi parte civile per ottenere il risarcimento dei danni subiti[19].
Ma non è tutto. Nell’ambito di questo ragionamento, preme, da ultimo, ricordare che la Corte e.d.u. ha disatteso l’argomento avanzato dal Governo italiano in merito al potere sussistente in capo alla vittima di adire, in ogni caso, il giudice civile per far valere la sua pretesa civilistica. Secondo quanto si ricava dall’arresto, una volta che l’ordinamento permette all’interessato di tutelare il suo diritto in una sede giudiziaria, devono essere assicurate tutte le garanzie di cui all’art. 6 C.e.d.u.; e questo anche nell’ipotesi in cui egli avrebbe comunque la facoltà di agire avvalendosi di un’altra strada consentita dal sistema[20]. Semmai, – ha concluso la Corte – la sussistenza di vie alternative di protezione delle prerogative dell’interessato potrebbe essere presa in considerazione sul diverso piano delle restrizioni al diritto di accesso al giudice, ma non a monte, in relazione alla stessa applicabilità dell’art. 6 Convenzione[21].
Insomma, la presa di posizione della Corte europea è stata chiara: nel sistema italiano, la vittima del reato, durante le indagini preliminari e in attesa di costituirsi parte civile, gode delle garanzie riconducibili all’art. 6, par. 1, C.e.d.u., inclusa quella alla ragionevole durata del procedimento.
È del tutto evidente la notevole valenza della decisione per la posizione delle vittime nell’ordinamento nostrano. Non stupisce, pertanto, che l’arresto abbia prodotto ripercussioni immediate nel diritto interno.
Ben presto, infatti, sulla scorta degli insegnamenti desumibili dalla pronuncia Arnoldi c. Italia, la Corte d’appello di Venezia sollevava una questione di legittimità costituzionale della “legge Pinto” e, in particolare, dell’art. 2, comma 2-bis, l. n. 89 del 2001, per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., con riferimento all’art. 6 C.e.d.u., «nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di parte civile in capo alla persona offesa dal reato ai fini del computo della durata ragionevole»[22].
Sennonché, la soluzione della Corte costituzionale è stata opposta a quella ricavabile dal sistema di tutela convenzionale[23].
Nonostante la Consulta abbia preso atto del caso Arnoldi c. Italia, essa sembra aver voluto confinare l’arresto alle peculiarità della fattispecie concreta. Più nel dettaglio, si è rilevato che le esigenze di salvaguardia degli interessi della persona offesa, contemplate in tale pronuncia e correlate al caso di specie, non potrebbero di per sé condurre a ritenere illegittimo l’art. 2, comma 2-bis, l. n. 89 del 2001[24]. Invero, per ravvisare l’illegittimità della previsione – ha continuato la Corte costituzionale – quello che dovrebbe essere accertato è «la necessaria, e non occasionale, identità tra il diritto di carattere civile spettante alla persona offesa già durante il periodo di svolgimento delle indagini preliminari e la posizione soggettiva di carattere privato da essa azionata a seguito della costituzione di parte civile nel processo penale»[25].
Tuttavia, una tale equivalenza è stata esclusa da parte della Consulta. Anzitutto, dirimente è stata la considerazione in merito alla differenza tra la figura della persona offesa e quella del danneggiato dal reato nel sistema processuale penale italiano[26]. Ma, soprattutto, la Corte costituzionale ha osservato che i poteri attribuiti all’offeso, e non al danneggiato, nel corso delle indagini preliminari non sarebbero finalizzati a «una tutela anticipata» delle potenziali pretese civilistiche da far valere una volta avvenuta la costituzione di parte civile, ma avrebbero la mera funzione di coadiuvare la pubblica accusa nell’ottica dell’esercizio dell’azione penale[27].
In definitiva, la disciplina racchiusa nella l. n. 89 del 2001 in relazione alla vittima è stata ritenuta coerente con la ricostruzione sistematica delineata; si è, dunque, concluso per l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata[28].
Ora, dal ragionamento condotto nella decisione pare potersi evincere la particolare attenzione della Consulta a non porsi in aperto contrasto con la soluzione dei Giudici di Strasburgo. Si è visto, infatti, che la Corte costituzionale ha cercato di evitare una qualsiasi esplicita presa di posizione in tale senso, avendo ben cura di circoscrivere la sentenza Arnoldi c. Italia alle specificità del caso concreto. Ad ogni modo, l’accorgimento non sembra aver nascosto la chiara diversità di vedute tra le due Corti. E tale lontananza è emersa in tutta la sua evidenza nella tappa conclusiva di questo iter, costituita dalla pronuncia Petrella c. Italia. La Corte europea, non solo ha confermato l’approccio seguito da Arnoldi c. Italia, ma ha anche compiuto fondamentali passi in avanti sul versante del right of access to a court e del rimedio effettivo in caso di lesione della durata ragionevole ex art. 13 C.e.d.u.
