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  Opinioni  
21 Novembre 2022


Il decreto legge 162/2022, il regime ostativo e l’ergastolo ostativo: i dubbi di costituzionalità non manifestamente infondati


* Il presente scritto, aggiornato al 17 novembre 2022, è la traccia della relazione svolta al seminario “L’ergastolo ostativo nella società e nell’ordinamento: Silenzio, parla la Corte costituzionale!”, organizzato da ITALIASTATODIRITTO, insieme all’Ordine degli avvocati e alla Camera penale di Roma, presso la Corte di Cassazione il 4 novembre 2022 e di quella che sarà svolta al seminario “Ergastolo ostativo. La nuova disciplina allo specchio della Costituzione”, che si terrà all’Università degli Studi di Firenze il 29 novembre 2022. Alla fine dello scritto si riporta una nota bibliografica sul decreto legge 162/2022.

 

1. In questo contributo cercherò di evidenziare i dubbi di costituzionalità non manifestamente infondati delle disposizioni del decreto legge 162/2022[1], in particolare per quanto riguarda le modifiche del regime ostativo e dell’ergastolo ostativo. Non di meno, è opportuno evidenziare in premessa che, nello stesso decreto legge, è contenuta una disposizione che assume rilevanza diretta e indiretta sulla parte riguardante il regime ostativo e l’ergastolo ostativo. Il posticipo al 31 dicembre 2022 dell’entrata in vigore dell’intero decreto legislativo delegato 150/2022 genera due riflessi sul nostro tema.

1.1. Uno diretto, poiché tra i nuovi accertamenti che la magistratura di sorveglianza è chiamata a svolgere, nel momento in cui decide sulla concessione dei benefici e delle misure alternative, uno riguarda “la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”, esattamente uno dei punti cruciali e più innovativi dell’intera riforma Cartabia.

Da questo punto di vista, non si tratta di schierarsi in via di principio tra i favorevoli o i contrari alla giustizia riparativa, che non sarà il paradiso ma nemmeno l’inferno, come tutte le cose terrene, avrà pregi e difetti. Il problema qui è unicamente la zona grigia che potrebbe crearsi nel momento in cui la sorveglianza, dovendo valutare la sussistenza di iniziative nell’ambito della giustizia riparativa, si troverà di fronte uno scenario non del tutto soddisfacente. Non vi è dubbio, siamo alle prese con un problema di incoerenza degli interventi normativi, non di legittimità costituzionale.

Ad essere pignoli, si dovrebbe però dire anche un’altra cosa. Non si può escludere che la sorveglianza, fino all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge, e stiamo sempre riferendoci alla giustizia riparativa, possa decidere di aggiornare i procedimenti pendenti, ritenendo imprescindibile, per accertare le iniziative a favore delle vittime nelle forme della giustizia riparativa, l’entrata in vigore della riforma Cartabia.

L’opzione dell’aggiornamento dipende dal come si devono valutare i nuovi requisiti da soddisfare per accedere ai benefici e alle misure alternative, se riguardanti anche l’ammissibilità/inammissibilità della domanda o solo la meritevolezza/non meritevolezza. Nello specifico, per quanto riguarda la sussistenza di iniziative nell’ambito della giustizia riparativa, sembra proprio che non ci siano spazi per una valutazione in termini di inammissibilità, e questo perché la giustizia riparativa non può mai essere imposta, ma deve essere sempre una opzione percorribile a discrezione, pertanto consensuale. Si torna quindi al profilo della incoerenza degli interventi di normazione, fermo restando che, come opportunamente prevede la riforma Cartabia, la mancata effettuazione del programma di giustizia riparativa non può produrre effetti sfavorevoli nei confronti dell’autore dell’offesa.

1.2. Esiste anche un effetto indiretto del posticipo dell’entrata in vigore della riforma Cartabia e riguarda le pene sostitutive applicabili dal giudice, altro tassello cruciale e tra i più innovativi dell’intera riforma. Qui esprimere in via di principio fondati dissensi pare complicato: si potrà sostenere che sul punto la riforma vada migliorata in sede di conversione, ma sarebbe insensato sostenere che basta costruire nuove carceri e tutto può tranquillamente rimanere così come è oggi, suicidi tra i detenuti compresi.

Come che sia, cosa fa la riforma Cartabia? Esclude l’applicazione delle pene sostitutive in tutti i casi in cui la persona è imputata per uno o più reati previsti dall’art. 4 bis ord. pen., salvo il riconoscimento dell’attenuante dell’art. 323 bis II c. cod. pen.: se, nel caso della giustizia riparativa, si verifica una incoerenza per sottrazione (manca qualcosa che dovrebbe esserci), nel caso delle pene sostitutive abbiamo una incoerenza per aggiunta (esiste qualcosa che non dovrebbe esserci).

Siamo in presenza di un altro capitolo del libro del diritto penale d’autore, e non ho idea di quanti lo volevano leggere. Un legislatore più accorto avrebbe potuto (nel minimo) fare una selezione nel kilometrico elenco di delitti contenuti nell’art. 4 bis ord. pen.: quando entrerà in vigore la riforma Cartabia, chissà se qualche giudice contesterà questa nuova sottrazione di mestiere al giudice sempre e solo per il benedetto titolo di reato. Ed è proprio il kilometrico elenco dell’art. 4 bis ord. pen. che rasserena sulla rilevanza: quanto ci vuole a trovare un caso nel quale la soluzione appropriata sarebbe proprio la pena sostitutiva? Molto poco, grazie alla onnivoracità dell’elenco ostativo.

