C eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza 8 luglio 2019, Mihalache c. Romania, ric. n. 54012/10
1. Con la sentenza pronunciata dalla Grande Camera lo scorso 8 luglio 2019 nel caso Mihalache contro Romania (ricorso n. 54012/10), la Corte Edu torna ad occuparsi del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Cedu, riscontrando, ancora una volta, la violazione della disposizione citata[1], e condannando lo Stato rumeno al pagamento, in favore del ricorrente, di 5.000 Euro per il risarcimento dei danni non patrimoniali. La sentenza in commento si focalizza, in particolare, sul significato da attribuire alla nozione di “decisione definitiva”, che costituisce uno degli elementi fondamentali su cui si struttura il principio in questione.
2. I fatti oggetto della pronuncia sono i seguenti: un soggetto di nazionalità rumena viene fermato dalla polizia mentre è alla guida e viene sottoposto a test alcolemico. Risultato positivo al test, viene invitato dagli agenti di polizia a fornire un campione biologico del suo sangue al fine di individuare il livello di concentrazione di alcol etilico in esso rintracciabile e, quindi, a sottoporsi ai relativi esami in ospedale. Essendosi tale soggetto rifiutato di sottoporsi ai controlli prescritti, viene avviato dalla procura un procedimento penale per il reato punito nell’ordinamento rumeno dall’art. 87, par. 5 del decreto n. 195/2002 in materia di circolazione stradale. Tale procedimento, tuttavia, viene successivamente archiviato (“discontinued”) dal pubblico ministero, ritenendo quest’ultimo che il fatto non fosse sufficientemente “grave” da costituire reato ai sensi della legislazione rumena (art. 10, lett. b1, e 11 del Code of Criminal Procedure, o “CCP”). Tuttavia, con lo stesso provvedimento di archiviazione, conformemente a quanto previsto dalla normativa locale (art. 441 CCP, in combinato disposto con l’art. 442 CCP), viene irrogata nei confronti del soggetto indagato una sanzione amministrativa di circa 250 Euro. Il provvedimento emesso dalla procura non viene peraltro contestato dal suo destinatario, il quale, anzi, provvede al pagamento della sanzione pecuniaria inflittagli.
Solo in un momento successivo – e più precisamente dopo circa 5 mesi dall’emissione del provvedimento di archiviazione del procedimento da parte della procura – interviene l’ufficio inquirente di grado gerarchicamente superiore che annulla d’ufficio siffatto provvedimento, ritenendo, in considerazione della serietà del pericolo ingenerato dalla condotta tenuta dal soggetto in stato di ebbrezza nei confronti della collettività, che il fatto commesso non potesse considerarsi adeguatamente punito dalla sanzione amministrativa.
Viene quindi aperto un nuovo procedimento, che questa volta si conclude con la condanna del soggetto indagato alla pena (sospesa) di un anno di reclusione, e con l’ordine di rimborsare a quest’ultimo l’importo già versato a titolo di sanzione amministrativa.
La decisione viene tempestivamente appellata dal condannato che lamenta, in punto di diritto, l’inosservanza, da parte dell’ufficio della procura gerarchicamente superiore, del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 Prot. 7 della Cedu: la Corte adita, tuttavia, rigetta il ricorso, ritenendo il principio convenzionale richiamato irrilevante nel caso di specie e, quindi, corretta la decisione del tribunale inferiore.
Una volta divenuta definitiva la pronuncia di condanna nell’ordinamento giuridico interno rumeno, il soggetto presenta ricorso alla Corte Edu reputando integrata la violazione del citato articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La questione viene assegnata alla Quarta Sezione e rimessa, infine, alla Grande Camera.
3. Il fulcro della pronuncia, come già anticipato, sta nella definizione di “decisione definitiva” fornita dalla Corte Edu, posto che, nel caso di specie, si trattava principalmente di vagliare la natura e gli effetti del provvedimento di archiviazione del primo procedimento emesso dalla procura gerarchicamente inferiore.
