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13 Febbraio 2020


Morti da amianto ed effetto acceleratore: la Cassazione interviene (tra l’altro) sui criteri di selezione della “scienza nuova”

Cass., Sez. IV, sent. 13 giugno 2019 (dep. 12 novembre 2019), n. 45935, Pres. Izzo, est. Dovere, ric. Spallanzani



1. Pubblichiamo una recente sentenza con la quale la Quarta Sezione della Corte di Cassazione è tornata a confrontarsi, tra l’altro, con il delicato tema dei criteri di selezione del sapere scientifico attendibile, nel quadro di una vicenda relativa all’annosa questione dell’accertamento del nesso causale tra esposizione professionale ad amianto e morte per mesotelioma pleurico. Nell’occasione la Corte si è soffermata sul peculiare profilo dell’ingresso nel processo penale di teorie scientifiche nuove, sulle quali cioè la comunità scientifica non ha ancora avuto occasione di esprimersi compiutamente, aggiungendo così nuovi importanti tasselli al dibattito – tuttora aperto – in ordine al ruolo che il giudice, quando veste i panni del c.d. peritus peritorum, è chiamato ad attribuire al criterio selettivo del “grado di consenso della comunità scientifica di riferimento”.

 

2. Procedendo con ordine, giova anzitutto riassumere per sommi capi la vicenda processuale in esame. Essa trae origini dalle imputazioni per omicidio colposo (art. 589 c.p.) e omissione colposa di cautele antinfortunistiche aggravata (artt. 449, 437, co. 2 c.p.) elevate dalla Procura della Repubblica di Taranto nei confronti di trenta soggetti che, nella seconda metà del secolo scorso, avevano ricoperto incarichi di datori di lavoro e dirigenti presso l’acciaieria Italsider, poi Ilva, dove l’amianto non veniva utilizzato come materia prima (come invece negli stessi anni accadeva, ad esempio, presso gli stabilimenti Eternit), ma era comunque presente quale componente della strumentazione utilizzata per la lavorazione dell’acciaio.

Le condanne emesse in primo grado nei confronti di ventisette imputati venivano parzialmente riformate dalla Corte d’Appello di Lecce, che pronunciava sentenza di proscioglimento nei confronti di ventiquattro di essi (per insussistenza del fatto, per non avere commesso il fatto, per morte del reo e per prescrizione) e confermava invece le condanne nei confronti di tre imputati rispetto alla morte di undici lavoratori.

La Cassazione, pronunciandosi sui ricorsi degli imputati condannati (uno dei quali peraltro successivamente deceduto) e della stessa Procura, è intervenuta su tre principali distinti profili: i) ha annullato le condanne per omicidio colposo, con rinvio per un nuovo giudizio alla Corte d’Appello, riscontrando difetti motivazionali in punto di accertamento del nesso di causalità; ii) ha respinto le censure difensive incentrate sulla non prevedibilità, ai tempi delle condotte, dell’indirizzo giurisprudenziale che interpreta estensivamente l’aggravante della violazione di norme antinfortunistiche di cui all’art. 589 co. 2 c.p., ricomprendendovi non solo gli infortuni in senso stretto ma anche le malattie professionali; iii) ha confermato le statuizioni in punto di estinzione per prescrizione del reato ex art. 437 co. 2 c.p., soffermandosi in particolare sull’individuazione del dies a quo del relativo termine.

Prima di soffermarci sull’esame delle motivazioni rese dai giudici di legittimità, riportiamo a beneficio del lettore i principi di diritto che la Suprema Corte ha declinato a sostegno delle proprie statuizioni:

i) «In tema dei accertamento della causalità, ove vi sia necessità di fare ricorso al sapere scientifico, non è consentito l’utilizzo di una teoria esplicativa originale, mai prima discussa dalla comunità degli esperti, a meno che ciascuna delle assunzioni a base della teoria non sia verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo della attendibilità scientifica di essa e dell’affidabilità dell’esperto».

ii) «Con riferimento alle circostanze aggravanti rispettivamente previste dagli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen., ai fini della verifica della prevedibilità al tempo della condotta della illiceità della stessa in ragione della esistenza di una disposizione di legge che rendeva l’atto punibile (art. 7 CEDU), la locuzione “norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro”, in essa leggibile, va intesa come riferentesi anche alle norme in materia di igiene del lavoro e non assume rilievo, al riguardo, la nozione di infortunio valevole ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 437, co. 2 cod. pen., nella definizione datane dalla giurisprudenza del tempo».

iii) «In materia di determinazione del dies a quo del termine di prescrizione del reato di cui all’art. 437, co. 2 cod. pen., ove l’evento aggravatore venga accertato essere l’infortunio, sub specie di malattia-infortunio, e segnatamente il mesotelioma asbesto correlato, tale dies a quo coincide con un tempo prossimo all’inizio dell’esposizione all’agente nocivo; nel caso di esposizione durevole, deve farsi riferimento al più anteriore tra il tempo della cessazione dell’esposizione della persona offesa all’agente nocivo e il tempo della cessazione dell’imputato dalla posizione gestoria».

