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12 Settembre 2024


Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 2/2024 - Il nuovo Codice Rosso, di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto: un libro da leggere, non da consultare


Coordinamento scientifico: Claudia PecorellaElena BiaggioniLuisa BontempiElisabetta CaneviniNoemi CardinalePaola Di Nicola TravagliniMassimiliano DovaFrancesca GaristoFabio Roia

 

Il nuovo Codice Rosso, di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto: un libro da leggere, non da consultare

di Claudia Pecorella

 

 

Non fatevi ingannare dalle apparenze: “Il nuovo Codice Rosso” di Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto non è soltanto un commentario alla legge 69/2019, aggiornato alla legge 168/2023 e alla recentissima Direttiva europea del 2024. È molto di più, come del resto ci si poteva aspettare, conoscendo il quotidiano e appassionato impegno dei due autori nel contrasto alla violenza di genere: lei Consigliera di Cassazione, già consulente giuridica della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio; lui a capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Tivoli, nota da tempo per le buone prassi adottate al fine di rendere effettiva la tutela delle donne e dei loro figli.

Neanche il sottotitolo (“Il contrasto alla violenza di genere e ai danni delle donne nel diritto sovranazionale e interno”) riesce a dar conto di quello sguardo a tuttotondo che viene rivolto alla violenza sulle donne e ai tanti problemi che, anche nell’ambito giudiziario, l’intervento preventivo e repressivo ancora incontra: perché non può trarre alcun beneficio dall’analisi delle norme chi non conosce il fenomeno sui cui esse vanno a incidere:

«solo l’interprete che conosce i “meccanismi di genere” e la discriminazione sessuale, che non pongono sullo stesso piano uomo e donna, è in grado di leggere i comportamenti descritti come violenza, altrimenti li tratterà come episodi isolati e privati persino irrilevanti penalmente o con una matrice affettiva e psicologica» (p. 95).

 

In questa prospettiva, ampio spazio viene riservato alle fonti sovranazionali, che non possono in alcun modo essere ignorate perché costituiscono l’intelaiatura all’interno della quale si collocano le normative nazionali che ne sono espressione e alla cui stregua pertanto vanno interpretate, adottando una «prospettiva di genere nell’analisi giuridica per comprendere a pieno la struttura sulla quale nasce e cresce la violenza nei confronti delle donne»:

«solo la conoscenza delle fonti sovranazionali in materia di contrasto alla violenza di genere, domestica e contro le donne e l’opera attuativa di tutti i soggetti dell’apparato giudiziario, a partire dalle forze dell’ordine, consente la corretta applicazione delle norme interne così cogliendo il valore delle novità introdotte dalle leggi nn. 69/2019 e 168/2023. Per intraprendere questa delicata operazione, che modifica meccanismi atavici, è necessario affrontare il tema del pregiudizio e dello stereotipo di genere, che secondo le fonti sovranazionali precludono l’accesso alla giustizia delle donne vittime di violenza» (p. 28).

 

Molto ricche sono anche le fonti interne, richiamate dagli autori per delineare il fenomeno della violenza sulle donne nel nostro Paese e per saggiare l’adeguatezza ad esso delle norme vigenti volte a reprimerne le diverse manifestazioni. Accanto alle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di cassazione – quest’ultima straordinariamente prolifica negli ultimi anni – spunti di riflessione (ad esempio in tema di ritrattazioni o di Domestic Homicide Review) vengono ricavati anche dai meno noti “Orientamenti in materia di violenza di genere”, adottati il 3 maggio 2023 dalla Procura generale della Corte di cassazione, così come dalla recente ricerca della Procura della Repubblica di Tivoli sulla (pretesa) strumentalità della denuncia di violenza domestica da parte delle donne.

Nel percorso che si snoda nell’analisi delle tante norme, sostanziali e processuali, dedicate al contrasto della violenza contro donne e minori, l’aspetto più interessante e originale risiede nell’impiego, scrupoloso e costante, della «interpretazione orientata alla parità di genere e alla non discriminazione delle donne», sulla base di quanto richiesto dalle fonti internazionali. Vengono così alla luce inediti profili di inadeguatezza di alcune disposizioni, soprattutto per la lettura (forse anche inconsapevolmente) riduttiva o contraria all’interesse delle donne che ne viene tradizionalmente data, così come esigenze di intervento da parte del legislatore per sanare persistenti vuoti di tutela nei confronti delle vittime della violenza:

«Le norme della Convenzione di Istanbul e della Direttiva 2012/29/UE, sopra citate, non hanno valenza programmatica, ma assumono carattere precettivo nel nostro ordinamento tanto da imporre all’autorità giudiziaria di interpretare i singoli istituti, processuali e sostanziali, non in modo parcellizzato, ma in un’ottica globale, che pone al centro la tutela delle vittime dei reati di violenza di genere domestica e contro le donne, senza distinguere il settore civile e minorile da quello penale, ma armonizzandoli al fine di evitare contraddittorietà tra i giudicati ed offrire uno spazio di tutela effettiva e sostanziale alle persone offese» (p. 432).

