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  Scheda  
13 Maggio 2020


Mesotelioma da amianto e prova della causalità individuale: a volte è possibile

Cass. pen., sez. IV, ud. 20.1.2020, dep. 15.4.2020, n. 12151, Pres. Di Salvo, Est. Nardin



1. Con una sentenza le cui motivazioni sono state depositate lo scorso 15 aprile, la Cassazione ha rigettato i ricorsi presentati dai difensori dei due legali rappresentati di una società che gestiva un’impresa di manutenzione di veicoli ferroviari, condannati in primo e in secondo grado per omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in relazione al decesso di un’operaia per mesotelioma pleurico.

La donna aveva svolto mansioni di smontaggio e montaggio di arredi delle carrozze ferroviarie, nell’ambito delle operazioni di decoibentazione delle stesse dall’amianto. L’esposizione alle fibre nocive era cominciata nel 1981 ed era proseguita almeno fino al 1984, quando erano state predisposte nuove misure a tutela della salute dei lavoratori  (tra cui l’installazione di efficaci impianti di aspirazione). La malattia era stata diagnosticata nel 2009 ed aveva avuto un rapido decorso fino al sopraggiungimento della morte nel 2010.

 

2. Numerose le censure indirizzate alle pronunce di merito dai difensori degli imputati, tutte peraltro respinte, come anticipato, dai giudici di legittimità. Cominciando dai profili strettamente processuali, si segnalano (rinviando per ogni dettaglio alla motivazione) il problema dell’ammissibilità dell’acquisizione del verbale di S.I.T. rese dalla persona offesa, a fronte della prevedibilità del suo decesso (a sua volta fondata sulla notoria natura incurabile del mesotelioma) e dell’ingiustificabile ritardo nel disporre l’incidente probatorio (pp. 8-12); nonché il problema dell’attendibilità delle conclusioni del perito, che nello svolgimento dell’incarico si era avvalso di documentazione contenuta nel fascicolo del pubblico ministero, non consensualmente acquisito al dibattimento (pp. 12-13).

Sul terreno sostanziale, oltre alle questioni attinenti alla causalità di cui si dirà appresso, un ulteriore motivo di ricorso veniva individuato a cavallo tra il giudizio di bilanciamento delle circostanze e la successione di leggi penali. I difensori lamentavano, in particolare, che i giudici di merito avessero ritenuto le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante di cui all’art. 589 comma 2 (la quale prevede una cornice edittale autonoma più severa per i casi in cui la colpa sia consistita nella violazione della normativa antinfortunistica) senza tenere conto che quest’ultima, nella versione vigente all’epoca delle condotte, prevedeva un massimo edittale (cinque anni di reclusione) sensibilmente inferiore a quello successivamente introdotto dal d.l. n. 92/2008 (sette anni) e vigente al momento del decesso della vittima. In altre parole, nel “pesare” la circostanza aggravante, giungendo a considerarla equivalente all’attenuante, i giudici di merito avrebbero erroneamente parametrato il suo disvalore alla luce della cornice edittale più sfavorevole e per questo inapplicabile al caso di specie: in materia di successione di leggi penali, infatti, laddove la legge vigente al momento della condotta sia più favorevole rispetto a quella vigente al momento dell’evento, è alla prima che bisogna avere riguardo nella determinazione del trattamento sanzionatorio (come recentemente chiarito dalle Sezioni Unite n. 40986 del 2018, peraltro proprio in un caso di morte per mesotelioma da amianto). I giudici di legittimità, pur ritenendo il motivo «suggestivo», lo rigettano considerandolo avulso dalle motivazioni rese dai giudici di merito, non essendo in esse rinvenibile – a loro giudizio – alcun riferimento alla più severa disciplina introdotta nel 2008 per l’omicidio colposo con violazione della normativa antinfortunistica. Piuttosto – chiosa la Cassazione – la ritenuta equivalenza tra attenuanti e aggravante è stata adeguatamente argomentata alla luce della gravità delle omissioni riscontrate in capo agli imputati sul fronte della tutela della salute dei propri dipendenti esposti ad amianto.

 

3. Come sistematicamente accade in materia di malattie professionali amianto-correlate, un profilo centrale dei motivi di ricorso riguardava l’asserito difetto di prova in ordine al nesso causale tra l’esposizione al fattore di rischio e lo sviluppo della patologia letale da parte della persona offesa. Secondo i ricorrenti, in particolare, i giudici di merito avrebbero basato le conclusioni in ordine all’eziologia professionale della malattia su una sorta di equazione tra la presenza di asbesto nell’azienda e l’insorgenza del tumore, accontentandosi di evidenze di ordine probabilistico per giungere a conclusioni sul piano della causalità individuale, oltretutto attraverso un percorso argomentativo costellato da contraddizioni di carattere logico e sul piano della ricostruzione fattuale.