In inglese, per dire che una lista è onnivora di contenuti si può utilizzare un aggettivo, perfetto al caso nostro: indiscriminate, come quando si esclude indiscriminatamente dall’applicazione delle pene sostitutive tutta quella impressionante lista di reati contenuta nell’art. 4 bis ord. pen., ora peraltro divenuta a geometria variabilissima, per via della esplicita deroga al criterio dello scorporo delle pene, una “gemma” che darà adito a non pochi problemi interpretativi.

 

2. Ad ogni modo, e venendo alla parte del decreto legge sul regime ostativo e sull’ergastolo ostativo, nel nostro ordinamento per sollevare una questione di costituzionalità è sufficiente la non manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità, il che significa una chiarissima apertura di credito verso coloro che Piero Calamandrei chiamava i “portieri” del giudizio costituzionale, ossia i giudici italiani. Ciò implica che non si possano stilare graduatorie di gravità, nel momento in cui si riscontrano non uno ma più dubbi di costituzionalità. Non deve essere grave un dubbio di costituzionalità per sollevare la questione, basta che il giudice a quo lo reputi non manifestamente infondato (e rilevante). E questo sia quando è il giudice stesso a porselo sia quando è chiamato a rispondere ad una istanza di parte, alla quale, nel caso decida di non sollevare, deve rispondere con una ordinanza adeguatamente motivata. Una piccola premessa, da tutti conosciuta, ma che è bene tenere presente: non esistono dubbi di costituzionalità più o meno gravi di altri, esistono solo dubbi non manifestamente infondati.

 

3. Sempre come premessa, utile qualche dato di contesto, per capire quanti sono nel minimo i destinatari oggi del decreto legge 162/2022, nella parte in cui riforma il regime ostativo e l’ergastolo ostativo. Sono dati, gentilmente forniti da Mauro Palma e dall’ufficio del Garante, tutti aggiornati al 15 ottobre 2022, che riguardano a) il numero degli ergastolani ostativi, b) il numero dei detenuti in Alta Sicurezza e c) il numero degli ergastolani ostativi al regime di cui all’art. 41 bis II c. ord. pen.:

a) il totale degli ergastolani è di 1.846 (dei quali 34 donne), e tra questi con ascritti reati 4 bis sono in 1.161 (dei quali 15 donne), quindi su 1.846 ergastolani in 1.161 sono ergastolani ostativi, il 63%;

b) il totale dei detenuti in Alta Sicurezza è di 9.491: anche questo un dato fondamentale perché indica nel minimo il numero di persone con ascritti reati 4 bis, che rappresentano il 17% del totale dei detenuti registrati (56.087, un migliaio in più di quelli presenti, 55.005);

c) il totale degli ergastolani ostativi al regime detentivo differenziato, vale a dire 204 su un totale di 732, quindi il 28%; rapportato al totale degli ergastolani ostativi, sono 204 su 1.161, il 17,5%.

Cosa dicono questi dati? Che il decreto legge 162/2022, riformando il regime ostativo e l’ergastolo ostativo, riguarda oggi all’incirca un detenuto su cinque, e il dato è da intendere nel minimo[2]. Peraltro, per quanto si dirà nel prosieguo, è necessario anche ricordare il numero dei collaboratori di giustizia. Non conosco dati più aggiornati, in ogni caso al 31 dicembre 2018 i collaboratori di giustizia erano 1.189[3].

 

4. Iniziamo dal primo dubbio di costituzionalità non manifestamente infondato, ossia il trasferimento di competenza, dal magistrato al tribunale di sorveglianza, per quanto riguarda la concessione dei permessi premio, in riferimento a cinque tipologie di condanne: a) delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale; b) delitti di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; c) delitti di cui all’art. 416 bis c.p., d) delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso art. 416 bis c.p. e, infine, e) delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste.

Non sembra manifestamente infondato il dubbio di costituzionalità per quanto riguarda l’eliminazione di un grado di giudizio di merito effettuata per tipologia di condanna (e quindi di reato e di quindi di autore). La Costituzione non impone il doppio grado di giudizio di merito, ma di certo vieta ex art. 3 Cost. di trattare in modo eguale situazioni differenti e in modo differente situazioni eguali.

Quale il motivo di spostare la competenza in materia di permessi premio dal magistrato al tribunale di sorveglianza? Il legislatore, evidentemente, parte dal presupposto che il giudizio del tribunale, essendo collegiale, possa essere più meditato e più equilibrato, quindi più adeguato alla delicatezza delle questioni affrontate. Non mi sembra possano esistere altre motivazioni e questo perché lo spostamento di competenza non è generalizzato ma riguarda solo alcune tipologie di condanne: anche volendo sostenere, in modo alquanto acrobatico e sbagliato, che si vuole “tutelare” il magistrato, non pare proprio che la riforma possa soddisfare questa esigenza, ripeto, in sé pochissimo persuasiva (tanto da non meritare nemmeno un commento). L’unico motivo della riforma è quindi che la collegialità rispetto alla monocraticità assicura una decisione più meditata, più equilibrata, con maggiore partecipazione, in definitiva che la collegialità affronti meglio la delicatezza delle questioni.

Ma se lo spostamento di competenza trova origine nella favorevole visione della collegialità è possibile che questa esigenza valga solo e soltanto a fronte di determinate tipologie di condanne, per le quali varrebbe la pena far perdere un grado di giudizio di merito? Mettiamola così: per eliminare il doppio grado di giudizio di merito serve mettere sul piatto un qualche guadagno, che appunto sarebbe la collegialità. Il punto è che eliminare il doppio grado di giudizio di merito solo e soltanto per alcune tipologie di condanna è del tutto irragionevole, quindi in contrasto con l’art. 3 Cost.

