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18 Giugno 2020


Da ‘mafia capitale’ a ‘capitale corrotta’. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime

Cass., Sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125 Pres. Fidelbo, est. Di Stefano-Silvestri, ric. Buzzi e altri



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1. La Corte di Cassazione ha concluso la saga ‘mafia capitale’ riscrivendone il finale e decretando che non fu ‘vera mafia’.

A distanza di circa otto mesi dalla pubblicazione del dispositivo sono state finalmente depositate le dense motivazioni che, all’esito di un ragionamento lineare e rigoroso, hanno condotto i giudici di legittimità ad escludere definitivamente la possibilità di sussumere i fatti contestati agli imputati della nota vicenda romana nel delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p., derubricandoli in quello sensibilmente meno grave di cui all’art. 416 c.p.

Si tratta del punto di approdo di una lunga ed articolata vicenda giudiziaria, corredata da innumerevoli risvolti mediatico-politici, nata da un’indagine della Procura di Roma del 2014 che aveva individuato nel gruppo criminale diretto da Buzzi (gestore di diverse cooperative operanti nel settore dell’edilizia e dei servizi) e Carminati (ex affiliato alla banda della Magliana ed ai nuclei armati rivoluzionari (NAR)), attivo in attività usuraie, estorsive e corruttive, un unico sodalizio di tipo mafioso capace, tra le altre cose, di condizionare stabilmente il settore degli appalti pubblici del municipio capitolino;

proseguita con due ordinanze ‘gemelle’ di natura cautelare della Suprema Corte del 2015 che avevano confermato l’impostazione accusatoria, ribadendo l’esistenza di una mafia romana autoctona e confermando le misure disposte nei confronti degli indiziati di appartenenza ad una associazione per delinquere ex art. 416 bis c.p.[1];

bruscamente interrotta dalla decisione del giudice di prime cure del 2017 che aveva ravvisato nelle vicende capitoline fatti ascrivibili a due distinti gruppi criminali non mafiosi, uno diretto da Carminati, l’altro da Buzzi, integranti in un caso reati comuni di matrice estorsivo-usuraia e, nell’altro, delitti contro la pubblica amministrazione di tipo clientelare-corruttivo[2];

nuovamente ribaltata con una reformatio in peius ‘cartolare’ della Corte d’Appello di Roma del 2018 che, riscontrando l’esistenza di un’unica associazione di tipo mafioso attiva dal 2011 al 2014, in seguito alla fusione dei due distinti gruppi criminali preesistenti, aveva ritenuto configurato il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. irrogando, però, paradossalmente, pene più miti rispetto a quelle della decisione di primo grado che, invece, aveva escluso l’associazione di tipo mafioso[3].

Come si è premurata di chiarire la stessa Corte di Cassazione con un inusuale comunicato stampa dell’Ufficio relazioni con i mezzi di informazione con cui sono state anticipate sinteticamente le motivazioni, la sentenza non ha però demolito l’impianto accusatorio, negando l’esistenza di gruppi criminali dediti anche alla gestione corruttiva degli appalti pubblici nella capitale, ma si è limitata ad escluderne la riconducibilità ad unico sodalizio di tipo mafioso e quindi sussumibile nel paradigma di cui all’art. 416 bis c.p.

Ha cioè proceduto a confutare la qualificazione dei fatti propugnata dalla Corte di appello di Roma a vantaggio di quella proposta dal Tribunale di primo grado, ravvisando l’esistenza di due distinti gruppi criminali comuni riportabili entrambi nel tipo criminoso dell’associazione per delinquere semplice ex art. 416 c.p., uno orientato alla realizzazione di delitti-scopo di carattere patrimoniale, l’altro di delitti-scopo contro la pubblica amministrazione.

