Cass., sez. VI, sent. 23 maggio 2024 (dep. 3 luglio 2024) n. 26180, Pres. Fidelbo, Rel. D’Arcangelo
*Contributo destinato alla pubblicazione nel fascicolo 11/2024.
1. Nella sentenza che si segnala, la Sesta Sezione della Cassazione ha affrontato un peculiare caso di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.).
La fattispecie posta all’attenzione della Suprema Corte riguarda la condotta di un soggetto che, avendo percepito un contributo erogato dalla Regione Campania per la riconversione professionale in ambiti diversi dalla pesca marittima, si era cancellato dal registro dei pescatori marittimi impegnandosi a non svolgere simile attività lavorativa e, ciò non ostante, era stato rivenuto a bordo di un peschereccio, in occasione di un controllo svoltosi poco dopo il ricevimento dell’erogazione.
Secondo l’accusa, la presenza a bordo dell’imputato era significativa della ripresa dell’attività professionale di pesca, con conseguente obbligo di informazione nei confronti dell’Ente erogante, decadenza dal beneficio e restituzione di quanto percepito.
Il giudice di primo grado dichiarava la prescrizione ed allo stesso modo si esprimeva la Corte d’appello, adita dall’imputato.
Il difensore ricorreva in Cassazione lamentando un vizio di motivazione della sentenza di secondo grado che avrebbe erroneamente considerato come elemento probante la ripresa dell’attività professionale di pesca il fatto che l’imputato fosse stato reperito a bordo di un peschereccio in un’unica occasione.
La Suprema Corte annulla la sentenza impugnata per motivi del tutto estranei alle argomentazioni difensive: pur ritenendo che effettivamente l’imputato fosse ritornato a svolgere attività di pesca in modo professionale, secondo la sentenza in esame il fatto concreto non è sussumibile nel tipo descritto dall’art. 316-ter c.p. e, quindi, non sussiste.
2. La Corte di Cassazione giunge a negare la rilevanza penale del fatto concreto tramite due argomentazioni.
La prima concerne la struttura del tipo di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato.
La Corte rileva che nella descrizione del tipo delittuoso la norma incriminatrice non contempla, come evento del reato, la indebita ritenzione di aiuti già conseguiti in modo legittimo, ma oggetto di obbligo di restituzione per una qualsiasi ragione.
Secondo la Corte l’applicazione del canone ubi voluit dixit appare inevitabile considerando la fonte sovranazionale da cui proviene l’art. 316-ter c.p. La Convenzione PIF del 1995 designa come condotta meritevole di sanzione penale «ogni azione o omissione intenzionale di utilizzo o presentazione di documenti falsi, inesatti o incompleti, cui consegua la percezione o la ritenzione illecita di fondi provenienti dal bilancio delle Comunità europee» (art. 1); il legislatore italiano, tuttavia, è parzialmente venuto meno agli obblighi di criminalizzazione, attribuendo scientemente rilevanza penale ai soli comportamenti che cagionano un indebito conseguimento dell’erogazione pubblica.
Di conseguenza, ad avviso della Cassazione «la condotta di omessa informazione successiva alla regolare percezione del contributo pubblico (…) non integra il reato di cui all’art. 316-ter c.p.»[1].
La seconda argomentazione, invece, appare fondata su un ragionamento per assurdo.
Dopo aver ricordato che l’indebita percezione si consuma nel momento e nel luogo in cui il avviene il conseguimento indebito dell’erogazione, la Corte rileva che se si ammettesse la configurabilità del reato in caso di omessa restituzione del contributo legittimamente conseguito si dovrebbe ipotizzare la sussistenza un elemento di condotta che si realizza dopo la consumazione del reato.
3. Quanto al primo argomento utilizzato dalla decisione in discussione per negare la tipicità del fatto concreto, si può rilevare come la Cassazione sia estremamente rigorosa nel limitare la portata applicativa dell’art. 316-ter c.p., giungendo ad escludere la rilevanza penale delle situazioni in cui la condotta è strumentale ad occultare l’esistenza di una causa di decadenza dal contributo legittimamente acquisito ed il conseguente obbligo di restituzione.