 

3. Cominciando dalla prima delle questioni nodali oggetto della pronuncia di legittimità, il sindacato dalla Cassazione verte in particolare sulle motivazioni rese dai giudici di merito in punto di accertamento del cd. effetto acceleratore della cancerogenesi a fronte di prolungata esposizione ad amianto e parallela successione di garanti nell’organigramma aziendale.

I tre imputati condannati in appello, infatti, avevano ricoperto incarichi attributivi di posizioni di garanzia in materia di salute sul lavoro (direttore e vicedirettore di stabilimento) per pochi anni ciascuno (rispettivamente, dal 1978 al 1982, dal 1982 al 1984 e dal 1983 a metà del 1987); mentre i lavoratori colpiti da mesotelioma erano stati esposti all’amianto per archi temporali più estesi, cominciati prima e terminati dopo l’assunzione della carica da parte degli imputati. Il cuore problematico dell’accertamento causale non riguardava, dunque, l’idoneità dell’amianto a causare la patologia mortale poi effettivamente manifestatasi (come riporta la Cassazione, infatti, la Corte d’Appello dava conto del dato scientifico secondo cui l’80% dei mesoteliomi sono causati dall’amianto, e nel caso di specie non vi erano evidenze probatorie di esposizione ad una delle cause alternative che dànno vita al restante 20% dei casi, quali l’erionite, la fluoro-edenite, le radiazioni ionizzanti); bensì, come spesso accade in questo settore in ragione della lunghissima latenza del mesotelioma (dell’ordine di diversi decenni), l’attribuzione (con)causale di ciascun decesso all’esposizione avvenuta durante il segmento temporale in cui ciascun imputato aveva rivestito la carica.

Al riguardo, la Corte d’Appello riteneva che la prova della causalità fosse stata raggiunta sulla scorta della cd. teoria dell’effetto acceleratore. Secondo i giudici del gravame, infatti, le conoscenze scientifiche introdotte nel processo – in particolare dal perito del giudice – consentivano di ritenere esistente una legge scientifica di copertura in base alla quale la protrazione dell’esposizione ad amianto dopo l’inizio del processo di cancerogenesi è in grado di accelerarne l’evoluzione verso la malattia conclamata e quindi verso la morte: ciò in quanto, da un lato, all’aumentare dell’esposizione corrisponde un aumento del numero delle morti nella popolazione esposta; dall’altro lato, tale aumento dei decessi riflette non solo l’anticipazione del tempo con cui la popolazione raggiunge un determinato livello di incidenza, bensì anche l’anticipazione del tempo di verificazione di ogni singolo caso di malattia che si verifica all’interno della popolazione stessa. A sostegno di tale ricostruzione venivano richiamate le conclusioni della Terza Consensus Conference sul Mesotelioma del 2015; il meccanismo della clearance, ossia la capacità dell’organismo di liberarsi dei corpi estranei tossici, la cui efficacia è annullata dalla continuità dell’esposizione; la descrizione del meccanismo attraverso il quale l’amianto danneggia progressivamente il DNA delle cellule bersaglio.

Dopo avere rilevato che tale legge di copertura ha natura probabilistica, la Corte d’Appello si soffermava sulla successiva e controversa questione relativa all’accertamento della causalità individuale. Sul punto, sempre affidandosi alla ricostruzione proposta dal perito, la pronuncia riteneva scientificamente corretto affermare che tutte le esposizioni precedenti di almeno venti anni il momento della diagnosi sono certamente rilevanti sul piano causale; che tutte le esposizioni degli ultimi sei-dieci anni prima della diagnosi sono certamente irrilevanti; che tutte le esposizioni intermedie sono probabilmente rilevanti. Applicando tali conoscenze al caso di specie, la Corte riconosceva la sussistenza del nesso eziologico soltanto laddove, sottratti venti anni alla data della diagnosi, risultava esservi corrispondenza tra l’esposizione della vittima e la titolarità della posizione di garanzia di ciascun imputato (a titolo esemplificativo, nel riassumere i contenuti della pronuncia d’appello la Cassazione riporta il caso di un lavoratore che aveva ricevuto la diagnosi nel 1997, con conseguente cessazione delle esposizioni certamente rilevanti alla fine del 1976, e dunque difetto di causalità per le esposizioni avvenute alle dipendenze degli imputati, tutti entrati in carica in un momento successivo). 