3. Così tratteggiato il panorama giurisprudenziale di riferimento, merita analizzare tale ultimo arresto.
Il caso di specie era analogo a quello della decisione Arnoldi: la vicenda concreta originava da un’ipotesi di prescrizione maturata durante le indagini preliminari, a causa dell’inerzia della pubblica accusa. Più nel dettaglio, il ricorrente aveva presentato una denuncia per diffamazione a mezzo stampa e aveva nella stessa dichiarato di volersi costituire parte civile e chiedere il risarcimento del danno derivante dal reato. Sennonché, come accennato, in ragione della durata irragionevole dell’attività investigativa, l’ipotesi delittuosa contestata si era prescritta, con conseguente archiviazione del procedimento: da qui la decisione dell’interessato di adire la Corte di Strasburgo, sostenendo la violazione degli artt. 6, par. 1, 8, 13 e 14 C.e.d.u.
Quanto al primo parametro convenzionale, venivano lamentate, da un lato, la lesione della durata ragionevole del procedimento e, dall’altro, in stretta correlazione con ciò, la violazione del diritto di accesso al giudice. In altre parole, secondo il ricorrente, l’eccessivo protrarsi dell’attività investigativa, che aveva portato alla prescrizione del reato, avrebbe impedito la sua costituzione di parte civile e, in tale modo, avrebbe inciso sul diritto di far valere la pretesa civilistica davanti a un giudice.
Preme rilevare che il Governo italiano, dal canto suo, aveva ammesso l’incapacità dell’ufficio della pubblica accusa di attivarsi, con la conseguenza di precludere all’interessato l’effettivo esercizio del right of access to a court. Tuttavia, in linea con quanto avvenuto nel caso Arnoldi c. Italia, quello che veniva contestato era l’applicabilità dell’art. 6 Convenzione alla fattispecie per l’assenza in capo alla vittima della veste di parte. Per di più, si eccepiva il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne: da quest’ultimo punto di vista, era invocata la previsione di cui all’art. 413 c.p.p., nonché veniva sollevato nuovamente l’assunto fondato sul potere del danneggiato di agire, ad ogni modo, in sede civile.
La Corte e.d.u. ha, tuttavia, disatteso le obiezioni del Governo.
Con riferimento alla portata ratione personae dell’art. 6 C.e.d.u., i Giudici di Strasburgo non hanno fatto altro che richiamare le conclusioni raggiunte nel precedente Arnoldi c. Italia con riferimento alla posizione della vittima nel corso delle indagini preliminari nel sistema italiano. Proiettati tali principi nel caso concreto, si è rilevato che il ricorrente aveva fatto valere un diritto civile, e cioè quello alla buona reputazione; in aggiunta, egli aveva manifestato l’intenzione di costituirsi parte civile e avanzare le sue pretese risarcitorie. Da ultimo, la Corte ha osservato che l’interessato aveva espressamente chiesto di essere avvisato «d’un éventuel classement de l’affaire». Sulla scorta di quanto delineato, si è dunque concluso nel senso di ritenere assodato l’esercizio da parte della vittima di almeno uno dei diritti o delle facoltà disciplinati dal diritto nazionale. Conseguentemente, per la Corte, non vi sarebbero dubbi sull’operatività dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u. riguardo al caso concreto.
Il passaggio successivo è stato sviluppato sul piano dell’esaurimento delle vie di ricorso interne. In proposito, a nulla è valsa la contestazione fondata sull’art. 413 c.p.p., il quale, com’è noto, consente alla persona offesa di chiedere al procuratore generale di disporre l’avocazione delle indagini preliminari nel caso di mancato esercizio dell’azione penale nei termini stabiliti.
Di particolare importanza sono le considerazioni poste alla base di tale conclusione. La Corte di Strasburgo ha osservato che il Governo italiano non aveva dimostrato che tale rimedio sarebbe stato in grado di incidere sulla celerità delle indagini e, più nel dettaglio, che avrebbe attribuito all’interessato tutta una serie di diritti: ottenere da parte dello Stato l’esercizio dei propri poteri di controllo, partecipare alla procedura, essere informato del suo esito e, infine, poter presentare un ricorso avverso il diniego dell’avocazione. Inoltre, – hanno proseguito i Giudici – a venire in dubbio parrebbe la stessa efficacia del rimedio indicato: a supporto di ciò è stata citata una delibera del CSM del 12 settembre 2007, in cui viene espressamente data contezza della materiale impossibilità per le Procure generali di disporre l’avocazione di tutte le indagini preliminari rispetto alle quali i termini massimi sono scaduti.