Anche queste censure vengono rigettate dal collegio. Sorvolando in questa sede sui profili attinenti ai vizi di contraddittorietà e illogicità lamentati dai ricorrenti e tuttavia respinti dalla Cassazione, di maggiore interesse è soffermarsi sulle questioni relative al passaggio dalla causalità generale a quella individuale: cioè dall’affermazione secondo cui l’amianto, certamente presente nei luoghi di lavoro in questione, rappresenta un fattore di rischio del mesotelioma; alla conclusione secondo cui la persona offesa si era ammalata di mesotelioma proprio a causa dell’amianto inalato alle dipendenze dei ricorrenti.

Sul punto, la pronuncia dà atto alle difese di avere ricostruito correttamente il quadro degli orientamenti giurisprudenziali in ordine alle problematiche che circondano l’accertamento dell’eziologia del mesotelioma, e segnatamente di avere evidenziato le ragioni in virtù delle quali la dimostrazione della causalità individuale non possa essere basata sulla c.d. teoria dell’effetto acceleratore – secondo cui, in breve, ogni esposizione ad amianto contribuisce alla progressione della cancerogenesi, anticipando dunque la manifestazione del tumore ed il conseguente decesso – trattandosi di legge di copertura non (sufficientemente) accreditata nella comunità scientifica internazionale.

Immediatamente dopo, tuttavia, la Corte precisa che nel caso di specie la censura è irrilevante, le condanne non essendo state fondate sulla teoria in questione, bensì sul meccanismo logico dell’esclusione dei decorsi causali alternativi. I giudici di merito – osserva la Quarta Sezione – hanno infatti evidenziato come la ricostruzione dei fatti consentisse di escludere con ragionevole certezza che la persona offesa avesse subìto altre significative esposizioni ad amianto durante la propria vita professionale ed extraprofessionale; in particolare, la donna aveva prestato la propria attività lavorativa esclusivamente alle dipendenze dei due imputati, presso lo stabilimento in questione e come addetta alle mansioni a contatto con l’amianto di cui si è detto. La Corte ritiene tale percorso argomentativo immune da vizi logici e respinge dunque la censura difensiva alla luce della constatazione che «il nesso causale fra l’accertata presenza di asbesto nel reparto di lavoro di (omissis) e la malattia da questa contratta [è stato individuato dai giudici di merito] non facendo riferimento alla c.d. teoria dell’effetto acceleratore, ma sulla base dell’assenza di qualsivoglia elemento causale alternativo di innesco della patologia» (p. 16).

 

* * *

 

4. Da molti anni la casistica sulle morti da mesotelioma pleurico presenta alla giurisprudenza i principali hard cases in punto di accertamento del nesso causale, nell’ambito di procedimenti per omicidio colposo. Sebbene infatti la riconducibilità di tale tumore a pregresse esposizioni ad amianto sia un dato scientifico incontroverso, la sua lunghissima latenza e la sua riconducibilità anche a basse dosi di esposizione facilitano il moltiplicarsi delle “occasioni” (professionali o, più raramente, extraprofessionali) nelle quali la persona offesa potrebbe essere venuta a contatto con un quantitativo di fattore di rischio idoneo a innescare la cancerogenesi.

Si tratta di un contesto che mette quasi sistematicamente fuori gioco il più classico tra i criteri di accertamento della causalità individuale: l’esclusione dei decorsi causali alternativi. In altre parole, sebbene da mezzo secolo nessuno nutra dubbi in merito all’idoneità dell’amianto a causare il mesotelioma, il giudice chiamato a verificare il nesso eziologico tra la morte di un determinato lavoratore e la sua precedente esposizione ad amianto alle dipendenze di un determinato garante, si trova pressoché sempre di fronte all’obiezione difensiva secondo cui non è possibile escludere che la patologia sia stata causata da un’esposizione intervenuta prima o dopo quella oggetto del suo scrutinio. È proprio per far fronte a queste difficoltà di ordine probatorio che i pubblici ministeri, con il sostegno dei propri consulenti, fanno spesso ricorso alla c.d. teoria dell’effetto acceleratore, secondo la quale – come già rammentato – non importa individuare l’esposizione che innescato la cancerogenesi, atteso che tutte le esposizioni contribuiscono ad accelerarne il decorso e possono essere considerate a pieno titolo concause del decesso hic et nunc considerato. Si tratta peraltro di una teoria la cui attendibilità scientifica risulta a sua volta controversa, cosicché la più recente giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, ha in più occasioni negato la possibilità di porla a fondamento del giudizio causale[1].