 

4. Giungiamo così alla pronuncia della Cassazione, la quale, pur apprezzando lo sforzo ricostruttivo operato dalla sentenza impugnata, vi ha ravvisato «una palese violazione delle regole del ragionamento probatorio che implica un dato di conoscenza per il quale il giudice è debitore della scienza; ed altresì il fraintendimento in ordine al ruolo che svolge l’incertezza in questi casi» (p. 28).

In via preliminare, la Suprema Corte richiama le regole che governano l’ingresso della prova scientifica nel processo penale ed in particolare il ruolo che il giudice è chiamato ad interpretare quando veste i panni del cd. peritus peritorum (pp. 23-24). «Nei giudizi debitori del sapere esperto – ricorda la Corte – al giudice è precluso di farsi creatore della legge scientifica necessaria all’accertamento». Egli è infatti «portatore di una “legittima ignoranza” a riguardo delle conoscenze scientifiche», ragione per cui «riceve quella che risulta essere accolta dalla comunità scientifica come legge esplicativa – si dice ne sia consumatore – e non ha autorità per dare patenti di fondatezza a questa piuttosto che a quella teoria». Tanto premesso, la Corte precisa altresì che «l’acquisizione della legge che funge da criterio inferenziale non è però acritica»: non già perché il giudice possa esplorarne l’intrinseca validità, bensì perché lo stesso è chiamato a valutarne l’attendibilità, sulla base di specifici criteri che la Corte ricorda riportando testualmente il catalogo declinato dalla nota sentenza Cozzini (Cass. pen., sez. IV, 17.09.2010, dep. 13/12/2010, n.43786):

«Per valutare l'attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l'ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove». Fermo restando che «Il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle leggi scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall'apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all'indipendenza di giudizio dell'esperto».

Alla luce dei medesimi criteri, soggiunge il collegio, deve essere condotto anche il sindacato sulla correttezza logico-giuridica della motivazione di merito, nel senso che il giudice di legittimità dovrà valutare se è stato fatto corretto utilizzo di quei criteri per valutare l’attendibilità del sapere scientifico introdotto nel processo dagli esperti. Ebbene, rispetto al caso di specie la Cassazione ritiene che la Corte d’Appello, anziché sottoporre l’opinione del perito al sindacato di attendibilità testé descritto, ne abbia recepiti i contenuti in maniera sostanzialmente acritica, applicandovi apoditticamente l’etichetta della “condivisibilità” senza assumere – come invece avrebbe dovuto – «una prospettiva dialettica che si avvantaggia dell’interlocuzione antagonistica degli esperti delle parti» (p. 28). Ecco dunque il primo difetto riscontrato dalla pronuncia in esame nel tessuto argomentativo che sostiene, in punto di fatto, la condanna degli imputati: l’omessa illustrazione degli argomenti in virtù dei quali le ragioni del perito sono state ritenute preferibili rispetto a quelle dei consulenti di parte, e segnatamente rispetto alla posizione dei CT degli imputati, secondo i quali non sarebbe scientificamente possibile collocare nel tempo il momento in cui la cancerogenesi risulta irreversibilmente avviata senza che ulteriori esposizioni possano determinarne l’accorciamento .

 

5. Dal riscontrato difetto di omesso vaglio di attendibilità della posizione espressa dal perito, la Corte fa discendere un seconda censura della motivazione di merito; ed è qui che il fuoco dell’attenzione si sposta sul tema – già segnalato nell’incipit del presente contributo – del sindacato del giudice sull’attendibilità di teorie scientifiche nuove, tali in quanto non ancora emerse – non solo nell’esperienza giudiziaria, ma più in radice – nel dibattito scientifico. Nel caso di specie, infatti, lo stesso perito aveva «con estrema correttezza riferito delle persistenti incertezze che connotano l’orizzonte scientifico» in punto di eziologia del mesotelioma, ed al contempo aveva proposto «un metodo ricostruttivo segnalato come personale» (p. 29).