Questo risultato non privilegia l’effettività della tutela del bene protetto[2].
Nell’ottica della tutela del bene protetto[3] l’inadempimento all’obbligo di restituzione comporta un pregiudizio al buon funzionamento ed alla libera formazione della volontà della P.A. paragonabile a quello derivante dall’indebito conseguimento del contributo; il lucro cessante della mancata restituzione risulta equiparabile al danno emergente della indebita percezione sia dal punto di vista degli interessi finanziari dello Stato, sia nella prospettiva dell’attività di programmazione economica attuata dagli Enti pubblici.
L’approccio scelto dalla Cassazione, invece, valorizza pienamente il principio di tassatività in materia penale[4], a discapito della tutela (penale) del bene protetto contro tutte le possibili modalità di aggressione. Secondo la Corte, infatti, la descrizione normativa dell’evento tipico[5] non consente all’interprete di estendere il perimetro del fatto alle ipotesi in cui l’omissione di informazioni dovute produca il risultato di esonerare il destinatario del contributo dall’obbligo di restituzione. In altri termini, nell’ambito dei possibili significati del lemma «consegue» non sembra possibile ricomprendere la situazione in cui il contributo è già stato legittimamente ottenuto, ma deve essere restituito per effetto dell’intervento di una causa sopravvenuta di decadenza dal beneficio pubblico.
L’esito raggiunto dalla sentenza in discussione è conforme all’intenzione del legislatore storico. Come ricorda la stessa Cassazione, la Convenzione PIF richiedeva l’incriminazione sia della percezione illecita sia della ritenzione illecita; tuttavia, il legislatore della l. 3000/2000, che ha ratificato ed eseguito la Convenzione, non ha ritenuto di introdurre entrambe le modalità di lesione degli interessi finanziari delle Comunità europee e, par cascade, degli altri soggetti sovraindividuali menzionati dall’art. 316-ter c.p.[6]
La conclusione proposta dalla sentenza in analisi tramite l’interpretazione letterale dell’art. 316-ter c.p. non sembra essere rafforzata dalla seconda motivazione offerta dalla Cassazione.
Secondo la Corte nel caso di specie non si configurerebbe «l’elemento di fattispecie dell’acquisizione del contributo pubblico mediante (…) l’omissione di informazioni dovute, in quanto il mendacio (conseguente all’omissione della comunicazione doverosa) sarebbe, infatti, solo successivo all’erogazione»[7].
Questa osservazione appare corretta nei limiti in cui effettivamente si può sostenere – come pare inevitabile – che l’evento tipico si snodi solo nel binomio erogazione/percezione del contributo pubblico.
Qualora, invece, si potesse legittimamente intendere il conseguimento dell’erogazione come comprensivo di quelle situazioni in cui il soggetto attivo riesce a trattenere quanto ottenuto evitando l’obbligo di restituzione, allora sarebbe difficile ritenere che il mendacio omissivo sia posteriore all’evento del reato.
Breve: la validità della seconda argomentazione dipende dalla correttezza della prima e non pare costituire un autonomo indice di non configurabilità dell’art. 316-ter c.p., nella forma della mancata restituzione del beneficio legittimamente ricevuto.
4. L’argomentazione utilizzata dalla sentenza in esame per dichiarare l’insussistenza del fatto riveste un sicuro interesse in relazione alla prima delle due questioni rimesse alle Sezioni Unite con l’ordinanza n. 276396/24[8] dalla medesima Sesta Sezione, tutt’oggi pendenti: la configurabilità del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche nell’ipotesi di un risparmio di spesa derivante dall’omissione di informazioni rilevanti, dovute per legge
Dato che la menzionata ordinanza di rimessione è già stata approfonditamente commentata in questa Rivista[9], ci si limiterà, in questa sede, a fissare alcuni punti indispensabili per il prosieguo del discorso.
