Cass., Sez. I, sent. 29 novembre 2019 (dep. 20 dicembre 2019), n. 51489, Pres. Di Tomassi, Est. Santalucia
1. Con la sentenza in epigrafe, la prima sezione della Cassazione chiude definitivamente una tormentata vicenda processuale e prova a fare chiarezza sulla vexata quaestio dei requisiti strutturali occorrenti per ritenere integrato il delitto di associazione mafiosa nel peculiare caso di formazioni impiantate all’estero ma collegate a una organizzazione mafiosa ben radicata e operante in Italia, nella specie la ’ndrangheta in Calabria. Va subito detto che i giudici di legittimità annullano senza rinvio la sentenza di condanna emessa dai giudici di merito nei riguardi di due imputati, ritenuti responsabili del reato di partecipazione mafiosa a una “locale” della ’ndrangheta operante nel territorio svizzero di Frauenfeld e dipendente funzionalmente dalla “casa madre” della “locale di Fabrizia”, comune della provincia di Reggio Calabria. E lo fanno dopo che nel medesimo procedimento giudiziario avevano richiesto l’intervento delle sezioni unite per dirimere il ritenuto contrasto giurisprudenziale “in merito alla configurabilità del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., con riferimento alla articolazione costituita in un territorio diverso da quello in cui si è consolidato il sodalizio-madre”. Richiesta rimandata al mittente dal Presidente aggiunto della Cassazione con nota del 19 luglio 2019, il quale, diversamente opinando, ha ridimensionato la questione entro i termini di una “corretta valutazione delle evidenze probatorie”, tenendo conto che “il prisma rappresentato dai variegati arresti sul tema, può sostanzialmente ricondursi ad unità dove si considera il presupposto ermeneutico comune che anche nel caso della delocalizzazione richiede, per poter riconoscere la natura mafiosa dell’articolazione territoriale, una capacità intimidatrice effettiva e obbiettivamente riscontrabile”[1]. Già nel 2015, del resto, un’altra sezione della Cassazione aveva rimesso la stessa questione alle Sezioni unite, e anche allora il vertice dell’organo nomofilattico aveva rinunciato a intervenire ritenendo non sussistente un effettivo contrasto giurisprudenziale: precisando, tuttavia, che non poteva esservi spazio per varianti ermeneutiche della fattispecie criminosa che non contemplassero quale requisito essenziale l’accertamento in loco di una obbiettiva “esteriorizzazione” del metodo mafioso secondo quanto richiesto dal comma 3 dell’art. 416 bis c.p., sia pure desunto dalla spendita e dallo sfruttamento del collegamento con la casa-madre e della relativa fama criminale[2].
2. Ebbene, i giudici di legittimità sembrerebbero ora aver accolto questa sorta di “moral suasion” tendente a spostare “l’asse ermeneutico” dal piano della vera e propria questione in punto di diritto, considerata appunto non conflittuale o quantomeno componibile dalle citate note presidenziali, a quello più malleabile costituito dal discorso probatorio. Ferma restando, d’altra parte, la necessità ribadire alcuni punti fermi relativi ai requisiti oggettivi del delitto, tanto che la censura alla sentenza scrutinata scorre infine su un doppio registro, ove conclusivamente si rileva che le “lacune probatorie sono anche frutto della non corretta premessa dei contenuti prescrittivi della norma incriminatrice per la parte ove si è erroneamente ritenuto che il reato di associazione mafiosa venga integrato pur quando si sia di fronte a una mera capacità di esercitare la forza intimidatrice di cui si sostanzia il cd metodo mafioso (…)”[3]. Si badi, è un errore che trova la sua fonte in alcuni filoni della giurisprudenza di legittimità richiamati dalla sentenza censurata, orientamenti che la Cassazione torna a mettere sotto stretta osservazione nel quadro di una minuziosa opera di ricostruzione volta a smorzarne le contraddizioni rispetto ad altri maggiormente condivisi. E così, se da un lato si dà atto che per ravvisare gli estremi del delitto associativo con riguardo a una cellula “delocalizzata” in altro territorio ove opera il sodalizio-matrice, il “collegamento organico-funzionale e la riconoscibilità esterna sono le coordinate concettuali che evitano, se correttamente intese, di dar rilievo a mere potenzialità di estrinsecazione di forza intimidatrice, ossia a forme mute di mafiosità che si pongono, in quanto tali, al di fuori dell’ambito di applicazione della norma incriminatrice”. Dall’altro, si ha pure cura di precisare che l’uno non può assorbire l’altra. Nel senso che rimangono comunque estranee alla tipicità, affermano i giudici di legittimità, le “forme di collegamento che si consumino soltanto al suo interno, nell’adozione di moduli organizzativi e di rituali di adesione”, perché in tal caso “il raccordo con la casa-madre non definito sul piano funzionale si esprimerebbe in forme di per sé insufficienti – appunto perché confinate nei cd interna corporis del gruppo – a porsi come occasione per la proiezione all’esterno di una realtà criminale, impedendone la percezione sul territorio e quindi l’apprezzamento della capacità di condizionamento mafioso nel contesto sociale ed economico”.
3. In altre parole, se ben valorizzata, questa presa di posizione della Cassazione potrebbe fungere da correttivo al mancato intervento nomofilattico da parte delle Sezioni unite; nonché da antidoto a una indiscriminata applicazione del delitto di associazione mafiosa ad opera di una giurisprudenza massimamente ispirata sì dal comprensibile obbiettivo politico-criminale di perseguire qualsiasi forma di espansione e radicamento delle mafie in Italia e all’estero, ma a volte anche a costo di sfigurare il volto della fattispecie incriminatrice mediante scorciatoie probatorie.
[1] In chiave condivisibilmente critica, v. G. Amarelli, Mafie delocalizzate: le Sezioni unite risolvono(?) il contrasto sulla configurabilità dell’art. 416 bis c.p. “non decidendo”, in Sistema penale, 18 novembre 2019; Id., Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1197 e ss.
[2] Cfr C. Visconti, I giudici di legittimità ancora alle prese con la “mafia silente”: dicono di pensarla allo stesso modo ma non è così, in Dir. pen. cont., 5 ottobre 2015
[3] Per ragguagli sul requisito del “metodo mafioso” nelle intemperie giurisprudenziali recenti, v. I. Merenda-C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Dir. pen. cont., 24 gennaio 2019