Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia
Violenza di genere e vittimizzazione secondaria: un’indagine tra le assistenti sociali
1. Il presente contributo[1] riporta i risultati di un’indagine volta a ricostruire il punto di vista delle assistenti sociali rispetto al fenomeno della violenza di genere contro le donne e in particolare sul rischio di vittimizzazione secondaria[2] che risulta essere diffuso all’interno dei servizi socioassistenziali. L’obiettivo principale era quello di individuare le criticità esistenti e le aree di possibile miglioramento su cui intervenire, al fine di garantire contesti istituzionali sicuri, competenti e accoglienti per le donne sopravvissute alla violenza. Chi subisce una violenza, infatti, non solo deve affrontarne le più o meno gravi conseguenze fisiche e/o psicologiche, ma può imbattersi anche in ostacoli di tipo burocratico, istituzionale e relazionale una volta che chiede aiuto. Le donne vittime di violenza si trovano spesso a dover gestire processi lunghi e stressanti, interrogatori condotti con scarsa sensibilità, colpevolizzazioni implicite o esplicite e un supporto inadeguato da parte delle reti formali di aiuto.
2. L’indagine svolta si inserisce in un più ampio panorama di studi che intendono sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere una cultura istituzionale più attenta e responsabile. Il punto di partenza della riflessione è rappresentato dallo studio sulle competenze genitoriali da parte dei CTU in situazioni di violenza domestica[3], pubblicato in questa Rivista qualche anno fa. Tuttavia, il presente lavoro concentra l’attenzione sulla figura dell’assistente sociale, ritenuta centrale per la sua funzione di mediazione tra bisogni individuali e risorse del territorio. In quanto professioniste operanti in diversi ambiti – non necessariamente specializzate in violenza di genere – le assistenti sociali devono essere in grado di riconoscere tempestivamente le situazioni di violenza e attivare interventi adeguati, attraverso strumenti aggiornati e coerenti con i diritti delle persone coinvolte. Tale capacità è fondamentale, poiché la violenza può emergere in qualunque servizio e contesto operativo.
3. In linea con l’approccio utilizzato nello studio precedente, si è adottata una metodologia qualitativa fondata sulla conduzione di interviste semi-strutturate. La costruzione di una traccia tematica ha garantito l’omogeneità dei contenuti trattati durante le interviste, pur lasciando ampio spazio alla libera espressione delle partecipanti. La scelta di questo strumento si è rivelata particolarmente adeguata alla sensibilità dell’argomento affrontato, facilitando la creazione di un clima disteso e informale, favorevole all’instaurarsi di una relazione di fiducia. Ciò ha permesso alle operatrici intervistate di condividere con maggiore autenticità le proprie esperienze, percezioni e rappresentazioni, esprimendosi con il proprio linguaggio e secondo le proprie prospettive soggettive[4]. Sono state complessivamente intervistate nove assistenti sociali operanti in diversi servizi del territorio di Varese e Busto Arsizio, in Lombardia, tutte attivamente coinvolte nelle rispettive reti antiviolenza. Le partecipanti, di nazionalità italiana, hanno un’età compresa tra i 29 e i 55 anni, con una media di 39,3 anni. Le professioniste operavano in contesti eterogenei, tra cui due Centri Antiviolenza (CAV), due Consultori Familiari, tre servizi sociali comunali e due servizi di Tutela Minori, offrendo così una prospettiva diversificata sotto il profilo formativo, professionale e generazionale.
4. I risultati della ricerca hanno confermato una preparazione ancora insufficiente delle assistenti sociali sul tema della violenza di genere, una lacuna formativa che viene solo parzialmente colmata attraverso le iniziative promosse dalle reti antiviolenza territoriali. L’indagine ha inoltre evidenziato l’assenza di protocolli operativi formalizzati nella maggior parte dei servizi territoriali, fatta eccezione per i Centri Antiviolenza, che rappresentano il principale punto di riferimento e a cui le altre strutture rinviano le donne vittime di violenza. Permangono, infine, stereotipi che associano il fenomeno a specifiche condizioni sociali o culturali, nonché una tendenza a responsabilizzare le madri per il mancato allontanamento dal partner violento, mentre il ruolo paterno viene frequentemente trascurato nelle valutazioni. Si confermano, dunque, i dati che già erano emersi in precedenti studi[5].