Sul punto la Cassazione ritiene che il carattere nuovo di una generalizzazione non possa tradursi nell’automatica e radicale rinuncia alla verifica in ordine al grado di consenso che la tesi raccoglie presso la comunità scientifica, poiché così opinando «si finirebbe per contraddire il principale degli insegnamenti della sentenza Cozzini, ovvero il divieto per il giudice di farsi creatore della legge scientifica: ove non possa confidare sul giudizio della comunità scientifica il giudice è sostanzialmente privo di strumenti critici nei confronti della teoria e la assunzione di questa, in simili condizioni, equivale a far regredire la “valutazione” della prova scientifica al tempo in cui il parere del perito non era sindacabile dal giudice» (p. 30). Tuttavia, in assenza di una posizione consolidata da parte della comunità scientifica, situazione evidentemente connaturata alle ipotesi in cui si abbia a che fare con sapere scientifico nuovo, la Cassazione ritiene che il carattere non tassativo dei criteri-Cozzini, congiuntamente al carattere  gradualistico e non aritmetico del relativo test, consenta di «dare ingresso nel processo penale ad una teoria che non sia stata sottoposta al vaglio della comunità scientifica quando ciascuna delle assunzioni a base della medesima sia verificabile e sia stata verificata secondo l’insegnamento di questa Corte» (p. 30); operazione che, come già anticipato, la Corte d’Appello ha omesso di svolgere nel caso di specie. Di qui, l’enunciazione del principio di diritto già in precedenza riportato e l’annullamento con rinvio delle condanne.

 

6. Proseguendo l’esame delle censure difensive, la Cassazione si confronta con la prevedibilità, all’epoca delle condotte, dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’aggravante della violazione della normativa antinfortunistica ex art. 589 co. 2 c.p. ricomprende anche la disciplina in materia di salute sul lavoro; questione che inquadra nell’ambito di applicazione del principio di legalità-irretroattività di cui all’art. 7 CEDU, come interpretato dalla sentenza Contrada c. Italia (2015). L’argomento dei difensori faceva leva sul fatto che, da un lato, la disciplina antinfortunistiche vigente all’epoca delle condotte (DPR 547/55) era nettamente distinta da quella sull’igiene del lavoro (DPR 303/56); dall’altro lato, la volontà del legislatore di cristallizzare l’ambito di applicazione dell’aggravante in parola soltanto al primo corpus normativo emergeva anche dai lavori parlamentari. Osserva tuttavia la Cassazione che la legge n. 689 del 1981, nell’introdurre la procedibilità a querela per le lesioni colpose, ha espressamente mantenuto la procedibilità d’ufficio per i reati “commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale” (art. 590 co. 5 c.p.). Trattasi, secondo il collegio di legittimità, di un appiglio normativo che non solo conferma la portata applicativa dell’aggravante in parola (e dunque anche di quella di cui all’art. 589 c.p., formulata in maniera identica), ma che a far data dal 1981 (prima cioè che le condotte degli imputati terminassero) la rendeva altresì conoscibile ai consociati. Ad ulteriore sostegno di tale conclusione vengono inoltre richiamati precedenti giurisprudenziali dai quali la Cassazione evince come già sul finire degli anni ’70 la categoria delle norme antinfortunistiche fosse interpretata in senso estensivo, ricomprendendovi la prevenzione delle malattie professionali (p. 34).

 

7. Volgendo infine l’attenzione al ricorso della Procura generale, la Cassazione respinge la tesi secondo cui il dies a quo della prescrizione della fattispecie di cui all’art. 437, co. 2 c.p. dovrebbe essere individuato, in caso di decesso della persona offesa, in corrispondenza di quest’ultimo evento. Secondo la Corte, invece, il termine estintivo decorre dall’evento individuato dalla norma incriminatrice, ossia dall’infortunio, da declinarsi secondo la nozione giurisprudenziale di malattia-infortunio, comprensiva di tutti i processi patologici derivanti da agenti esterni connessi all’ambiente di lavoro (come appunto le fibre di amianto rispetto al mesotelioma), ma non anche dell’evento letale eventualmente derivatone. Sul punto, dunque, la Corte ritiene – richiamando anche un proprio risalente precedente (Cass. pen., sez. I, 13.12.1994, dep. 3.3.1995, n. 2181, Graniano, CED 200414) – che «con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 437 co. 2 cod. pen. il momento della consumazione coincide con l’epoca della verificazione della malattia-infortunio (o del disastro) derivante dalla condotta dell’agente descritta nel primo comma».  

