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28 Giugno 2024


Ergastolo e diritto alla speranza. Forme e criticità del "fine pena mai" | Prefazione

M. Cartabia, Prefazione, in C. Danusso, E. Dolcini, D. Galliani, F. Palazzo, A. Pugiotto, M. Ruotolo, Ergastolo e diritto alla speranza. Forme e criticità del "fine pena mai", Giappichelli, Torino, 2024, pp. XI-XIV



Pubblichiamo di seguito, con l’autorizzazione dell’Editore, la Prefazione della Prof.ssa Marta Cartabia al volume di C. Danusso, E. Dolcini, D. Galliani, F. Palazzo, A. Pugiotto, M. Ruotolo, Ergastolo e diritto alla speranza. Forme e criticità del "fine pena mai", Giappichelli, Torino, 2024. 

 

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Questo libro fa pensare. Non solo sull’oggetto specifico della trattazione, incentrato sulla costituzionalità della pena perpetua. Questo libro fa pensare più ampiamente sul “volto costituzionale della pena”, per richiamare una felice e intramontabile espressione della Corte costituzionale (sentenza n. 50 del 1980).

Mentre mi accingo a scrivere queste brevi pagine introduttive al terzo volume che gli autori dedicano a un’ampia riflessione sull’ergastolo, dalla stampa arrivano le notizie e le immagini delle gravissime violenze subite dai ragazzi detenuti nell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano.

Pochi anni addietro, nel luglio 2021, la stampa portava alla luce l’angosciosa notizia delle violenze subite dai detenuti a Santa Maria Capua Vetere: già allora apparve evidente al Presidente del Consiglio – il quale, in quella circostanza, aveva avvertito l’esigenza di recarsi personalmente sul posto insieme alla Ministra della giustizia – che non solo occorreva dire basta alla violenza nelle carceri, ma che occorreva assumersi una “responsabilità collettiva di un sistema che va riformato”[1], attraverso iniziative concrete.

Un ordinamento punitivo ancora incentrato essenzialmente sul carcere non può più reggere. Non oggi che le carceri italiane sono straripanti di detenuti che si portano dentro un vissuto personale fatto di buio, di sradicamento, di dipendenza, di sofferenza psichiatrica, di marginalità sociale, di solitudine, di violenze subite, di disperazione. Un vissuto così non può essere brutalmente scaricato dentro al carcere e sulle spalle di chi ha la responsabilità degli istituti penitenziari.

Il numero dei suicidi e gli episodi di violenza devono essere considerati per quello che sono: fatti gravissimi e campanelli di allarme di un malessere generalizzato. Le emergenze estreme che si stanno susseguendo a ritmo troppo ravvicinato sono segnali di una sofferenza di sistema che richiede una riflessione profonda. Di nuovo sono stati raggiunti e superati livelli preoccupanti di sovraffollamento, oltre la soglia di guardia. E oltre ai numeri, sono le condizioni delle persone detenute a preoccupare: in molti casi anche i migliori operatori del sistema penitenziario faticano a trovare modalità idonee ad attivare un percorso di reinserimento. Non ci sono facili soluzioni o vie di uscite da una emergenza che si sta facendo drammatica. Occorre fermarsi un istante e provare a guardare in faccia chi si trova in carcere e chi in carcere opera, e lasciarsi interrogare in profondità sulle radici della situazione attuale. Le risposte rapide a effetto (im)mediatico non sono più credibili.

Come restituire oggi alla pena il suo volto costituzionale?

A fronte di interrogativi così radicali, un libro, o meglio, una serie di libri come questa è estremamente preziosa, per due principali ragioni: anzitutto, perché proficuamente affronta il problema del significato, della forma e della misura della pena in tutta la sua dimensione storica e, in secondo luogo, perché lo fa offrendo al lettore una ricchissima documentazione che gli consente di pensare, di riflettere, di farsi una opinione, anche critica, di prima mano. È uno strumento per chi non si accontenta di ripetere opinioni per sentito dire. È un libro per chi vuol provare a capire sul serio.