L’esito del caso appena esaminato non è dunque il frutto di un discostamento dagli orientamenti giurisprudenziali appena richiamati, ma più semplicemente discende dalla peculiarità delle circostanze concrete (la vittima aveva subìto un’unica e protratta esposizione alle dipendenze degli imputati), le quali ne fanno uno di quei (rari) “casi facili” dove il criterio dell’esclusione dei decorsi causali alternativi funziona, consentendo dunque di pervenire a quella ragionevole certezza che dà sostanza all’imputazione causale nell’era post-Franzese[2].

 

5. La sentenza in esame offre peraltro lo spunto per svolgere alcune ulteriori considerazioni. In un passaggio della motivazione (che, giunti a questo punto, possiamo peraltro considerare un mero obiter dictum), il collegio rileva come, nei propri più recenti arresti, la Suprema Corte abbia «precisato la necessità di ricorrere ad una legge di copertura accreditata nella comunità scientifica, escludendo, peraltro, che questa possa essere rinvenuta nella c.d. teoria dell’effetto acceleratore».

A ben vedere, tali affermazioni non possono considerarsi del tutto corrette. Invero, proprio una delle più recenti pronunce aventi ad oggetto il tema in esame ha chiarito che, ai fini del giudizio di “attendibilità”, non è indispensabile che la legge scientifica sia accreditata presso la comunità scientifica internazionale, potendo anche trattarsi di una teoria esplicativa nuova o comunque originale; a condizione, in tal caso, che «ciascuna delle assunzioni a base della teoria [...] sia verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo della attendibilità scientifica di essa e dell’affidabilità dell’esperto» (cfr. Cass. pen., sez. IV, 13 giugno 2019, n. 45935, Ilva). Coerentemente con tali premesse, i giudici di legittimità hanno annullato le condanne con rinvio alla Corte d’appello affinché procedesse ad una nuova verifica in ordine alla tenuta della teoria dell’effetto acceleratore alla luce dei richiamati criteri di attendibilità. Pertanto, e concludendo sul punto, al contrario di quanto sembrerebbe evincersi dalla pronuncia in esame, la questione risulta a ben vedere ancora aperta e suscettibile di nuovi sviluppi.

 

6. Non è peraltro superfluo ricordare che, anche laddove si pervenisse ad un giudizio di soddisfacente attendibilità della teoria in parola, e dunque alla conclusione che tutte le esposizioni sono idonee ad accelerare la cancerogenesi, essa non consentirebbe, da sola, di risolvere il problema della causalità individuale. L’affermazione è solo apparentemente scontata, tenuto conto dell’elevato numero di sentenze che, una volta adottata la teoria dell’effetto acceleratore, ne hanno tratto immediate conclusioni in termini di positivo esaurimento dell’intero giudizio di imputazione causale; così tuttavia finendo per amputarne il secondo e decisivo segmento[3].

Se infatti è vero che la teoria dell’effetto acceleratore viene in rilievo per risolvere un problema di causalità individuale (a fronte, come già ricordato, dell’impossibilità di escludere i decorsi causali alternativi); non bisogna dimenticare che essa implica necessariamente la riformulazione dell’ipotesi causale stessa: non ci si chiede più, infatti, se in assenza dell’esposizione ad amianto alle dipendenze dell’imputato l’evento lesivo non si sarebbe verificato tout court; bensì se in assenza di tale esposizione l’evento si sarebbe verificato in un momento significativamente successivo. In altre parole, ci si chiede se l’esposizione sotto scrutinio abbia contribuito ad anticipare la morte, in concorso con le altre esposizioni che non è stato possibile escludere. Tali considerazioni servono a mettere in luce come – a differenza del criterio dell’esclusione dei decorsi causali alternativi, il quale fornisce l’espediente logico per l’immediato passaggio dalla causalità generale alla causalità individuale – la teoria dell’effetto acceleratore altro non faccia che introdurre un nuovo problema di causalità generale (dovendosi anzitutto accertare la sua attendibilità nel senso sopra chiarito), seguito da un nuovo problema di causalità individuale (dovendosi altresì verificare se, in assenza della specifica esposizione riferibile all’imputato, la morte della persona offesa sarebbe sopraggiunta in tempi significativamente più dilatati). A tal fine, come ha diffusamente illustrato la già richiamata sentenza Cozzini, occorre procedere ad un puntuale giudizio di corroborazione dell’ipotesi sull’accelerazione alla luce delle circostanze del caso concreto: «sono necessarie, almeno, informazioni cronologiche, ed occorre poter affermare che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione»; oppure, in alternativa, «devono essere noti i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo ed essi devono essere presenti nella concreta vicenda processuale».  