A tal fine, la Corte ritiene fondamentale anzitutto richiamare l’art. 22 della relazione esplicativa al Protocollo 7, ai sensi del quale può considerarsi definitiva solo una decisione che abbia acquisito la forza della res iudicata. Ciò si verifica, in particolare, quando una pronuncia assume il carattere dell’irrevocabilità, ossia quando “non sono disponibili ulteriori rimedi ordinari di impugnazione, o quando le parti hanno esaurito tali rimedi, o hanno lasciato scadere i relativi termini senza avvalersene” (cfr. par. 37).
Successivamente, dopo aver rievocato le disposizioni delle carte internazionali pertinenti (tra cui l’art. 14, par. 7, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, le regole generali di interpretazione della Convenzione di Vienna, l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e l’art. 54 della Convenzione di attuazione dell’Accordo di Schengen), nonché talune decisioni della Corte di giustizia che si erano già espresse sulla questione,[2] la Corte passa a vagliare la sussistenza di un’effettiva violazione dell’art. 4 Prot. 7 della Cedu nel caso sottoposto al suo esame, ritenendo preliminarmente il ricorso ricevibile.
In proposito, è bene evidenziare l’iter logico seguito dai giudici europei che – dopo aver dato atto della preminenza della posizione assunta dalla garanzia sancita dall’art. 4 Prot. 7 della Cedu nel sistema di protezione della Convenzione, la quale non risulta derogabile nemmeno in tempo di guerra ai sensi dell’art. 15 della medesima – si soffermano a ribadire le tre componenti fondamentali del principio in questione, ossia: la natura “penale” dei diversi procedimenti, la sussistenza di un’effettiva “duplicazione” degli stessi, nonché l’ulteriore elemento per cui essi devono concernere gli “stessi fatti”.
4. Quanto alla verifica della natura “penale” dei due procedimenti svoltisi nei confronti del ricorrente, la Corte, nello svolgere le proprie valutazioni, richiama ancora una volta i criteri di Engel (vale a dire la qualificazione giuridica data all’illecito dal diritto nazionale, la natura dell’illecito e la natura e gravità della sanzione), nonché la necessità di una loro applicazione sganciata dalle qualificazioni giuridiche date dal diritto interno. Sulla base di tali argomenti, la Corte giunge quindi a sostenere che anche il primo dei procedimenti avviati dalla procura, conclusosi con l’irrogazione della sanzione amministrativa, possedesse carattere “penale”, e ciò in virtù: (i) della natura propriamente penale delle disposizioni del decreto in materia di circolazione stradale rilevanti nel caso di specie, (ii) del carattere vincolante erga omnes della disposizione violata, (iii) della particolare rilevanza dei beni giuridici da quest’ultima tutelati, (iv) della gravità della sanzione in astratto irrogabile; nonché (iv) della circostanza per cui “non vi è nulla nella Convenzione che suggerisca che la natura penale di un illecito, ai sensi dei criteri di Engel, richieda necessariamente un certo grado di serietà [dell’offesa, n.d.r.]” (par. 60).
Tra gli argomenti richiamati, la Corte attribuisce un notevole rilievo al massimo edittale astrattamente irrogabile ai sensi della disposizione incriminatrice violata (pena detentiva da 2 a 7 anni), ritenendo altresì che l’ammenda in concreto inflitta, seppur qualificata dall’ordinamento interno come amministrativa, possedesse comunque una finalità punitiva e dissuasiva.
I giudici di Strasburgo, viceversa, non si dilungano più di tanto sul carattere penale del secondo dei due procedimenti, ritenendo senza ombra di dubbio di dover considerare di natura penale la pena della reclusione di un anno inflitta al ricorrente, seppur sospesa.[3]
Quanto all’ulteriore presupposto della plurima contestazione degli stessi fatti (idem), tale circostanza non viene in realtà nemmeno contestata dal Governo rumeno, e risulta quindi pacifica, essendo stato il ricorrente processato e punito in entrambi i procedimenti per la condotta di rifiuto di sottoporsi agli esami del sangue per la verifica del tasso alcolemico.