La storia innanzitutto: ripercorrere certi passaggi storici dell’evoluzione del diritto penale, come quello della sostituzione della pena di morte con la detenzione perpetua, fa emergere una problematicità carica di spunti di riflessione anche per il nostro oggi. Le parole di John Stuart Mill (richiamate da Davide Galliani nell’introduzione) rivolte al Parlamento inglese il 21 aprile 1868, in merito alla proposta di abolire la pena di morte, gettano un dubbio radicale sulla presunta “umanità” della pena detentiva perpetua, che non può lasciare indifferenti.

Il dilemma, allora, era su quale fosse la pena più severa e più crudele: se consegnare un uomo al breve dolore di una morte rapida o murarlo vivo per sempre. Agli occhi di noi europei del XXI secolo, questo dilemma non vale certo a far riemergere nostalgie per la pena capitale, la cui abolizione nel vecchio continente ha segnato un passaggio di civiltà che appartiene al comune patrimonio costituzionale di cui possiamo essere fieri. E tuttavia, l’osservazione di Stuart Mill ha un grande valore nell’aprire gli occhi sul tasso di sofferenza che si infligge con un fine pena mai. Lo sa bene chi per professione e per dovere ha dovuto applicare quella pena: penso allo straordinario libro-testimonianza di Elvio Fassone, Fine pena: ora[2], la cui lettura qualche anno fa mi aprì gli occhi, mostrandomi la realtà del carcere da una prospettiva del tutto diversa.

Il carcere non può essere senza finestre, per richiamare una espressione metaforica cara a papa Francesco – come ha ripetuto ancora da ultimo nella sua visita del 28 aprile 2024 al carcere femminile della Giudecca: “non chiudete la finestra, per favore, sempre guardare l’orizzonte, sempre guardare il futuro, con speranza”[3].

Questo è il nodo centrale intorno a cui si interroga questo libro: quale pena e quale forma della sua esecuzione non uccide la speranza?

Credo che l’evoluzione storica oggi ci abbia portato sulla soglia di questo nuovo paradosso, che tocca al nostro tempo affrontare: se non vuole essere un sepolcro dei vivi, il carcere deve permettere concretamente di guardare oltre, di volgersi a un futuro possibile. Non può voltare gli occhi dalla realtà, icasticamente descritta dall’apologo di Carnelutti, ancora tragicamente vera in troppe situazioni, per cui “Quando uno c’è entrato, in galera, non ne esce più; crede d’esserne uscito, ma fuori, dopo, è più dentro di prima”. La nostra Costituzione esige che ci sia un dopo.

Il secondo motivo di pregio di questo volume è che offre un ampio ventaglio di letture per elaborare una opinione propria e personale sul dilemma della pena perpetua. Il dilemma riguarda la conformità alla Costituzione della detenzione a vita. Ritroviamo in queste pagine, anzitutto, alcune importanti riflessioni sulle sentenze della Corte costituzionale che hanno dichiarato l'incostituzionalità di alcune forme di ergastolo: anzitutto l'ergastolo inflitto ai minorenni (sent. n. 164 del 1994) e più recentemente l'ergastolo ostativo, rimodulato dal decreto legge n. 162 del 2022 sulla scorta delle indicazioni contenute nelle pronunce della Corte costituzionale (a partire dalla ordinanza del 2021) o ancora sulla illegittimità dell’ergastolo come pena indefettibile (sentenza n. 94 del 2023). Ma ritroviamo anche ampie riflessioni sulle decisioni della Corte di cassazione che hanno dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 22 del codice penale, specie in ragione della configurazione in concreto della pena dell’ergastolo nel nostro ordinamento, che non esclude l’accesso ai benefici penitenziari e dopo un certo numero di anni alla liberazione condizionale (reiterate ancora di recente con la decisione della I sez. pen., del 16 giugno 2021, n. 43285).

In sintesi i profili di dubbia legittimità costituzionale evidenziati dagli autori sono tre.

Il primo riguarda l’inciso contenuto nell’art. 27, terzo comma della Costituzione che esige che le pene non siano contrarie al «senso di umanità»: il fine pena mai può dirsi rispettoso del “senso di umanità”?