Dopo avere ulteriormente ricordato, in linea con il proprio consolidato orientamento relativo alla consumazione della fattispecie di lesioni personali, che l’evento lesivo si perfeziona con l’insorgenza della patologia (ossia in presenza di una alterazione anatomica da cui deriva un significativo processo patologico ed a prescindere dai suoi eventuali successivi aggravamenti), la Corte si sforza di precisare ulteriormente tali principi alla luce delle specificità dell’eziologia del mesotelioma, pervenendo alla seguenti conclusioni: da un lato, «l’inizio dell’esposizione e quindi dell’inalazione delle fibre induce una modificazione cellulare che ben può farsi rientrare nel concetto di malattia»; dall’altro lato, «non è senza rilievo che la esposizione del lavoratore perduri nel tempo», giacché «ciò determina, facendo ancora applicazione delle premesse scientifiche ritenute acquisite dal giudice di merito, che al persistere della condotta tipica corrispondano ulteriori alterazioni di natura anatomica da cui deriva un significativo processo patologico, quindi la malattia nel senso che si è sopra rammentato» (p. 40).

Si giunge così al principio di diritto già in precedenza riportato, e conforme alle statuizioni della Corte d’Appello (sul punto dunque confermate), secondo il quale, ai fini del dies a quo della prescrizione del reato ex art. 437 co. 2 c.p., laddove l’evento sia consistito in una malattia-infortuno e la condotta in una esposizione durevole «deve farsi riferimento al più anteriore tra il tempo della cessazione dell’esposizione della persona offesa all’agente nocivo e il tempo della cessazione dell’imputato dalla posizione gestoria» (ibidem).

 

* * *

 

8. La pronuncia appena illustrata si presenta densa di questioni e statuizioni meritevoli di attenzione, che in questa sede ci limiteremo per lo più a toccare, soffermandoci maggiormente nel dettaglio su quelle relative alla causalità.

Cominciando dalle statuizioni in punto di prevedibilità-conoscibilità dell’ambito di applicazione dell’aggravante antinfortunistica ex art. 589 c.p., con conseguente esclusione della violazione dell’art. 7 CEDU, ci sembra che esse non appaiono immediatamente estendibili all’analogo problema sollevato dall’ambito di applicazione della fattispecie, pure rilevante nel caso di specie, di cui all’art. 437 co. 2 (problema sul quale, peraltro, non ci è chiaro se i difensori avessero formulato uno specifico motivo di ricorso). Invero, l’orientamento giurisprudenziale che interpreta la nozione di “infortunio” come comprensiva delle c.d. malattie-infortunio (operazione ermeneutica a sua volta non scevra di profili di criticità, come a più riprese rilevato dalla dottrina maggioritaria[1]) è affiorato per la prima volta – a quanto ci risulta – in una vicenda di intossicazione da paraffina conclusasi con una pronuncia del 1990  (Cass. pen., sez. I, 9.7.1990, dep. 14.9.1990, n. 12367, Chili, CED 185325), dunque successiva alle condotte rimproverate agli imputati nel caso in esame. La declaratoria di prescrizione intervenuta sul punto riduce forse l’interesse pratico della questione (sebbene l’assoluzione nel merito sarebbe stata evidentemente più favorevole), ma non il suo rilievo giuridico di respiro generale.

 

9. Un altro interessante tema che affiora dalla motivazione – sul quale a nostro avviso il collegio ha mantenuto una certa ambiguità – riguarda la qualificazione giuridica del capoverso dell’art. 437 c.p. a titolo di fattispecie autonoma ovvero di circostanza aggravante: mentre infatti l’individuata coincidenza tra la verificazione della malattia-infortunio e la “consumazione” del reato depone univocamente a favore della prima soluzione (natura autonoma); a sostegno della seconda opzione (natura circostanziale) sembrerebbero condurre tanto l’esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale in tal senso (cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 13.05.2016, dep. 12.12.2016, n. 52511, CED 269572), il cui eventuale superamento avrebbe forse richiesto una più estesa motivazione, quanto (e congiuntamente) l’espresso richiamo operato dal collegio al precedente di cui alla sentenza Eternit (Cass. pen., sez. 1, 19.11.2014, dep. 23.2.2015, n. 7941, CED 262789), la quale aveva qualificato come circostanza aggravante il capoverso di cui all’art. 434 c.p., pur facendo comunque decorrere da esso la prescrizione.