Quanto, infine, all’ultimo dei requisiti richiesti ai fini della sussistenza di un bis in idem, ossia quello della effettiva duplicazione dei procedimenti (bis), tale elemento risulta evidentemente quello maggiormente controverso nel caso in questione e diviene, pertanto, oggetto di diversa interpretazione delle parti in causa.
5. Con riferimento a tale ultimo requisito, infatti, ad avviso del governo i procedimenti avviati dai due diversi uffici della procura costituivano un’unica e complessa procedura, risultante dalla “combinazione” degli stessi, conclusasi soltanto con la sentenza della Corte d’Appello nel 2010.
Ciò in quanto il provvedimento di archiviazione del procedimento penale emanato dalla procura di grado gerarchicamente inferiore non poteva assurgere a “decisione definitiva”, anche in considerazione del potere del pubblico ministero di grado gerarchicamente superiore, ai sensi del diritto interno, di ordinarne la riapertura: il che equivarrebbe ad una sorta di “rimedio ordinario” di impugnazione, secondo il significato attribuito a tale espressione dalla stessa Corte.
A sostegno delle proprie conclusioni il governo richiama altresì ulteriori argomenti, molti dei quali ripresi dalla giurisprudenza della Corte di giustizia,[4] tra i quali: i) la necessità che la decisione “definitiva” riguardi il “merito” del procedimento, ii) la circostanza che essa sia emanata da un giudice e non da un pubblico ministero, nonché iii) la peculiarità che, ai sensi del diritto interno rumeno, la riapertura del procedimento penale non viene limitata a circostanze eccezionali, né subordinata alla scoperta di nuove prove, potendo essere ordinata dal procuratore di grado gerarchicamente superiore ogniqualvolta egli giunga a ritenere che il primo procedimento sia stato archiviato sulla base di motivi infondati in fatto o in diritto (par. 75).
In ogni caso, secondo il governo, la riapertura del procedimento poteva ritenersi legittima anche ai sensi del par. 2 dell’art. 4 prot. 7 della Cedu, essendo giustificata da un “vizio fondamentale nella procedura antecedente idoneo a condizionare l’esito del caso”.
6. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dal ricorrente, per contro, i due procedimenti avviati dai due diversi uffici della procura non potevano considerarsi un’unica procedura “integrata” da due procedimenti complementari, e ciò sulla base dei principi enucleati dalla Grande Camera nel caso A. & B. c. Norvegia.[5] Invero, ad avviso del ricorrente, i due procedimenti non avevano perseguito scopi sociali diversi, avevano avuto ad oggetto gli stessi fatti puniti dalla medesima norma di legge, le prove in essi utilizzate erano state le medesime, e vi era stato un considerevole periodo di tempo tra la conclusione del primo procedimento e l’avvio del secondo.
Quanto alla possibilità di attribuire valore di “decisione definitiva” al primo dei provvedimenti della procura, il ricorrente ritiene, a sostegno delle proprie conclusioni, che la sanzione amministrativa inflitta era divenuta esecutiva alla scadenza del termine di 20 giorni entro il quale lo stesso avrebbe potuto contestare il provvedimento; il fatto, poi, che l’ordinamento rumeno conferisse alla procura di rango superiore il potere di “ri-avviare” il procedimento penale non costituiva un rimedio di impugnazione, nemmeno “straordinario”, ma un vero e proprio potere di riapertura del caso, la cui legittimità doveva essere valutata ai sensi del par. 2 dell’art. 4 del Prot. 7 della Cedu. Ed è proprio ai sensi di tale disposizione che la riapertura doveva comunque considerarsi contraria alla Convenzione, posto che essa si basava esclusivamente su una diversa valutazione delle circostanze relative alla commissione del reato e all’adeguatezza della sanzione inflitta e non sulla constatazione di “fatti o elementi nuovi”, né sulla sussistenza di infondati motivi in fatto o in diritto alla base della precedente decisione idonei ad integrare un “vizio fondamentale nella procedura antecedente”, che “avrebbero potuto condizionare l’esito del caso”.