Una strada almeno in parte diversa è stata seguita dalle pronunce che, consapevoli della insufficienza della teoria dell’effetto acceleratore ad esaurire il giudizio di causalità, hanno accolto gli argomenti accusatori tendenti ad isolare, lungo l’arco pluriennale in cui si dipana la latenza del tumore, quella fase della cancerogenesi (c.d. induzione) nella quale tutte le esposizioni rivestono efficacia causale certa in termini di accelerazione del decorso causale (cfr., ad es., Cass. pen., sez. IV, 21 novembre 2014, n. 11128, Fincantieri Palermo). In effetti, se fosse possibile individuare la fase di induzione, la prova della causalità individuale potrebbe risolversi in un giudizio di mera sovrapponibilità temporale (anche solo parziale) tra il periodo in cui detta fase ha avuto luogo e quello in cui l’imputato ha rivestito l’incarico attributivo della posizione di garanzia. Sennonché, queste stesse pronunce prestano il fianco ad un altro ordine di critiche, relative al carattere eterogeneo, fumoso e nel complesso incerto dei criteri proposti dagli esperti per individuare il periodo di induzione[4]; sicché anche questa strada consistente in una sorta di “caccia alla legge scientifica universale nella legge scientifica probabilistica” appare, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, difficile da percorrere.

 

7. Alla luce di questo breve excursus, in conclusione, appare prudente affermare che pronunce come quella esaminata offrono ad oggi gli unici (e rari) esempi nei quali si può concludere che l’accertamento causale tra esposizione ad amianto e morte per mesotelioma sia stato condotto secondo i crismi della ragionevole certezza. Al di fuori di questi casi si assiste, da un lato, all’indebita obliterazione dell’accertamento della causalità individuale; dall’altro, al tentativo di superarne le difficoltà di prova facendo utilizzo di evidenze scientifiche che non appaiono ancora dotate, nel complesso, di un grado di attendibilità sufficiente per le esigenze del processo penale.

 

 

 

[1] Cfr. Cass. pen., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini; 14 novembre 2017, n. 16715, Petrolchimico Mantova; 15 maggio 2018, n. 46392, Enel Turbigo.

[2] Un altro recente esempio in tal senso, nel quale la Cassazione ha ritenuto il percorso di dimostrazione della causalità immune da vizi logici soltanto laddove vi fosse stata «sovrapposizione integrale o quasi integrale tra durata della esposizione al rischio da parte del lavoratore e durata della posizione di garanzia», è rappresentato da Cass. pen., sez. IV, 16.1.2019, n. 25532, Cantieri navali Monfalcone-bis.

[3] Tra le ultime in ordine cronologico, v. Cass. pen., sez. IV, 24 maggio 2012, n. 33311, Fincantieri Marghera; Cass. pen., sez. IV, 7 luglio 2015, n. 35341, Cantieri navali Carrara-bis.

[4] Di solito il periodo di induzione viene collocato tra l’inizio dell’esposizione all’amianto ed un termine finale individuato sottraendo dal momento della diagnosi un numero di anni pari alla durata stimata della seconda fase della cancerogenesi, c.d. fase preclinica  (quella in cui le cellule tumorali sono in grado di moltiplicarsi da sole e pertanto ulteriori esposizioni non hanno rilievo causale). Sennonché, a parte il problema di individuare con certezza l’inizio dell’esposizione, la durata della fase preclinica non è accertabile rispetto al singolo soggetto e viene stimata sulla scorta di calcoli che dànno vita a risultati oscillanti tra i 10 anni (Cass. pen., sez. IV, 16 ottobre 2012, n. 49215, Cantieri navali Carrara) ed i 15 anni (Trib. Ivrea, 18 luglio 2016, Olivetti; Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 2018, n. 22022, Cantieri Monfalcone, cit., p. 40-41).