Per concludere sul punto, è appena il caso di chiarire che l’altro argomento avanzato dal Governo italiano, poggiante sulla facoltà del ricorrente di adire il giudice civile, è stato dichiarato precluso, in quanto tardivo. Nondimeno, preme sottolineare che la Corte e.d.u. ha avuto modo di ribadirne l’irrilevanza sul piano dell’applicabilità dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u. Piuttosto, infatti, in linea con il caso Arnoldi, si è rammentato che esso dovrebbe essere preso in esame – come poi, del resto, avvenuto – in punto di limitazioni al diritto di accesso al giudice.
Risolta in questi termini la ricevibilità del ricorso riguardo all’art. 6 C.e.d.u., la Corte di Strasburgo è entrata nel merito delle doglianze del ricorrente.
Così, è stata, in primo luogo, accertata all’unanimità la violazione della durata ragionevole del procedimento.
Per giungere a siffatta conclusione, la Corte ha anzitutto chiarito che, quanto ai danneggiati da reato, il dies a quo da prendere in considerazione coincide con il primo esercizio di una delle facoltà previste dal diritto nazionale; nel caso concreto, ciò è stato ravvisato nella presentazione della denuncia da parte del ricorrente. Da quel momento fino all’archiviazione del procedimento sarebbero, dunque, passati circa cinque anni e sei mesi. Un arco temporale che i Giudici di Strasburgo hanno ritenuto eccessivo, se valutato alla luce dei criteri utilizzati dalla giurisprudenza e.d.u. per sindacare il rispetto della garanzia convenzionale in questione[29]: la complessità della fattispecie, la condotta del ricorrente, il comportamento delle autorità statali e l’importanza dell’interesse in gioco per l’interessato. In questa prospettiva, è emersa l’assenza in tutto il periodo di riferimento di una qualsiasi attività investigativa. Per di più, – ha constatato la Corte – il caso non sarebbe stato complesso e il Governo non avrebbe fornito alcuna giustificazione a fondamento di una durata così lunga delle indagini.
Sin qui, d’altronde, nulla di nuovo: la pronuncia si è posta sulla stessa scia della decisione Arnoldi c. Italia, accertando, nuovamente, l’irragionevole durata delle investigazioni nel sistema italiano.
Tuttavia, a ben considerare, è nel prosieguo dell’arresto che si possono cogliere quei rilevanti passi in avanti, di cui si è sopra accennato.
A differenza del caso Arnoldi, infatti, la Corte e.d.u. ha avuto l’occasione di analizzare la fattispecie anche nell’ottica del right to court[30]. Nonostante le opinioni parzialmente dissenzienti dei Giudici Wojtyczek e Sabato, la Corte di Strasburgo ha accertato la lesione di tale garanzia, alla luce di un articolato percorso argomentativo.
In linea con la costante giurisprudenza e.d.u., si è ricordato che il diritto di accesso al giudice non è assoluto, ma ammette limitazioni, a patto che le stesse non ne pregiudichino l’essenza, perseguano un fine legittimo e rispettino un rapporto di proporzionalità tra mezzi e scopo[31]. In questa cornice generale, il Collegio ha ripercorso quegli arresti, che hanno trattato ipotesi in cui le pretese civilistiche avanzate dalle vittime nei procedimenti penali non erano state decise nel merito[32]. Rispetto a tale casistica, la Corte di Strasburgo ha ricordato che è stata attribuita una portata dirimente alla percorribilità da parte della vittima di una strada giudiziaria alternativa rispetto a quella penale. Detto altrimenti, in tutti i casi in cui è risultato possibile per il ricorrente presentare un’azione civile, è stata negata una violazione dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u. sul piano del diritto a un giudice.
Sennonché, è a questo punto della disamina che è stato operato un rilevante distinguo rispetto a tale approccio. La Corte di Strasburgo ha, in particolare, osservato che, in tutta una serie di ulteriori decisioni, la soluzione in ordine all’osservanza dell’art. 6 Convenzione è stata diversa[33]. In particolare, si è rilevato come, in tali arresti, i Giudici di Strasburgo abbiano riscontrato la lesione della garanzia convenzionale in fattispecie in cui la conclusione del procedimento, con conseguente mancato esame della domanda civile delle vittime, era dipeso essenzialmente da situazioni addebitabili alle autorità statali: ebbene, – ha precisato la Corte – tra tali circostanze, erano venuti in gioco anche gli irragionevoli ritardi del procedimento, che avevano condotto alla prescrizione dei reati.