5. La prima importante criticità emersa riguarda l’ambito formativo: tutte le assistenti sociali intervistate hanno dichiarato di non aver ricevuto, durante il percorso universitario, una preparazione specifica e obbligatoria sulla violenza di genere, benché molto diversi siano gli anni nei quali ciascuna di loro ha conseguito la laurea (tra il 1992 e il 2019) e diverse siano le Regioni italiane nelle quali hanno studiato. Nei corsi di laurea in Servizio Sociale, infatti, questo tema continua a non essere affrontato in modo strutturato e sistematico:
“Durante il mio percorso di studi la materia sulla violenza di genere è stata trattata in modo insufficiente. Non erano presenti dei corsi specifici” (Intervista n. 8)
Di fronte alla complessità delle situazioni che si trovano ad affrontare, molte professioniste segnalano un senso di inadeguatezza, soprattutto nella costruzione di percorsi di supporto realmente efficaci per le donne vittime di violenza. Da qui nasce la consapevolezza della necessità di un aggiornamento continuo, che permetta di colmare le lacune lasciate dalla formazione universitaria. Le aree in cui questa esigenza si fa sentire con più forza sono tre: l’ambito relazionale, quello legale e quello sanitario. Le competenze relazionali, spesso sviluppate sul campo, risultano fondamentali ma non sufficienti senza una solida base teorica e multidisciplinare.
“Avere una conoscenza esauriente è sicuramente importante. A livello relazionale sento di aver acquisito le competenze grazie all’esperienza lavorativa; tuttavia, riconosco la necessità di un aggiornamento sul fenomeno, in particolare per quanto riguarda le materie legali” (Intervista n. 4)
“Avere una formazione sul fenomeno è importante per comprendere le diverse dinamiche della violenza. Nonostante le mie competenze, sento di avere delle lacune riguardo agli aspetti sanitari” (Intervista n. 7)
Spesso, le conoscenze più specifiche vengono acquisite fuori dal contesto accademico, attraverso percorsi formativi promossi da enti del territorio, in particolare dai Centri Antiviolenza. Le esperienze di Busto Arsizio e Varese, ad esempio, vengono citate come esempi virtuosi, capaci di offrire strumenti concreti e aggiornati per affrontare le situazioni più complesse. Inoltre, la ‘formazione continua’ si rivela un tassello essenziale per garantire interventi professionali consapevoli e mirati, in grado di rispondere in modo competente alle molteplici sfaccettature della violenza di genere e prevenire il rischio di vittimizzazione secondaria.
6. L’analisi delle testimonianze raccolte restituisce poi l’immagine di un sistema di intervento contro la violenza di genere ancora frammentato e disomogeneo. Un’altra criticità segnalata, infatti, riguarda l’assenza di procedure operative standardizzate, soprattutto all’interno dei servizi che non appartengono alla rete dei Centri Antiviolenza. In assenza di linee guida chiare, molti servizi si affidano alla competenza individuale delle operatrici e alla collaborazione con i CAV, considerati veri e propri punti di riferimento sul territorio. Quando viene intercettata una situazione di violenza, la prassi più diffusa è quella di rivolgersi direttamente al Centro Antiviolenza competente, che si fa carico dell’intervento e dell’accompagnamento della persona coinvolta. Accanto ai CAV, anche i Comuni e i servizi di Tutela Minori svolgono un ruolo importante nell’intercettazione dei casi di violenza, offrendo canali di accesso e modalità di intervento differenti a seconda del contesto e delle risorse disponibili. Al contrario, i Consultori familiari sembrano avere un ruolo più marginale all’interno di questo sistema: le segnalazioni riferiscono infatti un numero sensibilmente più basso di accessi rispetto ad altri servizi. Una situazione che evidenzia la necessità di rafforzare il coordinamento tra i diversi attori territoriali e promuovere una formazione condivisa, in grado di garantire una risposta più omogenea e strutturata.
7. Sul piano delle credenze personali e professionali, molte delle assistenti sociali intervistate mostrano una buona consapevolezza del legame tra cultura patriarcale e violenza di genere, riconoscendo le dinamiche di potere e controllo che caratterizzano le relazioni maltrattanti. Tuttavia, accanto a questa consapevolezza, persistono rappresentazioni stereotipate che rischiano di compromettere una comprensione piena e corretta del fenomeno. In diverse interviste emergono infatti convinzioni che associano la violenza a categorie sociali o culturali specifiche — come persone con basso livello socioeconomico, dipendenze o appartenenti a contesti culturali e religiosi non occidentali.