Pur ritenendo così astrattamente possibile la configurabilità del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. anche in contesti non storicamente mafiosi, l’ha motivatamente esclusa in questa circostanza, riscontrando nel ponderoso lavoro della Procura un sistema corruttivo stabile e pervasivo che si era infiltrato in profondità negli uffici pubblici della capitale e che meritava di essere adeguatamente punito ai sensi di figurae criminis ‘altre’ rispetto al 416 bis c.p., difettando la prova dell’effettivo impiego del metodo mafioso da parte di entrambi i sodalizi.

 

2. Tali conclusioni sono l’esito di un percorso logico-argomentativo piano e lineare che muove dalla descrizione di una premessa di tipo metodologico, passa per la previa ricostruzione della tipicità ‘rafforzata’ dell’art. 416 bis c.p. rispetto a quella ‘esangue’ dell’art. 416 c.p. e termina con una meticolosa descrizione dei vizi di legittimità della decisione dei giudici del gravame che, ribaltando il giudizio di primo grado, avevano ravvisato nella vicenda mafia capitale una associazione di tipo mafioso.

Nella premessa introduttiva della parte motiva dedicata alla trattazione del problema specifico della configurabilità della fattispecie associativa mafiosa, i giudici di legittimità si premurano di mettere in luce l’asse legicentrico lungo cui deve essere condotto il giudizio sulla caratura mafiosa o meno dei gruppi criminali implicati nel sistema corruttivo di ‘mafia capitale’ ed in quello usuraio del ‘distributore di Corso Francia’.

Ben si chiarisce sin dal principio, infatti, che, pur implicando il problema delle nuove mafie una tensione dialettica tra il diritto legislativo e quello giurisprudenziale, non si può mai giungere “a piegare le esigenze di tassatività della fattispecie e la prevedibilità delle decisioni ad esigenze di semplificazioni probatorie ed a necessità di andare al ‘cuore’ sostanziale di intricate vicende” (p. 281).

Per la Corte, ai fini della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso – in ragione della sua natura giuridica di fattispecie associativa mista o ‘che delinque’[4]non può essere accertata la mera potenzialità, per quanto seria, di un futuro uso del metodo mafioso, dovendosi verificare in concreto la sua effettiva incidenza nell’ambito di operatività del sodalizio[5] (p. 282).

Diversamente dall’art. 416 c.p., che rappresenta al contrario una fattispecie associativa pura o ‘per delinquere’, per la sua integrazione non è sufficiente la mera intenzione della futura commissione di delitti attraverso una stabile organizzazione di mezzi e persone, ma il concreto innesco di una serie di “effettive derivazioni causali” tra la condotta di ‘avvalimento’ della forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e l’assoggettamento e l’omertà diffuse nella cerchia di persone che con il sodalizio si relazionano.

Per la S.C. il metodo mafioso costituisce, cioè, un elemento costitutivo caratterizzante in termini di disvalore amplificato la fattispecie incriminatrice associativa di tipo mafioso[6], non obliterabile ermeneuticamente dalla giurisprudenza, pena una violazione dei “principi costituzionali di materialità e tassatività della fattispecie di cui all’art. 25 Cost.” (p. 283) ed uno stravolgimento della natura giuridica dell’ipotesi delittuosa associativa da mista in pura.

L’art. 416 bis, comma 3, c.p., infatti, seppure con terminologia di derivazione socio-criminologica inevitabilmente elastica, descrive a livello normativo generale ed astratto il modus operandi che deve contraddistinguere un’associazione di tipo mafioso, individuandolo, da un lato, nella esternazione della forza di intimidazione da parte dell’intero sodalizio e, dall’altro, nella produzione (concretamente apprezzabile) nei territori in cui questo opera di uno stato latente di assoggettamento omertoso obiettivamente riscontrabile.