Ecco che, sulla scorta di quanto delineato, il punto nevralgico dell’arresto in commento può essere colto nella significativa affermazione secondo cui «l’on ne saurait exiger d’un justiciable qu’il introduise une action aux mêmes fins en responsabilité civile devant la juridiction civile après le constat de prescription de l’action pénale en raison de la faute de la juridiction pénale». In altre parole, la Corte di Strasburgo ha escluso una qualsiasi valenza alla possibilità delle vittime di godere, nel sistema nazionale, del ristoro dei danni patiti in sede civile, laddove si accerti che il procedimento penale sia terminato in seguito al decorso del termine della prescrizione del reato, per cause addebitabili alle autorità giudiziarie. In tale evenienza, la conseguenza è netta: vi è una sicura violazione dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u., a nulla rilevando l’esistenza nell’ordinamento interno di una doppia via di tutela, penale e civile, delle prerogative civilistiche della vittima. Il che significa in sostanza che, qualora la medesima scelga di agire in sede penale, non può essere, in seguito, costretta ad attivarsi davanti a un giudice civile, nel caso in cui la sua domanda non sia stata esaminata in ragione di circostanze imputabili alle autorità statali.
Una volta spostato lo sguardo verso la fattispecie concreta, i Giudici di Strasburgo hanno constatato una violazione del diritto di accesso al giudice ai sensi dell’art. 6 C.e.d.u.: si è, infatti, affermato che il ricorrente non aveva potuto formulare la sua domanda civile in sede penale, esclusivamente a causa del ritardo eccessivo della trattazione del caso da parte delle autorità e della successiva prescrizione dell’ipotesi delittuosa.
Risolto in questi termini il duplice vaglio condotto in relazione all’art. 6, par. 1, C.e.d.u., la Corte di Strasburgo ha, poi, analizzato la presunta lesione dell’art. 13 C.e.d.u., con riferimento all’assenza di un rimedio effettivo nell’ordinamento interno, volto a contestare la durata irragionevole del procedimento. Si consideri, a tal proposito, che il ricorrente aveva criticato la totale inadeguatezza del rimedio rappresentato dalla legge Pinto, in quanto applicabile alla vittima solo nell’ipotesi di costituzione di parte civile.
Ebbene, dopo aver dichiarato il ricorso ricevibile in parte qua, la Corte europea è giunta a una conclusione precisa. Essa ha dichiarato all’unanimità la violazione del parametro convenzionale in discorso. Difatti, a fronte del dettato dell’art. 2, comma 2-bis, l. n. 89 del 2001 e della consolidata giurisprudenza nazionale in materia, i Giudici non hanno avuto dubbi nell’accertare la mancanza nell’ordinamento italiano di un rimedio effettivo finalizzato a porre in capo alla vittima uno strumento per lamentare l’irragionevole durata del procedimento penale. Oltretutto, non pare potersi sottacere che, nella parte della sentenza dedicata alla ricostruzione del quadro giuridico rilevante in argomento, si è preso atto del recente arresto della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità proprio dell’art. 2, comma 2-bis, l. n. 89 del 2001.
Infine, a conclusione della disamina, è appena il caso di rilevare che la Corte e.d.u. non ha esaminato le doglianze manifestate nel ricorso sotto il profilo degli artt. 8 e 6, in combinato disposto con l’art. 14 C.e.d.u., giacché esse sarebbero state assorbite nella trattazione delle altre garanzie convenzionali.
4. Il quadro emerso in queste righe suggerisce alcune riflessioni conclusive, da svolgere, dapprima, sul piano della giurisprudenza di Strasburgo e, poi, a livello nazionale.
Quanto al primo angolo visuale, sembra chiaro come la Corte europea dei diritti dell’uomo stia, man mano, modellando in via interpretativa il sistema della C.e.d.u., in modo tale da costruire un vero e proprio “statuto convenzionale” delle garanzie rivolto alla vittima del reato nella giustizia penale.
La pronuncia in commento dimostra di muoversi in questo senso. Essa, insieme al caso Arnoldi c. Italia, valorizza il consueto approccio della giurisprudenza e.d.u. volto a interpretare la Convenzione al fine di assicurare diritti concreti ed effettivi, con un risvolto di non poco conto: l’effetto è, infatti, quello di riconoscere in capo alla vittima la titolarità del diritto alla ragionevole durata del procedimento sin dalla fase investigativa, a nulla rilevando la mancata assunzione dello status di parte ai sensi del diritto nazionale. Si badi bene: la Corte e.d.u. ricava tale prerogativa dal civil limb dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u., con la conseguenza di escludere in maniera categorica dal campo applicativo della garanzia la vittima in quanto tale, qualora essa non agisca in sede penale per far valere una domanda civile.