Una disposizione viziata di irragionevolezza, perché contrastante con l’art. 3 Cost., non può che generare situazioni irragionevoli: se la riforma sul punto fosse confermata avremmo il traffico di stupefacenti aggravato dalla transnazionalità che rimarrebbe al magistrato, mentre l’estorsione aggravata dal metodo mafioso che andrebbe al tribunale. Di là delle pene rispettivamente previste, che possono anche essere nel primo caso il doppio del secondo, non vi è chi non veda la irragionevolezza, a parità di complessità delle questioni affrontate e di conseguenza a parità di necessaria calibrazione collegiale dei temi. Quello esposto è solo un esempio, ma nello stesso senso se ne possono fare moltissimi altri[4].

4.1. Inoltre, si deve tenere in considerazione un altro duplice aspetto. Quali sono le ulteriori conseguenze dello spostamento di competenza? Ne indico due. La prima: il decreto legge non chiarisce se vale anche per i collaboratori di giustizia. Da un lato si ribadisce il “sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16 nonies e 17 bis” del d.l. 8/1991, ma dall’altro lato la modifica della competenza è operata direttamente sull’art. 30 ter ord. pen., la disposizione che disciplina in termini generali il permesso premio. Il punto è che nella disciplina sui collaboratori di giustizia si fa espressa menzione tanto del magistrato quanto del tribunale di sorveglianza e, di conseguenza, la modifica dell’art. 30 ter ord. pen. varrà anche nei casi di permesso premio richiesti da collaboratori. Di questo il legislatore ne è consapevole? Non significa incidere sul complessivo equilibrio di quella che è pur sempre nata nel 1991 come legislazione premiale/incentivante?

La seconda: nel momento in cui il pubblico ministero impugna dinanzi al tribunale una decisione del magistrato che accorda il permesso, l’effetto dell’impugnazione è di sospendere l’esecuzione; ma se esiste ora un solo grado di merito, quello del tribunale, bisogna ricordare che il ricorso in Cassazione proposto dalla parte pubblica non ha effetto sospensivo dell’esecuzione del permesso. Peraltro, onde evitare una sicura inammissibilità in sede di giudizio di legittimità, la parte pubblica deve presentare contestualmente la richiesta al tribunale di sospendere l’esecutività del permesso e il ricorso alla Corte di Cassazione. In definitiva, una eventualità, quella del ricorso in Cassazione della parte pubblica che ottiene la sospensione del permesso, più unica che rara, visto che dovrebbe essere comunque il tribunale a deciderla, ossia lo stesso tribunale che ha accordato il permesso. Da quando esiste la legge Gozzini, qualcuno è a conoscenza di una sospensione della esecutività del permesso premio per via della proposizione del ricorso in Cassazione della parte pubblica? In trentasei anni di onorata carriera del nostro permesso premio, a me pare che mai ne sia stata sospesa l’esecutività per via di una decisione della sorveglianza, che prima dovrebbe dare torto alla parte pubblica e immediatamente dopo dovrebbe dargli ragione. Accordo il permesso ma ne sospendo l’esecuzione: se non è un film di fantascienza, è un film dell’orrore. Se sbaglio nella mia affermazione chiedo venia, ma sono praticamente certo che, se esistono questi casi, le dita di una mano bastano e avanzano per contarli.

Sulle ultime due questioni (collaboratori di giustizia, effetto sospensivo impugnazione) i ragionamenti da fare sono di opportunità, mentre la prima (eliminazione di un grado di giudizio di merito solo e soltanto per tipologie di condanna) espone ad un dubbio di costituzionalità non manifestamente infondato.

4.2. Chiaro infine che esistono ulteriori conseguenze da tenere comunque in considerazione. A tale proposito ne indico una, non di poco conto. Si pensi alla domanda di un nuovo permesso premio, da parte di chi ne ha già ottenuto uno o più in precedenza. Prevedere anche in questi casi lo spostamento di competenza rischia di compromettere, di là del buon andamento della pubblica amministrazione e della celerità del procedimento, proprio l’essenza stessa del permesso premio, che non a caso l’ordinamento penitenziario affidava in prima battuta al magistrato. Il permesso premio ha connaturato il carattere della estemporaneità, se si vuole anche quello della sperimentazione continua in vista di una misura alternativa, capace questa sì di modificare qualità e quantità della pena, quindi la natura della pena.

In altre parole, una volta accordato il primo permesso premio, al magistrato si apre la possibilità di accordarne ulteriori, anche dalla durata diversa. Una prima volta tre ore, una seconda volta sei, una terza dalla mattina alla sera. È esattamente dopo questo primo percorso trattamentale che la persona può decidere di rivolgersi al tribunale, al quale compete la decisione “più gravosa” in materia di misure alternative, più “gravosa” perché incide sulla qualità e quantità della pena, quindi sulla natura della stessa pena.

Il caso della persona che ha già ottenuto uno o più permessi dal magistrato e per quelli successivi deve rivolgersi al tribunale finisce necessariamente per snaturare la natura stessa del permesso premio. Quanto meno, parificando l’organo chiamato a decidere tanto dei nuovi permessi quanto della semilibertà e della liberazione condizionale finisce con il trattare in modo eguale situazioni differenti. Siamo sul crinale tra una scelta di dubbia opportunità e una di dubbia costituzionalità, in questo secondo caso per violazione degli artt. 3, 97, II c. e 111 Cost.

Le stesse identiche osservazioni valgono anche per il lavoro all’esterno, il quale ha subito la medesima sorte del permesso premio[5].