Il secondo si interroga sulla compatibilità di una pena senza fine certa con la finalità rieducativa della pena, scolpita nel medesimo comma 3 dell’art. 27 Cost.: che significa rieducare un detenuto che non ha prospettive di vita fuori dal carcere?

Entrambi questi profili sono ampiamente trattati da vari scritti di grandi maestri della «transizione costituzionale», tra cui per particolare incisività si può richiamare l’attenzione sulle argomentazioni di Carnelutti elaborate per convincere le sezioni unite penali della Corte di cassazione a sollevare la questione di costituzionalità sull’art. 22 del codice penale. Al cuore delle sue argomentazioni vi è l’idea che “soltanto in quanto tende alla rieducazione o meglio consiste nella rieducazione, la pena si risolve in un trattamento umano”[4].

A questi argomenti, gli autori di questo volume ne aggiungono un terzo: se il cuore del costituzionalismo è l’idea del limite al potere, ovvero del potere limitato, ebbene è proprio l’assenza di un limite nella pena perpetua che suscita dubbi sulla sua costituzionalità.

Nell’ampia documentazione offerta da questa raccolta di scritti e di documenti, finemente ragionata e commentata, il lettore troverà abbondante food for thought.  

Ci sono dati empirici, che mostrano come ad oggi solo 33 stati hanno abolito la pena perpetua, e da ultimo, fra questi, vi è la Città del Vaticano.

Ci sono i grandi classici che portano argomentazioni allineate oppure opposte a quelle elaborate da Carnelutti, poco sopra richiamate.

Ci sono autori contemporanei, penalisti e costituzionalisti, che, a fronte di molteplici pronunce giurisprudenziali nazionali e sovranazionali, si interrogano sulla pena perpetua e testimoniano il fermento di pensiero che sta animando il dibattito in Italia e in Europa.

Gli autori non nascondono la loro posizione. Ma, da veri liberi ricercatori quali sono, gli autori neppure nascondono gli argomenti che si contrappongono alle loro interpretazioni e alle loro visioni del problema, lasciando al lettore una ricca raccolta di documenti, riflessioni, materiali e pensieri che possono davvero contribuire al forgiarsi di un pensiero critico, come deve accadere in ambito universitario.

Quale che sia l’opinione che ciascuno si farà, permettetemi di insistere a conclusione di queste brevi parole introduttive su un punto che a me pare centrale. E lo faccio richiamando il pensiero di un grande protagonista delle riforme dell’esecuzione penale, Mario Gozzini, che ci è offerto tra i contributi raccolti in questo volume: “in questo ritorno del dilemma ergastolo sì o no io mi schiero razionalmente dalla parte del no – scrive Gozzini – ma non riesco a impegnarmi in una battaglia isolata […]. Razionale davvero mi pare possa essere cogliere l’occasione per riproporre con più forza la questione della pena. Quale senso? Quale fine? Soltanto la reclusione o è tempo di pensare a tipi diversi di pena?”[5].

La Costituzione non parla mai di carcere e l’art. 27 si riferisce al sistema delle pene al plurale. La Costituzione richiede che le pene non siano mai contrarie al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato. Semplicemente da qui, forse, occorre ripartire per un ripensamento della pena dell’ergastolo e delle pene in generale e lasciarsi interrogare, senza dare nulla per scontato, sul significato profondo delle parole della nostra Costituzione, su cui non ci sofferma mai abbastanza.

 

Milano 30 aprile 2024

 

[1] Gli interventi pronunciati in quella occasione possono essere letti su Sistema Penale del 15 luglio 2021.

[2] E. Fassone, Fine pena: ora, Sellerio, Palermo, 2015.

[3] Si veda il Saluto del Santo Padre all’incontro con le detenute del 28 aprile 2024 in www.vatican.va

[4] Francesco Carnelutti, La pena dell’ergastolo è costituzionale?, in Rivista di diritto processuale, 1956, I, in questo volume p. 61 ss.

[5] Mario Gozzini, Questione ergastolo, una deviazione ideologia, in Il Ponte, 7/1998, in questo volume pp. 103 ss.