Al contempo, però, non deve sfuggire che a questo versante di tutela se ne affianca uno indiretto, enucleabile dagli obblighi positivi di tutela penale dei più significativi beni fondamentali garantiti dalla Convenzione[34]. In virtù della ricca casistica giurisprudenziale sviluppatasi in tale ultimo ambito, il diritto della vittima alla ragionevole durata del procedimento, a prescindere dalla titolarità di una pretesa civilistica, trova una protezione riflessa nel dovere degli Stati di condurre indagini complete ed effettive, in cui il paradigma di celerità delle stesse gioca un ruolo cruciale[35].
Insomma, alla luce di ciò, e a seguito dei più recenti arresti qui tratteggiati, si può affermare che la salvaguardia delle vittime all’irragionevole protrarsi dei tempi del procedimento penale e, in particolare, delle indagini, poggia, allo stato, su due fondamentali pilastri di protezione all’interno del sistema di Strasburgo: da un lato, quello civilistico di cui all’art. 6 C.e.d.u. e, dall’altro lato, quello ricavabile dai doveri procedurali degli artt. 2, 3, 4 e 8 Convenzione.
Oltre a quanto rilevato, vi è, tuttavia, un secondo profilo della sentenza su cui preme focalizzare l’attenzione: un profilo che, come trapela dalle partly dissenting opinions dei Giudici Wojtyczek e Sabato, pare costituire l’aspetto più delicato dell’arresto. Si allude ai passaggi in esso racchiusi sulla valorizzazione del right to court della vittima, pregiudicato, secondo il ragionamento della Corte, proprio dall’indebito ritardo nella conduzione delle indagini, che ha condotto alla prescrizione del reato nella fattispecie concreta.
Ora, si rammenti che, nella pronuncia, i Giudici europei hanno tratto dalla propria giurisprudenza una diversità di approccio a livello di limitazioni al diritto di accesso al giudice, ove la vittima-danneggiato possa avanzare, ai sensi del diritto interno, la sua pretesa risarcitoria in sede civile. Riprendendo il ragionamento della Corte e.d.u., il discrimine tra l’accertamento o meno di una violazione del right of access to a court andrebbe ricercato nella causa del mancato esame della domanda civile nel procedimento penale: in sostanza, qualora ciò sia imputabile alle autorità giudiziarie, vi sarebbe una lesione dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u., mentre, ove si escluda tale addebito, la soluzione sarebbe opposta.
Tale impostazione viene presentata nella decisione in commento in maniera lineare e coerente con la giurisprudenza di Strasburgo. Sennonché, come messo in evidenza dal Giudice Sabato nella sua opinione parzialmente dissenziente[36], la questione in esame sembra caratterizzarsi per contorni ben più complessi.
In proposito, occorre, in primo luogo, fugare ogni dubbio in merito alla circostanza che, in effetti, la soluzione fatta propria nella pronuncia Petrella c. Italia riprende un ragionamento già sviluppato in alcuni precedenti, i quali hanno avanzato la medesima tesi con riferimento al controllo sulla violazione del diritto di accesso a un giudice, polarizzato sulla presenza o meno di situazioni addebitabili alle autorità[37].
Tuttavia, non si può, al contempo, omettere di dare conto di una sentenza della Grande Camera della Corte europea, intervenuta nel 2019[38]: si consideri che tale arresto non ha fatto alcuna menzione della distinzione delineata nella sentenza Petrella[39]. Nonostante il ricorrente avesse lamentato l’omesso sindacato nel merito della sua domanda civile nel procedimento penale, contestando esplicitamente la responsabilità delle autorità competenti[40], i Giudici europei si sono, infatti, limitati a richiamare quella giurisprudenza che valorizza la possibilità della vittima di agire in sede civile quale criterio in grado, di per sé, di escludere una violazione del right to court[41]. Per converso, non è stato dedicato alcun passaggio argomentativo in ordine all’eventuale negligenza nella trattazione della fattispecie. Pertanto, una volta accertata nel caso concreto la percorribilità della via civile, la Corte e.d.u. ha negato la lesione dell’art. 6 C.e.d.u.[42].
Ma vi è di più. A conferma del carattere particolarmente controverso della tematica nell’assetto giurisprudenziale, merita osservare che, in un’altra occasione, la Corte di Strasburgo pare essersi spinta perfino oltre all’approccio seguito nel caso Petrella c. Italia[43]. In una fattispecie in cui l’omesso esame delle pretese civili delle vittime nel procedimento penale era stato determinato dal ricorso a un rito negoziato – e, pertanto, non veniva in rilievo alcuna circostanza addebitabile alle autorità giudiziarie – i Giudici europei hanno rigettato le argomentazioni del Governo circa la facoltà per gli interessati di agire in sede civile[44]. È stata, dunque, riscontrata una violazione del diritto di accesso al giudice: secondo il ragionamento seguito in tale pronuncia, sarebbe illusorio consentire la presentazione di un’azione civile davanti a un giudice se non si garantisse anche una decisione nel merito di tale domanda[45]. In questo passaggio si può, dunque, ricavare una posizione ben più netta rispetto alla sentenza Petrella: alla luce di siffatto arresto, infatti, sembrerebbe enucleabile un diritto in capo alla vittima di vedersi, in ogni caso, assicurata una pronuncia sulla sua istanza civilistica nel procedimento penale[46].