 

10. Proprio quest’ultimo riferimento, peraltro, sdrammatizza il problema della natura giuridica del capoverso dell’art. 437 c.p. (quanto meno ai fini del computo della prescrizione), e consente al contempo di spostare l’attenzione sulla questione della nozione di malattia. Tralasciando in questa sede il già menzionato problema dell’analogia in malam partem nascosta dietro la nozione di malattia-infortunio, pare interessante evidenziare come le specificità dell’eziologia del mesotelioma siano state valorizzate dalla Cassazione ai fini dell’individuazione del momento in cui il processo morboso viene in essere. La Corte ha infatti ritenuto che le acquisizioni consegnatele dal giudice di merito – qui evidentemente con argomentazione scevra da vizi logici – in punto di rilevanza eziologica del perdurare dell’esposizione nel tempo, consentissero di spostare in avanti il momento consumativo del reato (o comunque il momento del perfezionamento dell’evento lesivo). Il passaggio è delicato, poiché si colloca all’interno di una pronuncia che ha contestualmente annullato le condanne per omicidio colposo proprio per difetto motivazionale in punto di accertamento dell’efficacia causale delle esposizioni successive alle prime. Eppure una coerenza di fondo può essere colta se si tengono opportunamente distinti i due profili in apparente contrasto: altro, infatti, è affermare che tutte le esposizioni hanno avuto efficacia concausale rispetto alla verificazione dell’evento lesivo finale (accelerando la cancerogenesi ed anticipando, dunque, la morte); altro, invece, è affermare che tutte le esposizioni hanno determinato nuove alterazioni anatomiche (nel senso che le fibre di amianto via via inalate hanno a più riprese colpito le cellule bersaglio, danneggiandone il DNA), ciascuna delle quali rientra nella nozione di "significativo processo patologico". Questa seconda affermazione, infatti, non implica che tutti quei processi patologici determino anche un’accelerazione della cancerogenesi (fermo restando che ben potrebbe essere questo il caso: sul punto dovranno pronunciarsi i giudici del rinvio), sicché non appare logicamente incompatibile con le ricordate statuizioni in punto di causalità.

 

11. I passaggi di maggiore interesse della pronuncia sono peraltro racchiusi, a nostro avviso, nelle pagine dedicate al sindacato sulla motivazione di merito in punto di accertamento della causalità, segnatamente nella parte in cui affrontano la spinosa questione della prova scientifica “nuova”. Invero, a proposito dei criteri di selezione del sapere scientifico attendibile, alcune recenti pronunce di legittimità, pur dichiarando di accogliere in blocco il catalogo declinato dalla sentenza Cozzini[2], hanno al contempo attribuito un ruolo centrale, sostanzialmente dirimente, ad uno di essi, ossia il “grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica”[3]. Tale posizione, se da un lato appare giustificata dal suo forte ed evidente aggancio con il principio secondo cui il giudice di merito è consumatore (e non creatore) della legge di copertura[4], dall’altro lato appare di non agevole coordinamento con l’utilizzo di teorie esplicative rispetto alle quali la comunità di riferimento… non si sia ancora espressa. La questione in gioco, si badi, non riguarda l’ammissibilità della prova scientifica nuova, già risolta in senso positivo dalla dottrina processualistica, ancorché attraverso itinerari argomentativi non sempre coincidenti[5]; bensì la successiva valutazione, da parte del giudice, in ordine all’attendibilità di teorie scientifiche nuove o comunque tendenti a risolvere in maniera innovativa una questione controversa. Sul punto la sentenza in commento sembra invero offrire una soluzione equilibrata, nella misura in cui non rinuncia ad avvalersi dei criteri Cozzini, ma si sforza di declinarli in maniera tale da renderli per così dire compatibili con le peculiarità del compito che in questi casi il giudice è chiamato a svolgere. Infatti, laddove la pronuncia afferma, come già riportato, che ciascuna delle assunzioni a base della teoria nuova deve essere verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo di attendibilità scientifica e di affidabilità dell'esperto, essa sta sostanzialmente ribadendo la necessità di applicare tutti i criteri del test-Cozzini (incluso, ci pare, il grado di consenso della comunità di riferimento), alle premesse scientifiche che sorreggono le conclusioni offerte dalla teoria nuova. Si tratta di una posizione che si sforza di individuare un punto di equilibrio tra due fondamentali esigenze: quella di non chiudere aprioristicamente la porta a teorie esplicative originali, da un lato; e quella di non affidare le sorti del giudizio di penale, in punto di accertamento del fatto, a proposte ricostruttive fantasiose o comunque non ancora sufficientemente mature.