“L’aspetto culturale è determinante in questo tipo di fenomeni, ad esempio nelle coppie miste o nel mondo musulmano non si da valore alla donna; quindi, è più frequente che questo accada” (Intervista n. 5)
“Tra le cause ci sono sicuramente alcuni contesti, ad esempio la povertà educativa, un livello di istruzione basso e l’utilizzo di alcol e sostanze, in cui è più frequente che ci sia violenza” (Intervista n. 6)
Queste letture, seppur diffuse, risultano parziali e fuorvianti: si tratta infatti di “associazioni improprie”[6] che finiscono per oscurare la natura profondamente strutturale della violenza maschile contro le donne. Questa forma di violenza non nasce da condizioni individuali o culturali specifiche, ma affonda le sue radici in squilibri di potere sistemici e in una visione patriarcale della società. È dunque fondamentale sottolineare che non esistono profili “tipo” del maltrattante o della vittima. La letteratura scientifica è concorde nel ritenere che la violenza di genere sia un fenomeno trasversale, che può manifestarsi in qualsiasi classe sociale, qualsiasi sia il livello di istruzione o il contesto culturale[7]. L’unico elemento ricorrente è la percezione della donna come soggetto subordinato all’uomo. Contrastare questi stereotipi è un passaggio fondamentale non solo per migliorare la qualità degli interventi, ma anche per evitare che pregiudizi inconsapevoli alimentino forme di vittimizzazione secondaria, limitando l’accesso alla protezione e al riconoscimento per alcune categorie di donne.
8. Un nodo particolarmente critico emerso dalle interviste riguarda le rappresentazioni legate alla maternità in contesti di violenza domestica. Nella maggior parte dei colloqui, si rileva una tendenza diffusa a considerare la madre come principale responsabile della situazione familiare, soprattutto in relazione alla sua capacità genitoriale. In diversi casi, le assistenti sociali intervistate attribuiscono una parte significativa della responsabilità alla donna per non aver lasciato tempestivamente il partner violento, mettendo così a rischio anche i figli:
“La segnalazione permette una valutazione della capacità genitoriale della madre, che è un elemento importante. Spesso le donne non comprendono che l’esposizione dei minori alla violenza comporta gravi conseguenze per il loro benessere” (Intervista n. 2)
“Per la mia esperienza, queste donne reticenti hanno rischiato di esporre i figli ad una condizione molto pregiudizievole senza accorgersene. Ovviamente queste situazioni le mettono sotto una lente di osservazione importante” (Intervista n. 4)
Queste affermazioni riflettono una visione ancora largamente radicata secondo cui le madri non sarebbero pienamente consapevoli dei rischi a cui espongono i figli, contribuendo così a una valutazione della loro capacità genitoriale strettamente legata alla tempestività — o meno — della denuncia della violenza. Tali rappresentazioni mettono in luce la persistenza di stereotipi di matrice patriarcale all’interno delle pratiche professionali, che rischiano di influenzare profondamente le valutazioni delle operatrici, spostando l’attenzione e la responsabilità quasi esclusivamente sulla madre, e finendo per oscurare il ruolo primario dell’autore della violenza nella genesi e nel mantenimento delle dinamiche familiari disfunzionali[8]. Solo una delle professioniste intervistate ha esplicitamente richiamato l’attenzione sulla necessità di valutare anche la responsabilità paterna all’interno della dinamica familiare:
“È la responsabilità genitoriale della madre che viene valutata, ma non dimentichiamo che ci deve essere anche la valutazione del padre, che, invece, viene messa meno sotto la lente di ingrandimento” (Intervista n.1)
Questa mancanza di equilibrio nella lettura delle responsabilità genitoriali evidenzia l’urgenza di un cambiamento culturale e professionale. Un cambiamento che sposti il focus dalla madre “inadeguata” al ruolo attivo e determinante dell’autore della violenza, anche nel danno arrecato ai figli.