 

Un esempio del cambio di prospettiva che si propone al lettore sono le considerazioni svolte a proposito del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), attraverso il quale viene per lo più repressa la violenza domestica nel nostro ordinamento: considerazioni che partono dalla constatazione che la Convenzione di Istanbul all’art. 3 lett. b) «definisce la violenza domestica senza alcun riferimento alla reiterazione degli atti, richiamata solo nella violenza psicologica e nelle condotte persecutorie», nonché dalla preoccupazione espressa dal GREVIO, nel monitoraggio sulla applicazione della Convenzione in Italia, che l’interpretazione del reato previsto dall’art. 572 c.p. come reato abituale «ridimensioni fortemente l’applicazione della norma e dunque la punizione della violenza domestica»:

«Già oggi potrebbe ripensarsi la natura abituale del reato sulla base di diversi argomenti che, in questa sede, si possono solo enunciare: a) non menziona condotte reiterate ma utilizza il termine maltratta che, secondo la lingua italiana, indica il trattare “in malo modo, con durezza, violenza, crudeltà” sicché non vi è alcun elemento lessicale che avvalori la necessità di plurimi comportamenti od omissioni realizzati in un arco temporale; b) non utilizza parole che consentano di ravvisare l’abitualità, a differenza di altre fattispecie in cui il legislatore ha voluto evidenziare la necessità di “condotte reiterate”, come per gli atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e la tortura (art. 613-ter c.p.)» (p. 175).

 

L’attenzione alla dimensione di genere nell’analisi delle norme penali porta anche a riflettere sul linguaggio neutro e talvolta mistificante che viene utilizzato per dare rilievo a comportamenti violenti dei quali in realtà sono le donne le vittime prevalenti, trattandosi di evidenti espressioni di quella violenza di genere che si vuole contrastare. Esemplare a questo riguardo è la norma sull’omicidio (art. 575 c.p.), dietro la quale l’uccisione della partner o ex-partner – che avviene con una frequenza inquietante – scompare in modo ancora più significativo per l’introduzione della aggravante – anch’essa neutra – della relazione affettiva esistente tra autore e vittima (art. 577 comma 1 c.p.). In questa situazione è inevitabile interrogarsi sulla opportunità di introdurre una figura specifica di femminicidio, che secondo gli Autori potrebbe svolgere un ruolo importante anche sul piano culturale:

«È auspicabile che “il femminicidio”, inteso come uccisione di una donna per ragioni legate alla sua appartenenza di sesso, diventi un delitto a sé perché, come accaduto con l’approvazione dell’art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso), a seguito dell’uccisione di Pio La Torre e del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lo Stato, in tutte le sue articolazioni, decise di definire quel complesso fenomeno, con le sue peculiarità, opponendovisi, innanzitutto, attraverso l’attribuzione di un nome.

Nel misurarsi sulla definizione di cosa fosse la mafia (oggi il delitto è costituito da ben 8 commi, pari a 54 righe) l’intero Paese è riuscito a crescere acquisendo la necessaria consapevolezza per contrastarla, soprattutto sotto il profilo culturale, e così il legislatore, la società civile, i luoghi di formazione e la stessa magistratura, con le forze di polizia, si sono confrontati con una categoria, divenuta anche giuridica, che delinea le sue multiformi radici (politiche, economiche, culturali, antropologiche, criminologiche, sociali, ecc.).

L’assenza del delitto di femminicidio nel codice penale non consente di pensarlo in quanto tale e, dunque, non offre strumenti utili per decrittarlo, a partire dalla rappresentazione della sua stessa matrice, per prevenirlo e punirlo» (p. 254)

 

Perplessità analoghe solleva anche l’espressione “reati culturalmente orientati”, che si è andata affermando per indicare, tra l’altro, alcune forme di violenza di cui donne e bambine sono le principali vittime e che costituiscono comunque le ipotesi maggiormente frequenti nelle aule giudiziarie del nostro Paese. Anche in questo caso, sono solo le ‘lenti di genere’ che possono far emergere l’impiego fuorviante e quindi inadeguato del linguaggio:

«La definizione di reati culturalmente orientati rischia di ridimensionare e sottovalutare l’offensività della condotta […] giustificandola col contesto in cui detti reati si inscrivono e qualificandola come “pratica consuetudinaria”. […] In presenza di diritti umani, riconosciuti da tempo dalle Convenzioni delle Nazioni Unite e dal Consiglio d’Europa, oltre che dalla Costituzione italiana non vi può essere alcun arretramento “giustificazionista”, neanche richiamando la categoria dei reati culturalmente orientati che non solo non trova alcun riscontro normativo, ma nell’ambito di essa, non a caso, rientrano tutti i reati di violenza contro le donne, come il matrimonio forzato, i maltrattamenti, la violenza sessuale, gli omicidi a difesa “dell’onore sessuale”, le mutilazioni genitali femminili, ecc.» (p. 148 s.).