Insomma, quanto brevemente tratteggiato pare sufficiente per intravedere nella giurisprudenza e.d.u. disallineamenti interpretativi in materia di tutela della vittima, riguardo alla garanzia di accesso al giudice sul piano del civil limb dell’art. 6 C.e.d.u. Non si può, dunque, fare a meno di concludere nel senso che, nel caso Petrella c. Italia, la Corte avrebbe fatto meglio a darne conto, chiarendo la sua posizione rispetto a tale articolata giurisprudenza.
Al di là di ciò, un dato è certo: sul piano fattuale, mediante questa decisione, la protezione della vittima rispetto alla sua aspettativa di ottenere una decisione definitiva sulla propria pretesa risarcitoria nel procedimento penale ne esce rafforzata, quantomeno rispetto a quelle circostanze connesse a inerzie dell’autorità procedente.
5. D’altra parte, spostando a questo punto lo sguardo verso la prospettiva interna, appare evidente come la condanna dell’Italia per la violazione degli artt. 6, par. 1 e 13 C.e.d.u. metta a nudo alcuni gravi difetti del sistema.
Il primo nervo scoperto va ravvisato a monte della fattispecie che ha portato ad adire i Giudici di Strasburgo non solo nel caso Petrella, ma anche nella sentenza Arnoldi: l’irragionevole durata delle indagini preliminari, con il mancato rispetto dei termini massimi delle medesime e con successiva inevitabile conclusione del procedimento per l’intervenuta prescrizione. Si è in presenza, a ben considerare, di un «drammatico deficit di effettività del sistema penale, il quale inevitabilmente pregiudica e condiziona la tutela delle vittime»[47]. Il susseguirsi alquanto ravvicinato di ben due arresti della Corte e.d.u., che hanno messo in chiara luce questa carenza, pare sollecitare una meditata riflessione nella prospettiva di un restyling normativo del codice di rito, teso a ovviare in maniera effettiva a tali patologiche stasi investigative[48].
In aggiunta, ferma restando l’esigenza di compiere passi decisi per contrastare alla radice quelle ipotesi di mancata speditezza delle indagini, non si può, ad ogni modo, trascurare la presa di posizione manifestata nel caso Arnoldi in ordine all’assenza, nel nostro ordinamento, di un rimedio effettivo da mettere a disposizione della vittima per lamentare la violazione dell’irragionevole durata del procedimento. Difatti, nonostante l’avallo della Corte costituzionale alla legge Pinto, i Giudici europei sono stati chiari nell’affermarne l’inadeguatezza. Anche in questo caso, appare dunque auspicabile un intervento mirato del legislatore, volto ad estendere la portata del diritto all’equa riparazione per irragionevole durata, recependo gli insegnamenti statuiti da Strasburgo. Si tratterebbe, in sostanza, di interpolare l’art. 2, comma 2-bis, l. n. 89 del 2001 e stabilire, sulla falsariga dei dicta europei, che, rispetto alla vittima, il procedimento penale si considera iniziato, ai fini del calcolo della ragionevole durata, a partire dal primo esercizio dei diritti o facoltà alla stessa attribuiti nel corso delle indagini preliminari.
[1] In argomento, cfr., per tutti, S. Allegrezza, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea, in Aa.Vv., Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa e Italia, a cura di S. Allegrezza – H. Belluta – M. Gialuz – L. Lupária, Torino, 2012, p. 1 e ss.; M. Simonato, Deposizione della vittima e giustizia penale. Una lettura del sistema italiano alla luce del quadro europeo, Milano, 2014, p. 37 e ss.; M. Venturoli, La vittima nel sistema penale dall’oblio al protagonismo?, Napoli, 2015, p. 86 e ss.
[2] Cfr. E.N. La Rocca, La tutela della vittima, in Aa.Vv., Regole europee e processo penale, a cura di D. Chinnici – A. Gaito, 2a ed., Milano, 2018, p. 147.
[3] Così, Corte e.d.u., 9 ottobre 1979, Airey c. Irlanda, § 26.
[4] Cfr. M. Chiavario, Il “diritto al processo” delle vittime dei reati e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. proc., 2001, p. 940.
[5] V., per tutte, Corte e.d.u., GC, 12 febbraio 2004, Perez c. Francia, § 70.
[6] Cfr. F. Viganò, Riflessioni de lege lata e ferenda su prescrizione e tutela della ragionevole durata del processo, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 3/2013, p. 23.