Con riferimento al caso di specie, i principi appena richiamati sembrano agganciarsi testualmente ad un passaggio della perizia, riportato dalla pronuncia, in cui si fa espresso riferimento ad almeno alcune delle assunzioni alla base della teoria esplicativa proposta (quella cioè secondo cui, come visto, soltanto le esposizioni precedenti di almeno 20 anni alla diagnosi sarebbero certamente rilevanti sul piano causale, mentre quelle avvenute tra i 10 ed i 20 anni prima lo sarebbero solo probabilmente): «assumendo che 5 cicli di divisione cellulare intercorrano tra diagnosi e decesso, ogni ciclo della fase clinica durerebbe al massimo 60 giorni nel 50% dei casi e al massimo 146 giorni nell’80% dei casi. Assumendo inoltre che la velocità di duplicazione sia rimasta costante, la corrispondente durata della fase pre-clinica – cioè della fase in cui le cellule iniziano a replicarli in modo autonomo e le ulteriori esposizioni sono irrilevanti – si protrarrebbe al massimo fino a 5,75 anni nel 50% dei casi. Nel restante 50% durerebbe almeno 5,75 anni, ma comunque l’80% di tutti i casi arriverebbe alla diagnosi entro 14 anni e solo nel 20% occorrerebbe un tempo maggiore») (p. 28). È dunque rispetto (o anche rispetto) a tali passaggi che i giudici del rinvio saranno chiamati ad effettuare una nuova valutazione di attendibilità.

Le conclusioni raggiunte dalla Corte dovrebbero peraltro essere accompagnate, a nostro avviso, da una più esplicita presa di posizione a favore della ri-espansione (in termini di peso e importanza), nei casi di prova scientifica nuova (o controversa), dei criteri del test-Cozzini diversi dal grado di consenso della comunità di riferimento. Invero, come abbiamo di recente sostenuto in altra sede, alla quale ci permettiamo qui di rinviare[6], mentre appare condivisibile la scelta di assegnare un peso sostanzialmente decisivo al criterio del consenso laddove quest’ultimo sia largamente sussistente o viceversa assente, in tutti i casi intermedi nei quali la comunità scientifica risulta di fatto spaccata l’interprete si trova dinanzi ad un bivio: o concludere che proprio tale spaccatura è fonte di quel ragionevole dubbio che conduce inesorabilmente all’assoluzione (ma ciò significherebbe in sostanza eleggere il grado di consenso ad unico criterio di selezione, aprendo così un contrasto giurisprudenziale che, verosimilmente, richiederebbe l’intervento delle Sezioni Unite[7]); oppure, preferibilmente, addentrarsi in un più delicato vaglio di attendibilità, che tuttavia richiederebbe per definizione l’ampio utilizzo degli altri indici di attendibilità.

Un compito, quest’ultimo, senz’altro difficile, ma tutto sommato non insormontabile per almeno due ordini di ragioni, che in questa sede possiamo soltanto limitarci a menzionare: da un lato, per quanto riguarda i criteri di ordine “soggettivo” (valutazione della qualificazione professionale dell’esperto, della sua imparzialità e dell’integrità delle sue intenzioni), si tratta di verifiche nel cui svolgimento il giudice di merito è tutto sommato a proprio agio, potendo essere effettuate sulla base dei titoli e dei precedenti incarichi del consulente, nonché alla luce di indici di attendibilità non dissimili da quelli che assistono la valutazione delle testimonianze non esperte; dall’altro lato, per quanto riguarda i criteri di ordine oggettivo (attinenti cioè al piano del metodo scientifico), il giudice potrà (anzi dovrà, secondo l’orientamento preferibile[8]) farsi assistere da un perito, eventualmente nominato dopo che la questione problematica sia emersa in tutta la sua portata, nel contraddittorio delle parti. Questa soluzione, oltretutto, appare auspicabile alla luce della considerazione che il perito è l’unico tra gli esperti che intervengono nel procedimento ad essere gravato dall’obbligo, penalmente sanzionato, di fare conoscere la verità (art. 226 co. 1 c.p.p., 373 c.p.). Invero, contrariamente a quanto la prassi giudiziaria sembra suggerire quando impone la lettura della dichiarazione di impegno ex art. 497 co. 2 c.p.p. anche ai consulenti della parti, questi ultimi non sono de jure condito gravati dall’obbligo in parola, circostanza della quale non si può non tenere conto allorché si valuta l’attendibilità del contributo conoscitivo da essi offerto[9]. Fermo restando che rispetto alle valutazioni tecniche in senso stretto non è possibile formulare giudizi di verità o falsità, resta il fatto che ai fini di accedere ad un quadro il più possibile esaustivo ed imparziale delle conoscenze disponibili il giudice non potrà che affidarsi al parere di un esperto terzo. Ciò non significa, evidentemente, che la posizione espressa da quest’ultimo sarà necessariamente quella corretta, destinata a prevalere sulle altre senza essere a sua volta sottoposta al vaglio di attendibilità (lo ha ribadito, da ultimo, proprio la sentenza in commento); al contempo, è davvero difficile pensare che, senza questo ulteriore contributo conoscitivo, un professionista del diritto come il giudice riesca efficacemente a districarsi nel compito di distribuire ragioni e torti tra scienziati reclutati (e remunerati) da parti processuali opposte.