 

Passando poi al piano processuale, un primo aspetto degno di nota è quello relativo all’importanza che viene attribuita all’assistenza di un avvocato per la donna vittima di violenza: una considerazione non scontata, se solo si ricorda la questione di illegittimità costituzionale che era stata sollevata – sia pure senza successo – nei confronti della previsione del gratuito patrocinio, a prescindere dal reddito, (anche) per le vittime di questi reati. L’esperienza acquisita sul campo suggerisce agli autori di spingersi oltre nella tutela delle donne:

«Nella pratica quotidiana si assiste a una maggiore esposizione al pericolo proprio delle donne prive di un difensore con una adeguata formazione nella materia, in quanto non supportate dal punto di vista giuridico e umano. Sono proprio le vittime non assistite (o assistite da difensori non specializzati), infatti, a essere indotte alla remissione di querela, a richiedere personalmente revoche o sostituzioni di misure cautelari per gli autori del reato, in quanto minacciate da questi o dai parenti oppure lasciate in una condizione di totale isolamento sociale e familiare o, ancora, a correre rischi all’atto della libera zione o scarcerazione. Per queste ragioni sarebbe opportuno che la difesa tecnica della persona offesa fosse obbligatoria nei reati di violenza di genere» (p. 411 s.).

 

Un altro tasto dolente sul quale si richiama l’attenzione del lettore è quello della costituzione di parte civile nel processo penale, da parte della donna vittima di violenza: quello che è l’esercizio di un diritto – al quale le donne sono di solito incoraggiate per una rappresentanza più efficace delle loro ragioni (che quasi mai sono economiche) – porta con sé (ingiustamente) delle conseguenze controproducenti, sul piano della loro credibilità agli occhi del giudice:

«La Corte di legittimità richiede ulteriori riscontri esclusivamente quando la persona offesa sia anche costituita parte civile, ritenendola, in tal caso, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discende dal riconoscimento della responsabilità dell’imputato. Appare evidente che questo orientamento, quando non vi sono prove ulteriori oltre la dichiarazione della vittima (evenienza ricorrente nella gran parte dei casi in ragione della natura del reato) la scoraggia alla costituzione di parte civile e dunque all’esercizio di un proprio diritto, con ciò che ne consegue in termini di riduzione dell’accesso delle donne alla giustizia» (p. 215).

 

Ampio spazio è dedicato al tema delle misure cautelari, precautelari e di prevenzione, che dovrebbero essere adottate, ricorrendone i relativi presupposti, per mettere in protezione la vittima nel più breve tempo possibile e nella misura più efficace possibile. Si tratta di un aspetto cruciale nella lotta contro la violenza di genere, rispetto al quale appare decisiva una specifica formazione sul fenomeno da parte di chi è chiamato a farsi carico delle esigenze di tutela delle donne (che deve saper riconoscere e interpretare correttamente). All’assenza evidente di questa formazione può verosimilmente ricondursi lo scarso uso del braccialetto elettronico, a supporto della misura concretamente applicata, se è vero che «nel triennio 2019-2022 è stato utilizzato solo il 35,5% dei 12.000 braccialetti elettronici disponibili e a fronte di 1200 braccialetti elettronici disponibili mensilmente sono risultate solo 426 richieste da parte degli Uffici giudiziari» (p. 446).

A conclusione di questa rapida carrellata, che certo non rende merito delle tante suggestioni che la lettura del volume lascia nel lettore, va sottolineato quello che è il leitmotiv di tutta l’opera: la necessità della formazione sul tema (prima ancora della specializzazione) di tutti coloro che a vario titolo entrano in contatto con le vittime e con gli autori (medici, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, avvocati, forze dell’ordine, operatori penitenziari, etc.) e, per quanto qui più interessa, degli operatori giudiziari. Alla resistenza culturale - ancora diffusa anche tra questi ultimi - nel comprendere la gravità del fenomeno e l’urgenza delle azioni necessarie per contrastarlo cerca di porre rimedio periodicamente il legislatore, rendendo obbligatorio e circoscritto in un tempo limitato il loro intervento. L’auspicio è però che si proceda alla formazione obbligatoria e regolare di tutti i magistrati - se non altro per adempiere a quanto prescritto dalla Direttiva del maggio 2024 – nella consapevolezza che, come già ricordato, la tutela delle vittime, per essere effettiva, necessita di un intervento condiviso e coordinato di uffici diversi, con competenze e poteri di intervento diversi:

«presupposto della virtuosa collaborazione tra autorità giudiziarie diverse è la formazione specifica dei giudici civili e minorili rispetto all’ambito penalistico della violenza di genere e domestica, e dei pubblici ministeri e giudici penali rispetto alla materia civile e minorile riguardante specificamente il diritto di famiglia» (p. 534).