Contrariamente a quanto sostenuto in taluni arresti giurisprudenziali formatisi negli ultimi anni soprattutto in materia di mafie delocalizzate[7], “la capacità intimidatrice del metodo mafioso (…) deve quindi avere necessariamente un riscontro esterno. Non può essere limitata ad una mera potenzialità astratta. (…) Il c.d. metodo mafioso deve necessariamente avere una sua ‘esteriorizzazione’ quale forma di condotta positiva richiesta dalla norma con il termine avvalersi. (…) Ciò che è essenziale è che la fonte della forza di intimidazione derivi dall’associazione, cioè dal gruppo, dal suo prestigio criminale, dalla sua fama, dal vincolo associativo e non dal prestigio criminale del singolo associato” (p. 284).

 

3. Dopo aver preliminarmente individuato nel metodo mafioso così descritto il vero ubi consistam del delitto di associazione di tipo mafioso, la Corte precisa che ai fini della sua concretizzazione non è però sempre richiesto il compimento di atti integranti gli estremi della violenza o minaccia, almeno in forma tentata, quale riflesso empirico del suo avvalimento.

Molto correttamente si osserva, anzi, che “la necessità di esteriorizzazione della capacità di intimidazione non presuppone necessariamente il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell’associazione e dei singoli partecipi; la violenza e la minaccia, rivestendo natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione, costituiscono solo un modo, uno strumento – eventuale, possibile, come altri – con cui quella forza di intimidazione può manifestarsi, ben potendo quest’ultima esternarsi anche con il compimento di atti non violenti, ma pur sempre espressione della esistenza attuale, della fama criminale e della notorietà del vincolo associativo”[8].

Come rilevato in maniera ancora più esplicita nella coeva sentenza relativa all’altra controversa mafia laziale, il clan Fasciani di Ostia, la Corte sembra dunque ribadire che la forza di intimidazione rappresenta all’interno della fattispecie associativa mafiosa un requisito di tipicità ‘a forma libera’, declinabile in modi eterogenei a seconda della sotto-tipologia mafiosa considerata e non predeterminabili tassativamente ex ante dal legislatore[9].

Giustamente si osserva che questa conclusione circa la dimensione concreta e non potenziale del metodo mafioso vale indistintamente per tutte le tipologie di mafie atipiche: le straniere, le delocalizzate e le autoctone; ciò che muta è solamente il materiale probatorio utile a configurarlo, potendo crearsi “sottotipi applicati” in base alle caratteristiche assunte dai diversi gruppi criminali nei loro contesti di azione, come dimostra, ad esempio, l’erosione del requisito della territorialità per le mafie straniere (p. 286 ss.).

In ogni caso, per qualsiasi nuova formazione illecita associata, non basta ad integrare tale requisito di tipicità dell’art. 416 bis c.p. la mera riproduzione all’interno del sodalizio di regole, strutture e ripartizioni gerarchiche dei ruoli analoghe a quelle dei gruppi mafiosi storici, essendo imprescindibile l’esteriorizzazione in concreto della capacità di intimidazione all’esterno e la connessa produzione di un assoggettamento omertoso diffuso (p. 295).

Precipitato logico di questo rigoroso ragionamento rispettoso della legalità penale è la netta censura di quegli orientamenti giurisprudenziali recenti che hanno snaturato il tipo criminoso dell’art. 416 bis c.p. rispetto a talune nuove mafie, ritenendo possibile prescindere ai fini della sua applicabilità dalla verifica effettiva del metodo mafioso in tutte le sue articolate componenti e, dunque, degradandone la natura giuridica dal rango complesso di fattispecie associativa mista a quello semplificato di fattispecie associativa pura.

Una simile operazione ermeneutica è in palese contrasto con i principi di tassatività e determinatezza costituzionalmente garantiti, legittimando la creazione per via interpretativa di una tipicità ‘dicotomica’ o differenziata della stessa fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416 bis c.p., più ricca per le associazioni tradizionali, in ordine alle quali è richiesto l’accertamento del metus nel territorio di insediamento con i suoi effetti diretti dell’assoggettamento e dell’omertà, e più anemica per quelle nuove, rispetto alle quali, al contrario, si prescinde dalla esplicitazione all’esterno della vis intimidativa del clan.