 

5. Un secondo dubbio di costituzionalità non manifestamente infondato riguarda l’aumento da cinque a dieci anni della libertà vigilata per gli ergastolani non collaboranti. Il decreto legge prevede unicamente una disposizione transitoria, secondo la quale – nei casi di collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, riconosciuta per fatti commessi prima dell’entrata in vigore dello stesso decreto legge – ai condannati alla pena dell’ergastolo “ai fini dell’accesso alla liberazione condizionale” non si applicano le disposizioni che appunto aumentano da cinque a dieci anni la libertà vigilata e alzano da ventisei a trenta quelli di pena scontata utili per domandare la liberazione condizionale. Cosa significa “ai fini dell’accesso alla liberazione condizionale”? Questa dicitura comprende anche l’esclusione dell’aumento della libertà vigilata? Che riguardi l’innalzamento dei limiti di pena per domandare la liberazione condizionale non vi è dubbio, ma per chiarire il problema sulla libertà vigilata è opportuno che il legislatore della conversione specifichi il divieto di retroattività anche in riferimento alla libertà vigilata.

Altrimenti vi sarebbe una violazione del principio di eguaglianza. Se non può essere messo in discussione che la sentenza 32/2020 della Corte costituzionale preclude la retroattività di modifiche in peius in riferimento alla liberazione condizionale, o meglio modifiche che incidano in peius su quantità e qualità della pena – e che di conseguenza tanto l’aumento da ventisei a trenta anni per domandare la liberazione condizionale quanto quello da cinque a dieci per la libertà vigilata possono riguardare solo fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto legge – il punto è che non pare possibile, in caso di riconoscimento della collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, non applicare l’innalzamento dei limiti di pena da scontare e invece applicare l’aumento della libertà vigilata.

5.1. Peraltro, il decreto legge 152 del 1991, che ha introdotto l’art. 4 bis nell’ord. pen., non interveniva in alcun modo sui ventisei anni necessari per gli ergastolani non collaborati al fine di domandare la liberazione condizionale, né tanto meno sulla libertà vigilata, che rimaneva anche questa prevista ordinariamente in cinque anni. Questo è un aspetto da tenere in massima considerazione perché il decreto legge del 1991 non prevedeva alcuna preclusione assoluta ai benefici e alle misure: se oggi il legislatore ha relativizzato in via generale la preclusione, per quale motivo ha deciso di innalzare gli anni di pena da scontare per la liberazione condizionale e gli anni in libertà vigilata?

E si consideri che lo stesso passaggio da ventisei a trenta anni di pena scontata per accedere alla liberazione condizionale da parte degli ergastolani non collaboranti merita attentissima riflessione. Il legislatore è sicuro che, non intervenendo in questo modo, si avrebbero delle irragionevolezze, nel momento in cui l’ergastolano non collaborante potrebbe chiedere la liberazione condizionale scontati gli stessi anni dell’ergastolano collaborante?

In realtà, questa ipotesi, che non si può escludere, è del tutto ipotetica. L’ergastolano collaborante di norma entra nel sistema di protezione dei collaboratori, e di conseguenza la disciplina prevede che possa domandare la liberazione condizionale scontati dieci anni di pena. Questo è il premio o se si vuole l’incentivo più rilevante per i collaboratori: una cosa è accedere in deroga ai benefici, altra è poter domandare la liberazione condizionale e quindi l’estinzione della pena dopo dieci anni. In entrambi i casi siamo alle prese con premi e incentivi, non di meno non vi è chi non veda la differenza: il permesso premio e la detenzione domiciliare non hanno solo lo scopo di iniziare la progressività trattamentale, poiché si tratta anche di collocare il collaboratore in luoghi differenti rispetto al carcere; la liberazione condizionale, invece, significa estinzione della pena, quindi, libertà vigilata a parte, il limite oltre il quale la potestà punitiva statale non può andare.

Ad ogni modo, esiste solo un caso del tutto ipotetico di ergastolano collaborante per il quale il limite di pena da scontare per domandare la liberazione condizionale rimane ventisei anni, vale a dire il caso nel quale a fronte di più procedimenti la persona presta collaborazione in un caso durante la cognizione (e questo di norma evita l’ergastolo) e nell’altro dopo la condanna (ed è quindi mantenuto l’ergastolo), presupponendo che l’entrata nel sistema di protezione non avvenga nel secondo caso. Peraltro, se si è nel sistema di protezione per via della prima collaborazione, è possibile che questo non abbia effetti rispetto alla seconda collaborazione e al tema dei limiti di pena da scontare per accedere alla liberazione condizionale? In linea teorica questo è il caso nel quale si potrebbe verificare la irragionevolezza che sembra aver spinto il legislatore ad innalzare da ventisei a trenta anni i limiti di pena da scontare per gli ergastolani non collaboranti in riferimento alla domanda di liberazione condizionale. Ma è un caso teorico, e questo perché allo stato non risultano ergastolani collaboranti che non siano anche nel sistema di protezione.

Se è così, il problema è quindi quello di valutare in sé l’aumento del quale stiamo discutendo, che chiaramente varrà per il futuro, ossia per l’accesso alla liberazione condizionale degli ergastolani ostativi non collaboranti condannati per fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto legge. Se è vero che il legislatore ha un margine di intervento non eliminabile, è però anche vero che non appare manifestamente infondato il dubbio di costituzionalità, nel momento in cui, quale che sia la ragione dell’aumento dei limiti di pena scontata, vi è uno scontro frontale con la giurisprudenza costituzionale che ha chiaramente affermato che “l’assenza di collaborazione con la giustizia dopo la condanna non può tradursi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena, in conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facoltà di non prestare partecipazione attiva a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato” (§ 8.1, sent. 253/2019). Alla stregua della ragionevolezza, della proporzionalità e della rieducazione, sempre nelle parole della Corte, “un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante” (sempre § 8.1 sent. 253/2019).