Nel caso sottoposto alle Sezioni Unite, la Cassazione è chiamata a valutare la responsabilità ex artt. 316-ter c.p. e 24 d.lgs. n. 231/2001 di un soggetto collettivo che conseguiva una riduzione dei contributi da versare all’INPS, per effetto della mancata comunicazione di una circostanza impeditiva dell’accesso al regime agevolato.
Sono abbastanza evidenti le similitudini fra il fatto concreto affrontato dalla sentenza oggetto delle presenti note e quello che ha dato origine alla richiesta di intervento delle Sezioni Unite. In entrambi i casi l’aspetto peculiare delle vicende sub iudice riguarda la presenza di un risparmio di spesa come risultato della condotta tipica; nella vicenda rimessa alle Sezioni Unite la dichiarazione omessa consentiva una minore prestazione patrimoniale nei confronti di un Ente pubblico, allo stesso modo nella vicenda oggetto della decisione in esame l’omissione di informazioni circa la ripresa dell’attività di pesca professionale consentiva all’autore di evitare una prestazione patrimoniale nei confronti di un Ente pubblico (i.e. la restituzione di una somma ottenuta in modo lecito[10]).
Tornando all’ordinanza di rimessione, dalla relativa motivazione si desume la condivisione del Collegio delle perplessità – prevalentemente dottrinali[11] – riguardo alla correttezza dell’opzione ermeneutica che porta a sussumere il risparmio di spesa nell’ambito del tipo descritto dall’art. 316-ter c.p.
In particolare, il Collegio remittente fa leva sulla terminologia adottata dalla norma incriminatrice, sia nel primo comma (contributi, sovvenzioni, finanziamenti, mutui agevolati o erogazioni dello stesso tipo) sia nel secondo (somma indebitamente percepita), ritenendo estranee all’ambito applicativo le ipotesi in cui non c’è percezione di denaro pubblico ma solo risparmio di spesa; soluzione che parrebbe confermata dal mutamento di rubrica, oggi univocamente intitolata all’indebita percezione di erogazioni[12]. In sostanza, secondo la Sesta Sezione, il linguaggio del legislatore non può essere esteso alle ipotesi del risparmio di spesa senza violare il divieto di analogia.
L’ordinanza di rimessione, tuttavia, da anche conto di un costante orientamento giurisprudenziale di segno opposto[13], confermato dalla pronuncia delle Sezioni Unite nella sentenza Pizzuto[14] e successivamente ripreso adesivamente dalle Sezioni semplici, in non poche occasioni[15].
La Sesta Sezione, ritenendo di non doversi conformare ai principi enunciati dalla sentenza Pizzuto, ha proceduto ai sensi dell’art. 618 comma 1-bis c.p.p. ed ha investito nuovamente le Sezioni Unite della questione (non controversa).
La presenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale che ammette che il risparmio di spesa possa integrare l’illecita percezione di erogazioni ha comprensibilmente portato la dottrina ad emettere una prognosi negativa circa la tenuta, di fronte alle Sezioni Unite, dell’impostazione proposta dall’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione[16].
La sentenza in esame, tuttavia, potrebbe fornire degli spunti per una diversa valutazione delle aspettative di successo, presso le Sezioni Unite, dell’interpretazione dell’art. 316-ter c.p. proposta dalla Sesta Sezione.
Infatti, la medesima Sesta Sezione – in una composizione difforme per quattro quinti rispetto al Collegio che aveva antecedentemente sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite[17] – ha mostrato di ‘prendere sul serio’ il principio di tassatività applicando l’insegnamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 98/2021[18] e, si potrebbe ipotizzare, tenendo presente che, proprio con la menzionata decisione, la Consulta ha ribadito il suo ruolo di arbitro della conformità a Costituzione del diritto vivente e della sua attività di definizione della norma per effetto dell’interpretazione della disposizione; senza che la legalità ‘di partenza’ della legge penale implichi necessariamente la conformità al principio di tassatività dell’opzione ermeneutica privilegiata dal Giudice[19].