In questo modo, infatti, si rischia di equiparare da un punto di vista del disvalore situazioni profondamente eterogenee, punendo irragionevolmente con le stesse sanzioni comminate per la partecipazione ad un sodalizio effettivamente operante con metodo mafioso, la partecipazione ad un gruppo criminale solo potenzialmente mafioso, ma non ancora percepito come tale nel contesto circostante.

L’equiparazione sanzionatoria tra mafie nuove e mafie tradizionali, in forza del principio di proporzionalità-ragionevolezza ed offensività, implica un attento accertamento in entrambe le situazioni della effettiva sussistenza del metodo mafioso: “la tipicità della fattispecie associativa mafiosa è sempre la stessa, anche per le c.d. nuove mafie di cui all’art. 416 bis, ultimo comma, c.p., piccole o grandi che siano” (p. 295).

 

 4. Dopo aver puntualmente ricostruito la struttura normativa del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e delineato i suoi indefettibili elementi costitutivi, la Corte sposta il fuoco dell’attenzione sulla decisione dei giudici del gravame, andando a dimostrare in maniera pointista e dettagliata come essa, per un verso, non abbia fatto corretta applicazione dei principi di diritto appena richiamati e, per altro verso, sia incorsa in un errore di fatto nella valutazione unitaria e non differenziata dei gruppi criminali implicati nelle vicende giudiziarie romane.

In particolare, per la S.C. la decisione della Corte di appello di ribaltare in senso peggiorativo la decisione del giudice di primo grado di condanna, riqualificando la partecipazione associativa dei vari imputati ai sensi dell’art. 416 bis c.p. anziché dell’art. 416 c.p., avrebbe meritato – secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, avallato anche da S.u. 12 luglio 2005, n. 33748, Mannino – una motivazione rafforzata, dotata di forza persuasiva superiore, configurando un’ipotesi di reformatio in peius (p. 297).

La Corte di Appello avrebbe dovuto, cioè, supportare il suo overruling in malam partem circa la natura mafiosa delle vicende apprezzate, indicando analiticamente gli errori di valutazione contenuti nella sentenza di primo grado e le ragioni opposte che imponevano la soluzione contraria (p. 299).

Al contrario, invece, i giudici del gravame non hanno proceduto ad uno smantellamento punto per punto della decisione di primo grado che aveva escluso la configurabilità dell’art. 416 bis c.p. e alla confutazione degli elementi di fatto su cui questa si fondava, ma si sono limitati a recuperare – appiattendocisi – il ragionamento seguito in precedenza dalle decisioni gemelle della Cassazione relative alla fase cautelare, con cui era stata temporaneamente confermata l’impostazione mafiosa sostenuta dall’accusa, sulla scorta, però, di fatti rivelatisi nel giudizio di merito ben diversi (p. 300).

Per la Corte di Cassazione, ad essere “gravemente erronea” non è, quindi, l’impostazione accusatoria circa la natura mafiosa della vicenda fornita dalla Procura, né tanto meno la conforme valutazione provvisoria contenuta nelle decisioni di legittimità cautelari, quanto piuttosto la decisione della Corte di appello di Roma, perché si è basata su fatti rivelatisi all’esito del giudizio di merito sensibilmente differenti da quelli posti a fondamento delle decisioni in materia de libertate pregresse.

Il ribaltamento di valutazione circa la connotazione mafiosa di ‘mafia capitale’, infatti, è stato ancorato ad acquisizioni ben diverse da quelle emerse nel dibattimento e sulla cui scorta si era pervenuti a conclusioni difformi, vale a dire al convincimento che si trattasse di un’unica associazione criminale, operante con modalità mafiose in un ambito territoriale molto più ampio di quello successivamente accertato in giudizio, diretta da Carminati, dotata di armi, collegata con la ‘ndrangheta ed altri sodalizi criminali mafiosi e dedita ad attività economiche finanziate con i proventi dei delitti dell’associazione.