[7] In merito, si vedano, tra gli altri, M. Engelhart, Victims and the European Convention on Human Rights, in Aa.Vv., Victims and Corporations. Legal Challenges and Empirical Findings, a cura di G. Forti – C. Mazzucato – A. Visconti – S. Giavazzi, Milano, 2018, p. 118 e ss.; M. Gialuz, La protezione della vittima tra Corte EDU e Corte di giustizia, in Aa.Vv., Lo statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela e buone pratiche nazionali, a cura di Lupária, Milano, 2015, p. 27 e ss.; A. Marandola, Reati violenti e Corte europea dei diritti dell’uomo: sancito il diritto alla vita e il “diritto alle indagini”, in questa Rivista, 22 settembre 2020; M. Montagna, Obblighi convenzionali, tutela della vittima e completezza delle indagini, in Arch. pen., 2019, n. 3 (versione web); S. Scalia, Una proposta di ricostruzione degli obblighi positivi di tutela penale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. L’esempio degli obblighi di protezione del diritto alla vita (I parte), ivi, 2020, n. 3 (versione web).
[8] Cfr. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia. Su tale pronuncia, v. G. De Marzo, La tutela della parte offesa non costituita parte civile, in Quest. giust., Speciali, La Corte di Strasburgo, a cura di F. Buffa – M.G. Civinini, aprile 2019, p. 343 e ss.; A. Didone – A. Didone, La ragionevole durata del processo e la legge Pinto (art. 6, par. 1, CEDU), in Aa.Vv., CEDU e ordinamento italiano. La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo e l'impatto nell’ordinamento interno (2016-2020), a cura di A. Di Stasi, 2a ed., Milano, 2020, p. 302 e ss.; B. Occhiuzzi, Il principio di costituzione sostanziale della parte civile nel caso Arnoldi c. Italia: un passo ulteriore verso la civilizzazione del sistema penale, in diritticomparati.it, 19 marzo 2019; P. Tandura, Persona offesa e irragionevole durata del processo: la Corte di Strasburgo supera il limite, stabilito dal diritto interno, della necessaria costituzione di parte civile, in Riv. pen., 2019, p. 180 e ss.
[9] Cfr. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, §§ 5-11.
[10] V. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 12.
[11] In merito, si rinvia a P. Tandura, Persona offesa e irragionevole durata del processo, cit., pp. 180-181.
[12] Cfr. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 13.
[13] Ci si riferisce, in particolare, al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 2012, n. 134.
[14] Cfr. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 28.
[15] V. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 30.
[16] V. Corte e.d.u., (dec.), 30 marzo 2010, Mihova c. Italia; Corte e.d.u., Sez. I, 20 aprile 2006, Patrono, Cascini e Stefanelli c. Italia, § 31; Corte e.d.u., (dec.), 24 febbraio 2005, Sottani c. Italia.
[17] Cfr. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 40.
[18] V. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 38, la quale, a sua volta, riprende Corte e.d.u., (dec.), 24 febbraio 2005, Sottani c. Italia.
[19] Cfr. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 39.
[20] V. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 42.
[21] Cfr. Corte e.d.u., Sez. I, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia, § 42.
[22] V. Corte cost., 4 novembre 2020, n. 249, in cortecostituzionale.it.
[23] Cfr. Corte cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit. Per un commento a tale decisione, cfr. G. De Marzo, Persona offesa, parte civile e ragionevole durata del processo. La Corte costituzionale avalla il sistema normativo vigente, in foroitaliano.it, 25 novembre 2020; E.N. La Rocca, Le due vie per il ristoro economico dell’offeso dal reato che escludono l’equa riparazione per irragionevole durata delle indagini preliminari (Corte cost. n. 249 del 2020), in diritticomparati.it, 17 dicembre 2020.
[24] Cfr. Corte cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit.
[25] Così, Corte cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit.
[26] Cfr. Corte cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit.
[27] Cfr. Corte cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit.
[28] V. Corte cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit.
[29] V. Corte e.d.u., GC, 27 giugno 2000, Frydlender c. Francia, § 43.
[30] Sul diritto di accesso al giudice della vittima del reato nella C.e.d.u., si veda M. Gialuz, Il diritto alla giurisdizione dell’imputato e della vittima tra spinte europee e carenze dell’ordinamento italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 94 e ss.
[31] Cfr. Corte e.d.u., GC, 18 febbraio 1999, Waite e Kennedy c. Germania, § 59. Sul punto, v. D.J. Harris – M.O’Boyle – E.P. Bates – C.M. Buckley, Harris, O’Boyle and Warbrick: Law of the European Convention on Human Rights, 4a ed., Oxford, 2018, p. 403; W.A. Schabas, The European Convention on Human Rights. A Commentary, Oxford, 2015, p. 285.