In definitiva, sembra che la sentenza in commento possa essere letta come un suggerimento alle Sezioni Unite sul fatto che, dopo più di un decennio dalla sentenza Pizzuto, siano maturi i tempi per il raggiungimento di una soluzione che dia il giusto spazio al principio di tassatività[20] e che si possa legittimamente escludere la rilevanza penale delle condotte dell’art. 316-ter c.p. che riguardano un mero risparmio di spesa.
È indubbio che un esito quale quello auspicato dall’Ordinanza di rimessione n. 276396/24 sia idoneo a cristallizzare una situazione in cui la protezione del bene giuridico tutelato dall’art. 316-ter c.p. presenta una minore latitudine rispetto a quella che, oggi, si delinea includendo nell’evento tipico il risparmio di spesa. E, da questo punto di vista, potrebbe sollevare qualche perplessità il fatto che la sentenza in esame abbia ritenuto che «le vicende solutorie successive alla percezione dell’erogazione pubblica possono, dunque, rilevare sul piano amministrativo e civile, ma non su quello penale»[21], senza confrontarsi con il vuoto di tutela che questa soluzione comporta[22].
Tuttavia, bisogna tenere nella giusta considerazione la circostanza che il costo del principio di tassatività è inevitabilmente una disparità di trattamento fra situazioni omogenee che esprimono la medesima necessità di tutela.
Come è stato autorevolmente illustrato «l’analogia è strumento di giustizia: non va dimenticato che, specie in un mondo giuridico complesso in cui il legislatore fatica a star dietro all’evoluzione sociale, il sacrificio implicato dal divieto di analogia è grande»[23], ma questa rinuncia è indispensabile se si vogliono preservare le rationes di tutela del cittadino nei confronti degli arbitri del potere punitivo e di supremazia del potere legislativo sul giudiziario, sottostanti al divieto di analogia in malam partem[24].
Inoltre, come suggerito dall’Ordinanza di rimessione n. 276396/24, è necessario non confondere il possibile vuoto di tutela penale determinato dalla rigorosa applicazione del principio di tassatività con la diversa – eventualmente minore – punibilità che il divieto di applicazione analogica di quella specifica norma incriminatrice può comportare[25]. Se il fatto concreto non è immediatamente sussumibile in una norma incriminatrice, ma integra con certezza una diversa figura di reato, non sembra che ci sia alcun vuoto di tutela che possa suggerire all’interprete una valida ragione per avventurarsi lungo – se non oltre – gli incerti confini che separano l’interpretazione estensiva da quella analogica[26].
[1] Punto 3.2. del Considerato in diritto.
[2] In senso concorde, in relazione alla decisione qui annotata, v. F. Palazzo, Indebita percezione di erogazioni pubbliche e omesse dichiarazioni doverose, in Giur. it., 2024, 2185 ss. che illustra anche i motivi per cui, nel caso di specie, la tutela del bene protetto non potrebbe essere affidata all’art. 640-bis c.p.
[3] Sulle varie sfumature del bene protetto, che possono essere sussunte nella macrocategoria del buon andamento della P.A., v. ad es. C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, Padova, 2016, 169 ss.; M. Romano, Art. 316-ter, in Commentario sistematico del codice penale, I delitti contro la pubblica amministrazione, I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2013, 82 ss.
[4] Qui inteso nell’accezione di divieto di analogia in malam partem; v. G. Marinucci - E. Dolcini - G. L. Gatta, Manuale di diritto penale, Milano, 2024, 89 ss.
[5] Sul fatto che l’apprensione del contributo pubblico sia l’evento tipico (che determina il momento della perfezione) v. A. Spena, Art. 316-ter, in Codice penale commentato, a cura di M. Ronco - B. Romano, Torino, 2012, 1589 e M. Riverditi, Reati contro la pubblica amministrazione, in F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, II, a cura di A. Rossi, Milano, 2022, 454 ss.; in giurisprudenza si discute se l’evento sia rappresentato dalla percezione del contributo da parte del privato (ad es., Cass. Sez. VI, 24 novembre 2021 (dep. 18 gennaio 2022), n. 2125) o dall’erogazione del contributo da parte dell’ente pubblico (ad es., Cass. Sez. VI, 30 novembre 2022 (dep. 2 marzo 2023), n. 9060).