 

5. Per la Corte risulta, dunque, del tutto inadeguata la motivazione della sentenza di secondo grado nella parte in cui ravvisa nuovamente nella vicenda un’unica associazione di tipo mafioso, piuttosto che due distinte associazioni per delinquere comuni, prive di un organico e permanente collegamento e dedite alla commissione di specifiche tipologie delittuose senza esternazione di una propria forza di intimidazione[10].

Un ripensamento in fatto di questo genere, implicando in diritto la reformatio in peius della decisione precedente, ravvisando la sussistenza dell’art. 416 bis c.p. in luogo dell’art. 416 c.p., avrebbe dovuto essere supportato da una verifica, oltre ogni ragionevole dubbio, che la nuova formazione avesse conseguito un proprio prestigio criminale, differente da quello dei suoi singoli affiliati; avesse manifestato in concreto la sua forza di intimidazione anche in un contesto oggettivo e soggettivo ridotto; tale manifestazione fosse stata percepita nell’ambiente circostante producendo un diffuso assoggettamento omertoso (p. 305).

La decisione di merito dei giudici di prime cure aveva, infatti, meticolosamente escluso la natura derivata del gruppo criminale in esame da altri gruppi operanti con metodologie mafie, ravvisando altresì la sua composizione dualistica e l’assenza di elementi di fatto sintomatici dell’avvalimento della forza di intimidazione e dell’assoggettamento e dell’omertà nelle persone con cui il gruppo si relazionava.

Al contrario, invece, la decisione della Corte di appello circa la natura mafiosa del sodalizio riposa su argomenti di carattere puramente assertivo ed apodittico, che non tengono in adeguato conto le contraddittorie e più attente valutazioni dei fatti svolte dal giudice di prime cure.

La motivazione della sentenza di appello è quindi considerata gravemente carente perché, “piuttosto che confrontarsi con il ragionamento probatorio del Tribunale, ha invece meramente recepito la decisione adottata dalla Corte di cassazione in ambito cautelare, senza, tuttavia, considerare la diversa base probatoria nel frattempo formatasi” (p. 325).

 

6. La S.C. si sofferma poi, in modo dettagliato, sui difetti di logicità della motivazione della sentenza impugnata sul versante cruciale del metodo mafioso.

In primo luogo, osserva come questa abbia ricavato inferenzialmente la sussistenza del metodo mafioso attraverso l’apprezzamento isolato della caratura criminale di un singolo partecipe, piuttosto che dell’intero sodalizio, senza integrarlo neanche con il complementare riscontro dell’effettivo assoggettamento omertoso dell’area territoriale in cui questo operava.

In secondo luogo, rileva come la sua prova sia stata desunta tramite un’impropria sovrapposizione con il metodo corruttivo che ha caratterizzato la vicenda di ‘mafia capitale’ sul versante della infiltrazione negli appalti pubblici.

Per la Corte di Cassazione, infatti, il sistema degli appalti nel comune di Roma era gestito, piuttosto che attraverso il metus promanante dal vincolo associativo, tramite un oleato sistema di pratiche corruttive[11].

Il mondo delle gare pubbliche capitoline sembrava, invero, “gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione”; la vendita delle funzioni avveniva invero non per il timore di ritorsioni violente da parte di un gruppo già noto per l’impiego pregresso di simili modalità operative e per la sua comune storia criminale, ma grazie alla stipula di intese sinallagmatiche nel reciproco interesse delle parti nell’ambito di un “fenomeno diverso, di collusione generalizzata, diffusa e sistemica” (p. 326).

Le decisioni dei funzionari, infatti, non sono state indotte coattivamente dalla capacità di violenza, intimidazione e costrizione sprigionata dal sodalizio esistente alle spalle dei loro interlocutori interessati alla assegnazione delle gare, ma adottate liberamente sulla scorta di accordi illeciti e paritari, stipulati all’esito, sovente, di trattative sui tempi e sui costi.