7. La Corte, nel fornire le proprie valutazioni circa l’asserita violazione dell’art. 4 del Prot. 7 della Cedu, si sofferma ad esaminare dettagliatamente i due nodi problematici sollevati dalle parti in causa.
In primo luogo, ritiene imprescindibile accertare se tra i due procedimenti vi sia stata una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tale da poter considerare i due distinti procedimenti come parte di un unico sistema punitivo “integrato” apprestato dall’ordinamento contro l’illecito commesso, in quanto la verifica della sussistenza di un’unica procedura data dalla combinazione di più procedimenti renderebbe priva di rilevanza l’ulteriore questione concernente il significato da attribuire al concetto di “decisione definitiva”. Sul punto, i giudici europei, richiamando i principi espressi in A. & B. c. Norvegia, arrivano ad escludere la riconducibilità dei due procedimenti ad un’unica procedura “integrata”, data dalla “combinazione” degli stessi, compatibile con la Convenzione; e ciò in quanto: i) la disposizione di legge violata risultava la medesima in entrambi i procedimenti; ii) le sanzioni inflitte al ricorrente risultavano entrambe finalizzate a dissuadere il reo dalla commissione di condotte pericolose per la sicurezza stradale; iii) nei due procedimenti erano state utilizzate le stesse prove; iv) le sanzioni inflitte non erano tra loro coordinate, presupponendo la prima sanzione amministrativa una valutazione di “non gravità” dei fatti, opposta rispetto a quella alla base della pena irrogata all’esito del secondo procedimento; v) da un punto di vista cronologico, peraltro, i due procedimenti si erano svolti uno di seguito all’altro.
Successivamente, al fine di determinare se nella fattispecie in esame vi fosse stata una duplicazione di procedimenti (bis), la Corte ritiene opportuno prendere posizione sulla riconducibilità del primo provvedimento della procura nell’ambito delle decisioni di “condanna o assoluzione”, posto che la violazione del principio del ne bis in idem si concretizza solo ove venga avviato un secondo procedimento nei confronti di soggetti che per gli stessi fatti siano stati già destinatari di detti provvedimenti in via definitiva.
Su tale questione controversa si scontrano le due diverse tesi delle parti in causa: infatti, mentre per il ricorrente il provvedimento di archiviazione del primo procedimento penale doveva essere equiparato ad una vera e propria “sentenza di condanna” – conclusosi, peraltro, con l’irrogazione di una sanzione amministrativa – per il governo siffatto provvedimento aveva semplicemente comportato l’interruzione del primo procedimento da parte della procura.
8. Per rispondere al quesito giuridico controverso, la Grande Camera considera utile esaminare due questioni preliminari: a) la necessità dell’intervento di un organo giudiziario (inteso come giudice terzo e imparziale) affinché un provvedimento possa assurgere a “decisione”; b) il significato delle nozioni di “assoluzione” e “condanna”.
Quanto alla necessità che l’assoluzione o la condanna siano l’esito dello svolgimento di un vero e proprio procedimento penale di carattere giurisdizionale (innanzi ad un giudice terzo e imparziale), ad avviso della Corte, ciò che realmente conta è che la decisione conclusiva venga presa da un organo che partecipi all’amministrazione della giustizia nell’ordinamento nazionale di riferimento e che quest’ultimo sia competente, ai sensi del diritto interno, ad accertare ed eventualmente punire il comportamento illecito contestato ad un determinato soggetto. A supporto di questa interpretazione, viene richiamato l’approccio adottato dalla stessa Corte per valutare se i provvedimenti emanati all’esito di procedimenti qualificati come “amministrativi” dal diritto nazionale possano essere ritenuti idonei a produrre effetti sostanzialmente “penali”, nel significato “autonomo” che tale termine assume nel contesto convenzionale. Alla stregua di tali argomenti, la Grande Camera esclude la necessità dell’intervento dell’organo giudiziario affinché un provvedimento possa assurgere a vera e propria “decisione”.