[32] Cfr. Corte e.d.u., GC, 25 giugno 2019, Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania, § 198; Corte e.d.u., Sez. II, 1° marzo 2011, Lacerda Gouveia e altri c. Portogallo, § 80; Corte e.d.u., Sez. I, 4 ottobre 2007, Forum Maritime S.A. c. Romania, § 91; Corte e.d.u., Sez. II, 15 luglio 2003, Ernst e altri c. Belgio, §§ 53-55; Corte e.d.u., 28 ottobre 1998, Assenov e altri c. Bulgaria, § 112.
[33] Merita segnalare che l’arresto cita, in proposito, Corte e.d.u., 22 settembre 2015, Rokas c. Grecia, §§ 22-24; Corte e.d.u., Sez. I, 15 gennaio 2015, Korkolis c. Grecia, §§ 21-25; Corte e.d.u., Sez. V, 6 maggio 2010, Boris Stojanovski c. l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, §§ 56-57; Corte e.d.u., Sez. V, 19 novembre 2009, Tonchev c. Bulgaria, §§ 50-53; Corte e.d.u., Sez. V, 22 gennaio 2009, Dinchev c. Bulgaria, §§ 40-52; Corte e.d.u., Sez. V, 2 ottobre 2008, Atanasova c. Bulgaria, §§ 34-47; Corte e.d.u., Sez. I, 29 marzo 2007, Gousis c. Grecia, §§ 34-35; Corte e.d.u., Sez. I, 3 aprile 2003, Anagnostopoulos c. Grecia, §§ 31-32; nonché, a contrario, Corte e.d.u., GC, 25 giugno 2019, Nicolae Virgiliu Tănase, §§ 196-202 e 207-214; Corte e.d.u., Sez. I, 19 aprile 2018, Dimitras c. Grecia, § 47; Corte e.d.u., Sez. II, 1° marzo 2011, Lacerda Gouveia e altri c. Portogallo, § 77.
[34] Sul punto, si vedano i rilievi di B. Lavarini, La ragionevole durata del processo come garanzia soggettiva, in lalegislazionepenale.eu, 31 dicembre 2019, p. 4.
[35] In proposito, cfr. M. Montagna, Obblighi convenzionali, cit., p. 8; F. Viganò, Riflessioni de lege lata e ferenda su prescrizione, cit., p. 24.
[36] Cfr. Opinione parzialmente dissenziente del Giudice Sabato, Corte e.d.u., Sez. I, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia.
[37] Centrali, in questo senso, paiono essere Corte e.d.u., Sez. V, 19 novembre 2009, Tonchev c. Bulgaria, §§ 51-52; Corte e.d.u., Sez. V, 22 gennaio 2009, Dinchev c. Bulgaria, § 48; Corte e.d.u., Sez. V, 2 ottobre 2008, Atanasova c. Bulgaria, §§ 42-47.
[38] V. Corte e.d.u., GC, 25 giugno 2019, Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania.
[39] Cfr., al riguardo, quanto espresso in Opinione parzialmente dissenziente del Giudice Sabato, cit., § 55 e ss.
[40] Cfr. Corte e.d.u., GC, 25 giugno 2019, Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania, § 190.
[41] V. Corte e.d.u., GC, 25 giugno 2019, Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania, § 198.
[42] V. Corte e.d.u., GC, 25 giugno 2019, Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania, §§ 199-202.
[43] Ci si riferisce a Corte e.d.u., Sez. II, 7 novembre 2017, Leuska e altri c. Estonia, sulla quale si veda, diffusamente, J. Della Torre, La giustizia penale negoziata in Europa, cit., pp. 503-507.
[44] Cfr. Corte e.d.u., Sez. II, 7 novembre 2017, Leuska e altri c. Estonia, §§ 62 e 65-72.
[45] V. Corte e.d.u., Sez. II, 7 novembre 2017, Leuska e altri c. Estonia, § 67.
[46] Cfr., sul punto, i rilievi di J. Della Torre, La giustizia penale negoziata in Europa, cit., pp. 504-505.
[47] In questo senso, M.M. Scoletta, Vittime e prescrizione: una riconciliazione impossibile?, in Aa.Vv., Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri, a cura di M. Bargis – H. Belluta, Torino, 2017, p. 465.
[48] Peraltro, sull’esigenza di un cambio di passo in parte qua, rispetto al d.d.l. A.C. 2435, cfr. M. Gialuz – J. Della Torre, Il progetto governativo di riforma della giustizia penale approda alla Camera: per avere processi rapidi (e giusti) serve un cambio di passo, in questa Rivista, 21 aprile 2020, p. 163.