Se questo vale in termini generali, deve valere in modo ancora più marcato quando il riferimento corre alla liberazione condizionale, che proprio in quanto causa di estinzione della pena non subì alcuna modifica deteriore nel 1991 allorquando si decise di introdurre il regime ostativo nell’ordinamento penitenziario. Si premia chi collabora, non si infligge un trattamento deteriore a chi non collabora: al massimo si potrà incidere (come già avviene) sui benefici e sulle misure alternative, ma il discorso muta quando il riferimento corre alla liberazione condizionale, che rappresenta la rinuncia dello Stato alla pretesa punitiva.

Passare da ventisei a trenta anni significa infliggere un trattamento peggiorativo all’ergastolano non collaborante perché ha esercitato la facoltà di non prestare partecipazione attiva a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato. Significa quindi ritardare la possibilità di domandare l’estinzione della pena senza alcuna giustificazione costituzionalmente legittima.  

 

6. Un terzo dubbio di costituzionalità non manifestamente infondato riguarda la eliminazione della collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante. Intanto, è la stessa riforma del regime ostativo a fornire un indizio di particolare importanza, nella parte in cui (come visto sopra) esclude la retroattività delle modifiche in peius riguardanti l’accesso alla liberazione condizionale da parte degli ergastolani che hanno commesso reati prima dell’entrata in vigore del decreto legge. Non solo. La stessa riforma prevede in modo esplicito che il vecchio comma 1 bis dell’art. 4 bis ord. pen. (appunto quello sulla collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante) continua ad applicarsi a tutti i condannati, qualora abbiano commesso reati prima dell’entrata in vigore del decreto legge 162/2022. In questi casi, non valgono i nuovi requisiti previsti in via generale per tutti i non collaboratori, poiché, oltre all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata (sul punto non modificata), si applica unicamente la nuova disciplina sulla richiesta dei pareri, informazioni e accertamenti. Da queste prime due indicazioni traspare quindi in modo abbastanza chiaro l’intento del legislatore di riservare un diverso trattamento ai casi di collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, nel caso in cui i reati in discussione siano stati commessi prima del 31 ottobre 2022, la data di entrata in vigore del decreto legge 162.

Tuttavia, quello che vale per il passato non vale per il futuro, dal momento in cui, appunto per i reati commessi dopo il 31 ottobre 2022, la collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante sparisce letteralmente dal nostro ordinamento. In questo caso, il dubbio di costituzionalità non appare manifestamente infondato poiché agendo in questo modo il legislatore finisce con il trattare in modo eguale situazione differenti, violando l’art. 3 Cost.

Basandosi sul principio di eguaglianza, la Corte costituzionale prima nel 1994 e dopo nel 1995 ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 bis comma 1 ord. pen. poiché non era costituzionalmente legittimo trattare in modo eguale situazioni differenti, nel primo caso quando vi è una limitata partecipazione al fatto (sent. 357/1994) e nel secondo quando vi è l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità (sent. 65/1995). Eliminare integralmente queste due ipotesi, insieme a quella della collaborazione oggettivamente irrilevante, introdotta dal legislatore in sede di conversione del d.l. 306/1992, significa esporsi ad un dubbio di costituzionale non manifestamente infondato, per violazione del principio di eguaglianza.

D’altro canto, sulla questione la Corte costituzionale è intervenuta anche di recente. Sebbene il caso di specie riguardasse l’estensione del pericolo di ripristino anche ai casi di collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile, evenienza recisamente esclusa dalla Corte, che ha quindi confermato la “sola” attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, è del tutto evidente che le argomentazioni della Consulta (sent. 20/2022) si basano proprio sul diverso trattamento che l’ordinamento deve riservare alle ipotesi di collaborazione di cui al vecchio comma 1 bis: il motivo per il quale non è possibile estendere il pericolo di ripristino anche al vecchio comma 1 bis è anche il motivo per il quale non si può cancellare dall’ordinamento lo stesso vecchio comma 1 bis, si chiama principio di eguaglianza, che non permette di trattare in modo identico delle situazioni differenti.

 A nulla vale sostenere che ora con la riforma del regime ostativo la preclusione assoluta è stata relativizzata. In primo luogo, quando la Corte ha adottato la sentenza appena ricordata (sent. 20/2022) era già stata dichiarata incostituzionale la preclusione assoluta, in riferimento ai permessi premio e a tutti i reati previsti nel I comma dell’art. 4 bis ord. In secondo luogo, vale la pena affrontare una tesi, che potrebbe essere la seguente: ora la persona potrebbe esporre alla magistratura di sorveglianza “le ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione”, come prevede a seguito del d.l. 162/2022 il nuovo comma 1 bis dell’art. 4 bis ord. pen., e di conseguenza rendere “eventualmente” dedotta la magistratura di sorveglianza del fatto che non si è prestata utile collaborazione con la giustizia perché risulta irrilevante, impossibile, inesigibile. Secondo questa linea di pensiero, in fin dei conti, si potrebbe eliminare il vecchio comma 1 bis proprio perché non lo si starebbe eliminando.

La questione da affrontare è la seguente. Da una parte, il legislatore ha inteso aggiungere l’avverbio “eventualmente” perché la Corte costituzionale è stata particolarmente chiara nell’argomentare attorno alla libertà di non collaborare “che certo l’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto” (§ 8.1, cons. dir. sent. 253/2019). Dall’altra parte, serve valutare la possibilità che l’ordinamento penitenziario “obblighi” la persona a fornire alla magistratura di sorveglianza gli specifici motivi che inducono a ritenerne impossibile, irrilevante, inesigibile la collaborazione con la giustizia. Si tratterebbe a tutti gli effetti di un vero e proprio obbligo, dal momento in cui sarebbe solo quella la sede entro la quale far valere i motivi della collaborazione impossibile, inesigibile, irrilevante: o lì o niente.