Quanto all’ulteriore questione concernente il significato dei termini “assolto” e “condannato”, la Corte coglie l’occasione per chiarire che tali espressioni implicano un accertamento della responsabilità penale dell’imputato sulla base di prove che siano idonee a motivare nel “merito” la decisione adottata e la fondatezza o meno della contestazione mossa. Tale situazione ricorre, ad esempio, allorché l’autorità abbia irrogato una sanzione (sostanzialmente) penale nei confronti dell’autore dell’illecito, in quanto ciò presuppone, di norma, un accertamento della liceità della condotta contestata alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.
Ciò chiarito e passando all’esame del caso di specie, la Corte ritiene quindi che il provvedimento della procura emanato all’esito del primo procedimento penale non possa essere considerato un mero ordine di archiviazione del procedimento, bensì una vera e propria decisione di “condanna”, posto che, ai sensi del diritto interno, è pacifico che la procura rumena: i) partecipa in generale all’amministrazione della giustizia penale nell’ordinamento rumeno; ii) nel caso in questione, era certamente competente ad indagare sulla liceità della condotta contestata; iii) ha applicato le pertinenti norme di diritto sostanziale dell’ordinamento giuridico interno; iv) ha effettuato le proprie valutazioni sulla base delle prove raccolte, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto; v) ha inflitto, infine, una sanzione di carattere punitivo con finalità dissuasive.
Nel chiarire la natura “definitiva” di tale provvedimento, come già anticipato, i giudici europei individuano in modo del tutto “autonomo” il significato da attribuire a tale espressione, richiamando in particolare i criteri stabiliti nella relazione esplicativa al Prot. 7 della Cedu, che ritiene tale una decisione solo dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari di impugnazione o la scadenza dei termini previsti per la loro attivazione dal diritto interno senza che i soggetti legittimati si siano avvalsi degli stessi.
È bene evidenziare che, ai sensi della legislazione rumena, il provvedimento di archiviazione del primo procedimento penale da parte del procuratore non avrebbe potuto costituire una res iudicata, essendo tale concetto riferibile, ai sensi del diritto interno, alle sole decisioni giudiziarie, ed essendo, peraltro, siffatto provvedimento soggetto a revisione da parte della procura gerarchicamente superiore senza rigorosi limiti temporali e sostanziali.
I giudici della Grande Camera, tuttavia, sulla base degli argomenti richiamati, arrivano invece a sancirne la valenza di “decisione definitiva”, ritenendo che il provvedimento di archiviazione in questione fosse divenuto esecutivo al momento della scadenza del termine di 20 giorni conferito alla parte interessata per presentare ricorso (ai sensi dell’art. 2491 CCP). Tale strumento di contestazione viene quindi equiparato dalla Corte ad un vero e proprio “rimedio ordinario” da prendere in considerazione per determinare la portata “definitiva” della decisione; diversamente, il “rimedio” messo a disposizione della procura di grado gerarchicamente superiore volto alla riapertura del procedimento (artt. 270 e 273 CCP), ad avviso della Corte, non poteva invece essere valutato in modo analogo, attesa la situazione di incertezza giuridica cui esso avrebbe dato luogo, non regolando l’ordinamento rumeno con sufficiente chiarezza le modalità e i termini per avvalersi dello stesso.
La Corte, conseguentemente, ritiene sussistente anche il terzo requisito dato dalla “duplicazione dei procedimenti” e quindi integrato un bis in idem contrario all’art. 4 Prot. 7 della Cedu. A nulla vale, ad avviso dei giudici di Strasburgo, la circostanza per cui la sanzione amministrativa per prima inflitta nei confronti del condannato fosse stata successivamente annullata con l’ordine di rimborso degli importi già versati dal ricorrente; invero, ai fini della violazione del principio tutelato dalla menzionata disposizione, ciò che rileva è l’avvio di un procedimento penale per gli stessi fatti oggetto di un procedimento (avente la stessa natura “penale” ai sensi della Convenzione) già conclusosi con decisione definitiva, non anche l’irrogazione di una doppia sanzione.
