Lunga vita alla Convenzione di Istanbul
Coordinamento scientifico: Claudia Pecorella, Elena Biaggioni, Luisa Bontempi, Elisabetta Canevini, Noemi Cardinale, Paola Di Nicola Travaglini, Massimiliano Dova, Francesca Garisto, Fabio Roia.
Sono passati già dieci anni da quando, l’11 maggio 2011, la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa riunito a Istanbul, è stata aperta alla firma degli Stati.
L’Italia ha ratificato la Convenzione con la legge del 27 giugno 2013, n. 77: come hanno opportunamente ricordato le Sezioni Unite delle Cassazione, la Convenzione “entrata in vigore il 1° agosto 2014, dopo aver raggiunto il numero minimo di Paesi firmatari, è vincolante per il nostro Paese”(cfr. Cass., S.U., 29 gennaio 2016, n. 10959).
L’adeguamento del nostro ordinamento alle disposizioni della Convenzione di Istanbul è iniziato sin da subito, attraverso il d.l. 93/2013, convertito nella legge 119/2013, ma ancora non può dirsi concluso. Come si legge nel Rapporto del GREVIO sullo stato di attuazione della Convenzione nel nostro Paese, pubblicato nel gennaio 2020, è oggi quanto mai necessario che si correggano tutte quelle prassi applicative che vittimizzano ulteriormente la donna che denuncia gli abusi subiti e che si proceda all’introduzione di una norma volta a sanzionare le molestie sessuali.
Sul fronte della repressione penale delle molestie sessuali, le indicazioni della Convenzione di Istanbul (art. 40) devono oggi essere considerate dal legislatore italiano alla luce dell’impegno che pure si è assunto con la ratifica della Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro (Ginevra 21 giugno 2019), ad opera della legge del 15 gennaio 2021 n. 4.
Più complessa, anche se particolarmente urgente, è la questione della vittimizzazione secondaria delle donne che hanno subito violenza (alla quale sarà dedicato uno dei prossimi numeri dell’Osservatorio): le prassi denigratorie e colpevolizzanti per le donne, che si riscontrano nelle aule di tribunale e delle quali si vedono gli effetti nelle sentenze adottate, non solo vanificano le conquiste raggiunte sul piano normativo, ma alimentano anche la diffidenza delle vittime nei confronti del sistema di giustizia penale, trattenendole dal denunciare la violenza subita. Quanto sia censurabile questo stato di cose emerge del resto molto bene dalle due condanne che il nostro Paese ha già ricevuto dalla Corte Europea dei Diritti Umani, dapprima con la sentenza Talpis c. Italia del 2 marzo 2017 e da ultimo con la sentenza J.L. c. Italia del 27 maggio scorso.
È bene ricordare che la Convenzione di Istanbul vincola gli Stati ad affrontare il tema della violenza di genere e della violenza domestica in quattro diverse prospettive (i c.d. 4 pilastri), al fine di Prevenire la violenza, Proteggere le vittime, Perseguire gli autori e offrire delle Politiche integrate. Senza ripercorrere analiticamente i progressi compiuti dal nostro Paese in questi diversi ambiti, meritano di essere ricordate alcune novità significative dei dieci anni appena trascorsi, che possono dirsi frutto dell’attuazione della Convenzione:
– il riconoscimento normativo della violenza assistita dai minori, attraverso l’introduzione dell’art. 61 n. 11-quinquies c.p. e la successiva modifica attuata con il Codice Rosso (l. 69/2019), che ha esplicitato che il minore che ha assistito alla violenza nell’ambito familiare è considerato a tutti gli effetti persona offesa dal reato (art. 572 co. 4 c.p.);
– la previsione della circostanza aggravante della relazione affettiva, che si realizza quando il fatto è rivolto contro il coniuge (o ex coniuge) o comunque una persona legata da relazione affettiva, anche se cessata, (artt. 577 n. 1, 609-ter n. 5-quater e 612-bis comma 2);
– il nuovo reato di costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.), che punisce la pratica dei matrimoni forzati;
– il reato di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento (art. 387-bis c.p.), di cui si sentiva la necessità, essendo insufficiente il mero aggravamento della misura cautelare, previsto dall’art. 276 c.p.p.;
– la estensione – pur con condizioni applicative non esenti da critica – dell’ammonimento del Questore, introdotto nel 2009 per il solo reato di atti persecutori, ai fatti di percosse o lesioni lievi, che rappresentano i c.d. reati sentinella della violenza domestica;
– l’attribuzione della priorità assoluta nella trattazione del ruolo di udienza (art. 132-bis disp. att. c.p.p.) ai reati di maltrattamenti (art. 572 c.p.), atti persecutori (art. 612-bis c.p.), violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) e violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.);
– la estensione del gratuito patrocinio, senza limiti di reddito, per le vittime di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori e pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili: una disciplina di recente messa in discussione, in quanto sospettata di generare ingiustificate disparità di trattamento, ma la cui legittimità è stata prontamente riconosciuta dalla Corte costituzionale con la sentenza 1/2021;
– la particolare attenzione rivolta alle misure cautelari, prevedendosi, ad esempio, l’obbligo di comunicare alla persona offesa la revoca o la sostituzione della misura, per darle la possibilità di presentare una memoria scritta (art. 299 co. 3 c.p.p.);
– l’introduzione di un permesso di soggiorno speciale, della durata di un anno, per le donne straniere vittime di maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale, lesioni, pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili e sequestro di persona che si trovino sul territorio nazionale (art. 18-bis del TU n. 286 del 1998).