Ora, vi è una evidente tensione tra il fornire “eventualmente” le ragioni della mancata collaborazione e l’obbligo di farlo nel caso in cui si intenda evidenziare la oggettiva irrilevanza della collaborazione, la limitata partecipazione al fatto o l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità.  Vero che di diritto al silenzio – corollario essenziale della inviolabilità del diritto di difesa, diritto al silenzio che costituisce in ogni caso un principio supremo dell’ordinamento, in grado di elevarsi a controlimite del diritto europeo – sembrerebbe doversi discutere più per la fase di cognizione che per quella di esecuzione penitenziaria, non di meno, anche riferendosi alla libertà di non collaborare, si dovrebbe dire, esattamente come il diritto al silenzio, che o vale sempre o non vale mai, non può valere a seconda del contenuto di ciò che una persona intenda portare all’attenzione della magistratura di sorveglianza.

Il discorso attorno alla collaborazione/mancata collaborazione non ha nulla a che fare con la meritevolezza del beneficio e della misura alternativa. Non stiamo parlando dell’atteggiamento che la persona deve tenere al fine di ottenere un beneficio o una misura alternativa, quello del quale ci stiamo occupando è la libertà di non collaborare, la quale, ancorché a prima vista “coperta” dall’avverbio “eventualmente”, in realtà finisce per essere trasfigurata poiché genera un trattamento del tutto identico nei confronti di persone che versano in situazioni del tutto differenti. Prima della sua eliminazione, e di là delle disposizioni transitorie delle quali si è detto sopra, le ipotesi contemplate nel comma 1 bis erano equipollenti alla collaborazione con la giustizia, nel senso che permettevano l’accesso ai benefici e alle misure alternative, e questo in presenza della preclusione assoluta, ma, come si visto, in realtà anche dopo la sent. 253/2019, nel momento in cui la Corte (sent. 20/2022) ha rigettato la questione di costituzionalità circa l’estensione del pericolo di ripristino. Una volta venuta meno in termini generali la preclusione assoluta, il punto è che non si riesce a ragionare in termini coerenti tra due sole alternative, il collaboratore e il non collaboratore, e questo perché eliminare la previsione del vecchio comma 1 bis significa precludere la possibilità di distinguersi da chi non ritiene di dover addurre in alcun modo le ragioni a sostegno della scelta di non collaborare. Si dirà: ma se una persona non intende dire nulla sul punto alla magistratura di sorveglianza è pur sempre libero di farlo, ma la questione è che non ha più in questo caso alcun procedimento ad hoc che gli permetta di domandare alla sorveglianza di verificare se il suo è un caso di oggettiva, irrilevante o inesigibile collaborazione.

 

7. Vi è poi un quarto dubbio di costituzionalità non manifestamente infondato. Il decreto legge qui in discussione prevede che sia de jure impossibile accordare benefici e misure alternative ai detenuti sottoposti al regime detentivo differenziato. Si tratta di una scelta che comporta un effetto boomerang.

Una cosa è sostenere che de facto vi è incompatibilità tra le cause che giustificano il regime detentivo differenziato e la possibilità di provare l’assenza di attualità e di pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata. Altra è prevederlo de jure, e questo perché il provvedimento che sottopone una persona all’art. 41 bis II c. ord. pen. è un decreto ministeriale. La stessa cosa per quanto riguarda la proroga. Può un decreto ministeriale interferire sulla concessione o meno dei benefici e delle misure alternative? Se la riforma trasforma il de facto in de jure il rischio nel minimo è che si valuti non manifestamente infondata una questione di costituzionalità, congegnata attorno alla seguente argomentazione: è costituzionalmente legittimo, prima di ogni intervento dell’autorità giudiziaria, anzi a prescindere da ogni intervento dell’autorità giudiziaria, rendere impossibile de jure qualsiasi beneficio o misura alternativa, effetto che si produce per via dell’adozione di un decreto ministeriale?

Lo scopo del regime detentivo differenziato è quello di sospendere l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza, una volta ravvisati elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti. Alcuni potrebbero sostenere che nella formulazione legislativa dell’art. 41 bis II c. ord. pen. è già ricompresa l’impossibilità ora sancita dal decreto legge 162/2022. E che di conseguenza la disposizione sarebbe del tutto inutile.

Invero, la formulazione del decreto legge nella parte specifica lascia aperta una diversa alternativa, nel momento in cui afferma che i benefici possono essere concessi al detenuto sottoposto al regime detentivo differenziato “solamente dopo che il provvedimento applicativo di tale regime speciale sia stato revocato o non prorogato”. La lettera di questa previsione pare proprio riferire il divieto di concedere benefici solo e soltanto al provvedimento di applicazione del regime detentivo differenziato, eventualmente ad una sua revoca o non proroga, in entrambi i casi disposte sempre dal Ministro. E quindi la domanda torna ad essere la seguente: è costituzionalmente legittimo far derivare il divieto di concessione di benefici solo e soltanto da un decreto ministeriale, di applicazione, di revoca o di non proroga? Per quale motivo privare la persona detenuta al regime detentivo differenziato della stessa possibilità di domandare un beneficio? La domanda sarebbe sicuramente inammissibile, scatterebbe questa nuova preclusione assoluta, che mai è esistita, visto che alle domande è sempre stato risposto nel merito (in modo spesso sbrigativo) che non era possibile accordare il beneficio, dal momento in cui erano prevalenti i profili legati alla pericolosità sociale.