[6] Sull’impossibilità di interpretazione conforme a Convenzione (PIF) dell’art. 316-ter c.p. che allarghi la tipicità all’illecita ritenzione v., con la consueta autorevolezza, F. Palazzo, Indebita percezione di erogazioni pubbliche, cit., 2184 ss.
[7] Punto 3.3. del Considerato in diritto; la comunicazione doverosa evocata dalla motivazione riguarda la verificazione della circostanza che determina la decadenza dal beneficio (nel caso di specie la ripresa dell’attività di pesca professionale).
[8] Cass. Sez. VI, 7 maggio 2024 (dep. 11 luglio 2024) n. 27639.
[9] G. Ponteprino, L’art. 316 ter al vaglio delle Sezioni unite: configurabilità e momento consumativo del reato nelle ipotesi di indebito conseguimento di risparmio di spesa, in questa Rivista, 2 ottobre 2024.
[10] In senso concorde sul fatto che la sola percezione del contributo conseguente la dichiarazione di cessazione di attività di pesca non possieda alcun disvalore penale – nemmeno a titolo di frode ai danni dello Stato, nell’ipotesi di riserva mentale sull’effettivo abbandono della professione di pescatore al momento della percezione del contributo – v. F. Palazzo, Indebita percezione di erogazioni pubbliche, cit., 2185 ss.
[11] V., in particolare, L. Tumminello, Obblighi contributivi e tutela penale della sicurezza sociale, Torino, 2020, p. 232 ss.; v. anche I. Giacona, Il delitto d’indebita percezione di pubbliche erogazioni (art. 316-ter c.p.): effetti perversi di una fattispecie mal formulata, in Cass. pen., 2012, p. 3412 ss.
[12] Per approfondimenti v., G. Ponteprino, L’art. 316 ter al vaglio delle Sezioni unite, cit., 5 ss.
[13] Ad es. Cass. Sez. V, 9 luglio 2009 (dep. 9 ottobre 2009), n. 39340; Cass. Sez. V, 9 luglio 2009 (dep. 9 ottobre 2009), n. 39340 CED 245153; Cass. Sez. V, 17 settembre 2008 (dep. 6 novembre 2008), n. 41383.
[14] Cass. Sez. Un., 16 dicembre 2010 (dep. 25 febbraio 2011), n. 7537, che, tuttavia, doveva affrontare il problema della delimitazione dei rapporti fra indebita percezione, da un lato, e truffa ai danni dello Stato in concorso con il falso del privato in atto pubblico, dall’altro, nel caso di un soggetto che presenta una falsa autocertificazione sui propri redditi per ottenere l’esenzione dal ticket sanitario.
[15] V. di recente, Cass. Sez. VI, 21 giugno 2022 (dep. 25 luglio 2022), n. 29674; in precedenza v., ad es., Cass. Sez. VI, 7 maggio 2019 (dep. 18 luglio 2019), n. 31903; Cass. Sez. II, 16 marzo 2016 (dep. 19 aprile 2016), n. 15989 e Cass. Sez. II, 17 ottobre 2014 (dep. 24 novembre 2014), n. 48663.
[16] V., nuovamente, G. Ponteprino, L’art. 316 ter al vaglio delle Sezioni unite, cit., 10 ss. il quale rileva una tendenza giurisprudenziale verso la supplenza ermeneutica causata dall’imperizia del legislatore; sia in senso restrittivo, con l’interpretazione tipizzante, sia in quello espansivo, con l’inclusione nella sfera di rilevanza penale di situazioni che dimostrano una sicura offensività, ma che tendono a sfuggire dalle maglie degli elementi costitutivi della figura di reato (individuando nell’interpretazione espansiva – rectius analogica – dell’art. 609-quinquies c.p. un esempio paradigmatico dell’impostazione giurisprudenziale che vuole assicurare una piena tutela a discapito della lettera della legge).