9. I giudici europei, peraltro, nella sentenza in questione, si preoccupano non soltanto di assicurare il rispetto del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 Prot. 7 della Cedu, sottoponendo ad un minuzioso esame ciascuno degli elementi necessari ai fini della sua integrazione, ma procedono anche ad un’attenta analisi delle cause che consentono una riapertura del procedimento penale ai sensi del par. 2 della disposizione richiamata.
La Corte, infatti, nel caso di specie, si premura di valutare la legittimità del secondo dei procedimenti avviati dalla procura anche sulla scorta dell’eccezione di cui al par. 2 dell’art. 4 Prot. 7 della Cedu, che consente la riapertura di un procedimento penale avente ad oggetto le medesime contestazioni nei confronti di un determinato soggetto solo “se dei fatti nuovi o degli elementi nuovi o un vizio fondamentale nella procedura antecedente avrebbero potuto condizionare l’esito del caso”.
Poiché nel caso sottoposto alla sua attenzione l’apertura del procedimento non era risultata giustificata da nessuno dei motivi che, ai sensi della Convenzione, ne avrebbero consentito la riapertura – essendosi la procura di grado gerarchicamente superiore limitata a svolgere una nuova valutazione della gravità delle accuse e dell’adeguatezza della sanzione inflitta senza per nulla richiamare la necessità di porre rimedio alla violazione di una qualsivoglia norma procedurale o ad una grave omissione nelle indagini condotte dalla procura nel corso del primo procedimento – la Corte ritiene che l’avvio del secondo procedimento fosse comunque in contrasto anche con le rigorose condizioni imposte dal par. 2 dell’art. 4 Prot. 7 della Cedu per la riapertura del procedimento penale.
10. Conclusivamente, può evidenziarsi come, nella pronuncia in questione, la Corte, oltre a fornire una nozione autonoma di “decisione definitiva” sganciata dalle definizioni dei singoli ordinamenti giuridici nazionali, abbia provveduto ad applicare rigorosamente i principi sanciti in A. & B. contro Norvegia, arrivando ad escludere quella “sufficiently close connection in substance and in time” tra procedimenti che aveva portato la stessa Corte, in alcune precedenti pronunce, a ridimensionare la portata del principio del ne bis in idem e ad ammettere che una risposta sanzionatoria complessivamente irrogata nell’ambito di un sistema punitivo “integrato” da distinte procedure potesse ritenersi comunque compatibile con i principi della Convenzione.
Peraltro, non pare superfluo sottolineare che – nonostante la Corte riconosca espressamente il potere dei singoli Stati di definire ciò che, ai sensi della legislazione interna, possa considerarsi “decisione definitiva” – la sentenza in esame costituisce l’ennesima occasione per ribadire l’importanza della funzione di “controllo” svolta dai giudici di Strasburgo, in assenza della quale l’applicazione della Convenzione potrebbe risultare compromessa, di fatto consentendo agli Stati di aggirare le garanzie in essa sancite, tra cui quella in esame.
[1] Si vedano, tra le più recenti, C. Edu, Sez. V, 6 giugno 2019, Nodet c. Francia, con nota di M. Scoletta, Il ne bis in idem “preso sul serio”: la Corte Edu sulla illegittimità del doppio binario francese in materia di abusi di mercato (e i possibili riflessi nell’ordinamento italiano), in Dir. pen. cont., 17 giugno 2019; C. Edu, sez. II, 7 maggio 2019, Bjarni Armannsson c. Islanda, con nota di A. Galluccio, Non solo proporzione della pena: la Corte Edu ancora sul bis in idem, in Dir. pen. cont., 9 maggio 2019.
[2] Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 10.03.2005, Miraglia, C-469/03; Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 05.06.2014, M, C-398/12.
[3] Il tribunale distrettuale rumeno aveva ritenuto sufficiente una pena più breve del minimo legale in considerazione delle circostanze del caso di specie.
[4] Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 26.06.2016, Kassowski, C - 486/014; Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 22.12.2008, Turansky, C - 491/07.
[5] C.edu, G.C., 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, con commento di F. Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in Dir. pen. cont., 18 novembre 2016.