9. In conclusione, per affrontare in modo davvero efficace il fenomeno della vittimizzazione secondaria, è necessario che l’intervento dei servizi sociali e delle istituzioni si fondi su un approccio competente, coordinato e profondamente umano. Non basta applicare protocolli o uniformare le procedure: serve una modalità di lavoro coerente e consapevole, capace di mettere al centro la relazione con la persona, ascoltata e accolta con rispetto, empatia e attenzione. In questo scenario, il ruolo delle assistenti sociali si conferma cruciale, figure di snodo tra i bisogni delle donne sopravvissute alla violenza e le risposte del territorio. Proprio per questo è indispensabile che possano contare su strumenti aggiornati, su una formazione specifica e su percorsi di aggiornamento continuo, indipendentemente dal servizio o dal contesto professionale in cui operano. Accanto alla preparazione tecnica, però, è altrettanto urgente promuovere un lavoro di riflessione critica. Solo riconoscendo e decostruendo gli stereotipi e i pregiudizi che ancora attraversano le pratiche professionali, sarà possibile evitare il rischio di contribuire a forme di colpevolizzazione o marginalizzazione delle sopravvissute. Contrastare la violenza di genere significa, in ultima analisi, attivare un cambiamento culturale profondo, che coinvolga tutti i livelli della società: dalle istituzioni al mondo della scuola, dai luoghi di lavoro fino alla cittadinanza attiva. È solo attraverso un impegno collettivo e condiviso che si potrà costruire un sistema capace non solo di proteggere e accompagnare le donne sopravvissute, ma anche di prevenire la violenza e di trasformare quelle strutture sociali e culturali che ancora oggi la alimentano. Credere alle parole delle sopravvissute, ascoltarle senza giudizio, garantire loro giustizia e dignità: è da qui che si inizia a rompere il silenzio e a spezzare il ciclo della vittimizzazione secondaria.
[1] Si tratta di una rielaborazione della ricerca svolta, sotto la supervisione della prof.ssa Claudia Pecorella, per la tesi di laurea in Servizio Sociale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
[2] La letteratura individua tre livelli di vittimizzazione nel contesto della violenza di genere: la vittimizzazione primaria, che corrisponde all’atto violento subito e alle sue conseguenze dirette, spesso aggravate dal legame tra vittima e aggressore; la vittimizzazione secondaria, che si verifica nel momento in cui la vittima si relaziona con istituzioni, media o società, ricevendo risposte inadeguate, minimizzazioni del danno o colpevolizzazioni che ledono il suo diritto alla protezione e al sostegno; la vittimizzazione terziaria, che si manifesta quando l’autore della violenza non viene identificato o condannato, contribuendo a una profonda frustrazione e al consolidarsi di una visione negativa di sé nella vittima. Sul tema, tra gli altri, P. Di Nicola Travaglini, Il divieto di vittimizzazione secondaria, in C. Pecorella (a cura di), Donne e violenza: stereotipi culturali e prassi giudiziarie, Giappichelli, 2021; A. Fleckinger, Il duplice rischio: Dinamiche della vittimizzazione secondaria di madri sopravvissute alla violenza di genere nella tutela minori, in Culture e Studi del Sociale, 2023, vol. 8, pp. 102-116 (https://www.cussoc.it/journal/article/view/293/199).
[3] Cfr. M. Feresin, M. Santonocito e P. Romito La valutazione delle competenze genitoriali da parte dei CTU in situazioni di violenza domestica: un’indagine empirica, Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 3/2021, in questa Rivista, 29 settembre 2021.
[4] P. Corbetta, Metodologia e tecniche della ricerca sociale, Il Mulino, 2014.
[5] Cfr. M. Feresin, F. Anastasia e P. Romito, La mediazione familiare nei casi di affido dei figli/e e violenza domestica: contesto legale, pratiche dei servizi ed esperienze delle donne in Italia, in Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, vol. XI, n. 2, maggio-agosto 2017, pp. 17-34: in linea con ulteriori ricerche sul tema, si sostiene che la violenza contro donne e bambini/e è spesso minimizzata o ignorata, che i professionisti faticano a rilevarla e, nei percorsi di mediazione, le madri vittime vengono frequentemente colpevolizzate, mentre persistono dinamiche di potere e controllo da parte dell’autore di violenza.
[6] F. Saccà, R. Belmonte, Sopravvissute. La violenza narrata dalle donne, Roma: Castelvecchi, 2022.
[7] P. Romito, La violenza di genere su donne e minore. Un’introduzione, FrancoAngeli, 2000; T. Grimaldi, La violenza “domestica” contro le donne: caratteristiche e frequenza, in P. Romito, N. Folla, M. Melato (a cura di), La violenza sulle donne e sui minori. Una guida per chi lavora sul campo, Carocci Faber, 2017.
[8] S.P. Johnson, C.M. Sullivan, How Child Protection Workers Support or Further Victimize Battered Mothers, in Affilia, 2008, vol. 23, pp. 242-258 (https://doi.org/10.1177/0886109908319113).