[17] I due Collegi avevano in comune solo il Presidente.
[18] La Consulta, in quel frangente, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale rilevando come l’interpretazione estensiva dell’art. 572 c.p. posta dal giudice rimettente a fondamento dell’operatività della norma processualistica indiziata di illegittimità costituzionale (art. 521 c.p.p.) non fosse stata adeguatamente giustificata nei suoi elementi distintivi dall’interpretazione analogica vietata. Su questa pronuncia v., per tutti, F. Palazzo, Costituzione e divieto di analogia, in Dir. pen. proc., 2021, 1218 ss.
[19] In questi termini v., M. Scoletta, Verso la giustiziabilità del divieto di analogia a sfavore del reo?, in Osservatorio AIC, 2021, 204 ss.
[20] Così come avviene, ad es., in tema di turbativa d’asta: il significato letterale dei termini «gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private» non può essere esteso sino a ricomprendere i concorsi pubblici per assunzione del personale della P.A. che, pertanto, non rientrano nella sfera di operatività dell’art. 353 c.p. In questi termini v. Cass., Sez. VI, 24 maggio 2023 (dep. 25 luglio 2023), n. 3231; Cass., Sez. VI, 10 maggio 2023 (dep. 16 giugno 2023), n. 26225; Cass., Sez. VI, 24 febbraio 2022 (dep. 28 giugno 2022), n. 24772; Cass., Sez. VI, 28 ottobre 2021 (dep. 16 febbraio 2022), n. 5536. In dottrina v. I. Fina, Concorsi pubblici “turbati”: il divieto di analogia in malam partem impedisce la configurabilità del delitto di turbativa d’asta, in Dir. pen. proc., 2024, 57 ss.
[21] Punto 3.3. del Considerato in diritto.
[22] In senso adesivo rispetto all’impostazione adottata dalla sentenza in esame v. F. Palazzo, Indebita percezione di erogazioni pubbliche, cit., 2185: «a noi pare che la conclusione sia ineccepibile e che la questione possa finire qui e così».
[23] F. Palazzo, Conviventi more uxorio e analogia in bonam partem: prima lettura di una sentenza “giusta” più che ardita, in questa Rivista, 22 marzo 2021, 9.
[24] Sulle ragioni giustificatrici del divieto di analogia v., per tutti, G. Marinucci - E. Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 2001, 167 ss. e, anche in prospettiva storica, G. Marinucci, L’analogia e la “punibilità svincolata dalla conformità alla fattispecie penale”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 1256 ss.
[25] In quel frangente la Corte ha individuato alcune fattispecie di reato che, in presenza di determinate condizioni, sarebbero applicabili nell’ipotesi in cui le Sezioni Unite dovessero escludere la configurabilità dell’art. 316-ter c.p. (art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000, qualora fossero superate le soglie; art. 2 comma 1-bis d.l. n. 463/1983, qualora il datore di lavoro abbia operato trattenute previdenziali ai lavoratori calcolate in base al regime ordinario; art. 37 comma 1 l. 689/81), precisando, però, che queste fattispecie non coinvolgono la responsabilità da reato dell’ente (unico imputato in quel processo).
[26] Sugli incerti confini fra analogia ed interpretazione estensiva v., ex multis, M. Vogliotti, Dove passa il confine? Sul divieto di analogia in materia penale, Torino, 2011, passim e F. Giunta, G. Carcaterra, O. Di Giovine, N. Mazzacuva, V. Velluzzi, Tra analogia e interpretazione estensiva. A proposito di alcuni casi problematici tratti dalla recente giurisprudenza, in Criminalia, 2010, 347 ss.; sul tema rimane fondamentale N. Bobbio, voce Analogia, in Nss. dig. it., II, Torino, 1957, 604 ss.