Non può essere il Ministro, come vuole il decreto legge, a precludere il giudizio di merito, deve essere un giudice a dover affermare che il beneficio non può essere accordato. La differenza tra inammissibilità e rigetto nel merito è lampante: forse a qualcuno nel nostro ordinamento può essere precluso rivolgersi ad un giudice al fine di poter domandare un beneficio? La risposta del decreto legge è positiva, ma non sembra essere una risposta immune da dubbi di costituzionalità, ed è evidente che una cosa è il ricorso al giudice per contestare l’applicazione o la proroga del regime detentivo differenziato e altro è rivolgersi al giudice per eventualmente ottenere un beneficio.

Peraltro, la giurisprudenza costituzionale è del tutto consolidata nel ritenere legittime le restrizioni imposte dal regime detentivo differenziato solo nel caso in cui abbiano come finalità il contenimento della pericolosità di singoli detenuti, impedendo i collegamenti tra questi e i membri delle organizzazioni criminali che si trovino in stato di libertà. Ciò che il regime detentivo differenziato intende evitare “è che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il regime penitenziario normale, possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa” (da ultimo sent. 186/2018, § 4.1. cons. dir., che richiama diversi precedenti nello stesso senso). Di conseguenza, le misure adottate “non devono essere tali da vanificare del tutto la necessaria finalità rieducativa della pena (…) e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità” (sempre la sent. 186/2018, § 4.3 cons. dir.).

Ma se nessuna misura può “vanificare del tutto la necessaria finalità rieducativa della pena” è mai possibile che una legge precluda de jure la eventuale concessione di ogni tipo di beneficio o misura alternativa fino alla revoca o alla non proroga del regime detentivo differenziato? Non si tratta solo di valutare la lesione del diritto anche fosse solo di domandare ad un giudice un beneficio, precluso per via della preclusione assoluta che significa inammissibilità della domanda, poiché il problema riguarda anche la completa vanificazione della finalità rieducativa della pena, esito conseguente all’applicazione e alla proroga del regime detentivo differenziato con decreto ministeriale. Se il permesso di necessità non è precluso per legge ai detenuti al regime detentivo differenziato, a maggior ragione non lo dovrebbe essere il permesso premio, e questo perché il senso di umanità e la rieducazione costituiscono le due coordinate di riferimento costituzionali indisgiungibili quando si ragiona sul trattamento penitenziario e sulla funzione della pena. Così come avviene con il permesso di necessità, che si potrà negare o accordare, così deve avvenire per il permesso premio, che si potrà negare o accordare: precludere per legge in questo secondo caso il vaglio di merito è l’ennesima preclusione assoluta che è di dubbia costituzionalità in riferimento al diritto al giudice e alla funzione rieducativa della pena.

 

8. Esisterebbe infine anche un quinto ulteriore profilo da esaminare. Si tratta della parte della riforma del regime ostativo che dispone i nuovi requisiti da soddisfare, senza alcuna distinzione a seconda del beneficio o della misura alternativa. L’esempio più evidente riguarda la dimostrazione dell’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna. Non è manifestamente infondata la questione di costituzionalità a tale proposito, nel momento in cui la medesima dimostrazione è richiesta indipendentemente da ciò che il detenuto ostativo intende domandare alla magistratura di sorveglianza.

L’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato è tuttora presente nel IV c. dell’art. 176 cod. pen. che disciplina la liberazione condizionale. Il perché sia disciplinato insieme alla liberazione condizionale è del tutto evidente: prima di domandare la liberazione condizionale, o meglio insieme alla domanda di liberazione condizionale, il detenuto deve aver adempiuto alle obbligazioni civili derivanti dal reato. Detto altrimenti: anche quando la magistratura di sorveglianza ha ritenuto integrato il requisito del sicuro ravvedimento, la concessione della liberazione condizionale, che estingue la pena, è subordinata a questo fondamentale adempimento. Sono stati scontati gli anni necessari per la domanda, è integrato il sicuro ravvedimento, ma la persona affinché la pena si estingua deve adempiere alle obbligazioni civili.

A questo punto, ed è bastato aver riportato cose risapute da tutti, la domanda viene spontanea: ma è possibile domandare l’adempimento delle obbligazioni civili anche nel caso in cui la persona stia domandando un permesso premio? Non pare un dubbio di costituzionalità manifestamente infondato, e il riferimento principale è ovviamente il principio di eguaglianza.

Una cosa è domandare sempre e comunque di allegare elementi specifici che consentano di escludere l’attualità dei collegamenti e il pericolo di un loro ripristino. In questo caso, è un profilo che riguarda in termini generali il tema della pericolosità sociale. Non conta il beneficio o la misura alternativa che si stanno domandando. Ma cosa radicalmente differente è disporre che per un permesso premio la magistratura di sorveglianza possa dichiarare inammissibile una domanda perché non soddisfa un requisito presente nell’ordinamento per la domanda di liberazione condizionale. Uscire per tre ore dal carcere equivale ad estinguere la pena? Se la risposta è negativa, si lede il principio di eguaglianza nel momento in cui si trattano allo stesso modo casi differenti.

A nulla ma proprio a nulla vale la clausola di salvezza, riformulata dal decreto legge in senso più restrittivo: se l’art. 176, IV c., cod. pen. dispone il “salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle”, il nuovo comma 1 bis dell’art. 4 bis ord. prevede “l’assoluta impossibilità di tale adempimento”. Lasciamo anche in disparte il nuovo aggettivo “assoluta”, il problema qui evidenziato non cambia di una virgola: se una persona non dimostra di trovarsi nella (assoluta) impossibilità di adempiere alle obbligazioni civili, è costituzionalmente legittimo precludergli la possibilità di avere un permesso premio, così come gli è preclusa la possibilità di ottenere la liberazione condizionale?