Emblematico di questa difficoltà è il terreno del cd. effetto acceleratore rispetto al mesotelioma, che pone il giudice di fronte ad una serie di questioni sulle quali i consulenti delle parti hanno posizioni diametralmente opposte. Fermo restando, infatti, il punto di partenza comune secondo cui l’aumento dell’esposizione all’amianto determina un aumento dell’incidenza della malattia nella popolazione osservata, le strade si separano in tutti i passaggi logico-scientifici successivi: non è chiaro se dall’aumento dell’incidenza si possa inferire che anche una reale (e non solo matematica) anticipazione dei casi a livello di popolazione; non è chiaro se quest’ultima rifletta un’anticipazione predicabile anche rispetto ai singoli ammalati, sub specie appunto di accelerazione della cancerogenesi; non è chiaro, infine, se sia consentito passare dalla causalità generale a quella individuale delimitando, sotto il profilo cronologico, una fase della cancerogenesi all’interno della quale tutte le esposizioni sono certamente dotate di efficacia causale (c.d. fase di induzione). Quest’ultimo passaggio, in particolare, rappresenta una sorta di caccia alla legge scientifica universale all’interno di una generalizzazione probabilistica; uno sforzo senz’altro interessante dal punto di vista epistemologico, ma che tuttavia ha finora restituito risultati variabili, incerti, e in definitiva inappaganti dal punto di vista dell’irrinunciabile standard probatorio della condanna in sede penale.

 

 

[1] Cfr. ex multis, S. Corbetta, Delitti contro l’incolumità pubblica - Delitti di comune pericolo mediante violenza, in G. Marinucci-E. Dolcini (diretto da), Trattato di diritto penale. Parte Speciale, II, Cedam, 2003, p. 751.

[2] Si tratta dei criteri di ordine oggettivo (relativi cioè alla correttezza metodologica della teoria) e soggettivo (relativi cioè alla professionalità ed imparzialità dell’esperto che interviene nel processo) già in precedenza richiamati citando il noto passaggio della sentenza Cozzini, testualmente riportato nella pronuncia in commento.

[3] Per alcuni recenti arresti in tal senso cfr. Cass. pen., sez. IV, 10.11.2017, dep. 7.12.2017, n. 55005, Az. Franco Tosi, p. 47-49; Cass. pen., sez. IV, 14.11.2017, dep. 16.4.2018), n. 16715, Petrolchimico Mantova, p. 70, 71, 78; Cass. pen., sez. IV, 15.5.2018, dep. 12.10.2018, n. 46392, Enel centrale termoelettrica Turbigo, p. 26, 30 (le pagine si riferiscono ai testi in originale).

[4] F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale: il nesso di condizionamento fra azione ed evento, Giuffrè, 1975, pp. 77-88, 153-156.

[5] Per un quadro d’insieme, v. G. Ubertis, Prova scientifica e giustizia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, pp. 1192 ss.

[6] S. Zirulia, Contrasti reali e contrasti apparenti nella giurisprudenza post-Cozzini su causalità e amianto, in Riv. ir. dir. proc. pen., n. 3/2019, p. 1308 ss.

[7] Ibid., p. 1313; sul punto v. anche R. Bartoli, La recente evoluzione giurisprudenziale sul nesso causale nelle malattie professionali da amianto, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 3-4/2014, p. 407. Sui margini di intervento delle Sezioni Unite rispetto a questioni scientifiche controverse (segnatamente l’effetto acceleratore nel mesotelioma), v. anche, con sfumature diverse, M. Romano, F. D’Alessandro, Nesso causale ed esposizione ad amianto. Dall’incertezza scientifica a quella giudiziaria: per un auspicabile chiarimento delle Sezioni Unite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1129 ss.

[8] L’ipotesi in cui dati conoscitivi offerti dalle consulenze di parte non consentono di pervenire a conclusioni definitive integra il requisito dell’“occorrenza” della perizia ai sensi dell’art. 220 c.p.p., con conseguente potere-dovere in capo al giudice di disporla: in questo senso D. Vicoli, sub Art. 220, in G. Conso, G. Illuminati (a cura di), Commentario breve al codice di procedura penale, II ed., Wolters Kluwer - CEDAM, 2015, p. 870.

[9] Sul punto, sia consentito rinviare nuovamente a S. Zirulia, Contrasti reali e contrasti apparenti, cit., p. 1318 ss.