L’esempio appena esposto è davvero quello più problematico, poiché in tutti gli altri casi i nuovi requisiti richiesti attengono alla meritevolezza del beneficio o della misura alternativa. Non che sia opportuno prevedere eguali requisiti di merito in presenza di domande di permesso premio e di liberazione condizionale, solo per fare un esempio, non di meno, attenendo alla meritevolezza, non sono in grado di precludere l’ammissibilità della domanda, esito che invece è previsto in riferimento al mancato adempimento delle obbligazioni civili.

8.1. Chiaro poi che si apre un ulteriore problema che però non è di legittimità costituzionale, piuttosto di interpretazione della riforma del regime ostativo, sempre per quanto riguarda i nuovi requisiti da soddisfare. L’interpretazione conforme a Costituzione sembra proprio essere quella “suggerita” dalla Corte costituzionale nella decisione con la quale ha restituito gli atti al giudice a quo, in riferimento alla originaria questione di costituzionalità vertente sull’ergastolo ostativo.

Riportiamo per la estrema chiarezza e linearità quanto scritto nell’ord. 227/2022:

“l’art. 1, comma 1, lettera a), numero 3), prevede l’ampliamento delle fonti di conoscenza cui la magistratura di sorveglianza deve ricorrere e la modifica del relativo procedimento, nonché l’onere in capo al detenuto di fornire elementi di prova contraria in caso di indizi, emergenti dall’istruttoria, dell’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero del pericolo di loro ripristino” (corsivo aggiunto).

Il passaggio significa una cosa, ai nostri fini: la magistratura di sorveglianza svolge l’istruttoria e, in caso emergano indizi dell’attuale sussistenza di collegamenti e del pericolo del loro ripristino, al detenuto spetta l’onere di allegare e quindi fornire elementi che dimostrino il contrario. Detto quindi del problema riguardante l’adempimento delle obbligazioni civili, e ricordato quanto evidenziato in apertura circa la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, quella offerta dalla Corte è la interpretazione più convincente riguardante il soddisfacimento dei nuovi requisiti di merito previsti dalla riforma.

La più convincente anche perché garantisce tanto il diritto di difesa quanto la parità delle armi, entrambi aventi copertura costituzionale. Come può esercitare il diritto di difesa, in parità delle armi, il detenuto al quale venisse chiesto di allegare “al buio” elementi di “prova” contraria? Come detto, il problema non è di legittimità costituzionale, ma di corretta interpretazione della normativa, corretta nel senso di quella che permette di rispettare la Costituzione.

 

 

 

[2] Uso i dati riferiti alle persone in A.S. per due motivi. Primo, perché in questo circuito sono inseriti non tutti ma di certo solo persone con ascritti reati ostativi e, secondo, perché nelle statistiche del Ministero della Giustizia non si differenziano, ad esempio dentro i reati contro la pubblica amministrazione, quelli ostativi da quelli non ostativi. In ogni caso, al 30 giugno 2022, i detenuti per reati contro la pubblica amministrazione sono 8.869. Se, come è vero, nell’art. 4 bis ord. pen. sono ricompresi molti reati contro la pubblica amministrazione, il risultato è che i destinatari della riforma del regime ostativo indicati nel testo sono da considerare appunto nel minimo, come ho precisato.

[3] Si veda la Relazione del Ministro dell’Interno, comunicata alla Presidenza del Senato il 13 agosto 2019 (p. 9), ove si riporta anche il dato dei famigliari protetti, ossia 4.586, dei quali 1.856 minori (p. 37).

[4] Devo l’esempio riportato nel testo all’avv. Alessandro Ricci.

[5] Ci si potrebbe chiedere se lo spostamento di competenza riguardi anche i casi di permesso premio e di lavoro all’esterno nei quali la domanda è stata presentata prima dell’entrata in vigore del decreto legge. In assenza di disposizioni transitorie, e facendo applicazione della perpetuatio jurisdictionis, la risposta sembrerebbe negativa, salvo però che presso il magistrato sia stata già avviata la trattazione, e quindi sia già stato compiuto un atto o svolta un’attività. Vero che per radicare la competenza appare sufficiente la presentazione dell’istanza, non di meno a me pare (e magari sbaglio) che trattenere la competenza significhi anche garantire una qualche celerità del procedimento. Ma se nulla è stato ancora compiuto, si partirebbe da zero tanto dinanzi al magistrato quanto al tribunale. Non vi è dubbio che i due procedimenti non abbiano la medesima durata, ma questo è un profilo differente, visto che la perpetuatio jurisdictionis potrebbe in ipotesi valere anche all’inverso, nel caso in cui la competenza spostata fosse dal tribunale al magistrato. Rimarrebbe scoperta la questione del giudice naturale precostituito per legge, ma anche in questo caso bisogna sciogliere il nodo riguardante la sufficienza della presentazione di una istanza oppure la necessità che sia stata svolta almeno una qualche attività o un qualche atto. Se basta la presentazione, sta al magistrato. Se serve una qualche attività, e non è stata fatta, va al tribunale. Ovviamente, quanto argomentato nel testo vale per i permessi premio presentati dopo l’entrata in vigore del decreto legge, fermo restando che nulla vieterebbe ad un magistrato presso il quale è stata presentata istanza di permesso premio prima del 31 ottobre 2022, nel caso in cui optasse per il trasferimento, di sollevare la questione di costituzionalità, che andrebbe però ben motivata in termini di rilevanza, appunto per motivare il perché senza disposizioni transitorie ritiene di non dover applicare la perpetuatio jurisdictionis. Forse il legislatore della conversione, per tagliare la testa al toro, dovrebbe aggiungere una disposizione transitoria riguardante le domande di permesso premio e di lavoro all’esterno presentate prima dell’entrata in vigore del decreto legge.