La pubblica funzione è stata cioè compromessa sulla base di una scelta autonoma e consapevole, ancorché criminale, di un elevato numero di pubblici amministratori, di politici, di pubblici funzionari mossi da logiche di indebita locupletazione a discapito del pubblico interesse, non da decisioni coartate di soggetti tenuti ad ottemperare alle richieste per paura di ritorsioni in cambio di piccole prebende (p. 326).

L’illogicità della motivazione circa la sussistenza del metodo mafioso è, infine, ulteriormente confermata dal fatto che nessuna forza di intimidazione risulta essere stata esplicitata neanche nei confronti degli imprenditori esclusi dagli appalti; la maggior parte, infatti, accettava la logica spartitoria proposta da Buzzi ed incentrata su accordi corruttivi e non sull’intimidazione, traendone vantaggi.

In conclusione, per la S.C. “le risultanze probatorie del processo non consentono affatto di affermare, sul piano generale ed astratto, che sul territorio del Comune di Roma non possono esistere fenomeni criminali mafiosi, quanto, piuttosto, che con specifico riguardo al caso in esame, si è indebitamente piegata la tipicità della fattispecie prevista dall’art. 416 bis c.p. per farvi confluire fenomeni ad essa estranei.

(...) Volendo ricorrere ad una metafora, può dirsi che una parte del ‘palazzo’ non è stata ‘conquistata’ dall’esterno, dalla criminalità mafiosa, ma si è consapevolmente ‘consegnata’ agli interessi del gruppo che faceva capo a Buzzi e Carminati; un gruppo criminale che ha trovato un terreno fertile da coltivare” (p. 327).

 

7. Dalla decisione di annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. la Corte fa giustamente discendere quale conseguenza ulteriore e non secondaria l’automatico annullamento della sentenza in relazione alla applicazione a taluni reati scopo della aggravante soggettiva della agevolazione mafiosa ex art. 416 bis.1[12], comma 1, c.p. e delle aggravanti di cui agli artt. 628 e 629, comma 3, n. 3 c.p., in quanto tutte presuppongono l’effettiva previa esistenza di una associazione mafiosa.

Con un ulteriore sforzo si arriva anche a cassare la parte della pronuncia in cui, rispetto a taluni reati di estorsione, era stata ritenuta sussistente l’altra aggravante oggettiva del metodo mafioso di cui all’art. 416 bis.1, comma 2, c.p., ritenendo non provato che gli autori avessero utilizzato in taluni episodi delittuosi di matrice estorsiva modalità tali da fare ritenere alle vittime che operassero per conto di un’associazione mafiosa (pp. 328 e 359).

Vale a dire che secondo i giudici di legittimità, a Roma non solo non è esistita un’unica associazione operante con il metodo mafioso nel settore degli appalti pubblici e delle estorsioni; ma addirittura, non è stato commesso da parte dei partecipi di entrambe le distinte associazioni per delinquere comuni – neanche quella finalizzata alla commissione di reati con matrice patrimoniale – alcun delitto con il metodo mafioso.

Forse, tale aspetto appare il meno convincente della decisione, considerando come, normalmente, si tenda ad applicare con grande elasticità l’aggravante oggettiva mafiosa, anche a prescindere dall’effettiva esistenza di un sodalizio mafioso[13], e tenendo conto delle conseguenze che può riverberare il suo annullamento.

Oltre che sul versante sanzionatorio, infatti, tale scelta incide anche sul versante penitenziario, determinando l’esclusione della applicazione del regime ostativo dei benefici penitenziari previsto dall’art. 4 bis o.p., oltre che per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., anche per quelli aggravati dall’art. 416 bis.1 c.p., nonché sul fronte delle misure cautelari, come ha già testimoniato la decisione di scarcerazione di Carminati.

Proprio tale profilo sembra essere stato alla base della recentissima ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma con cui è stata disposta la liberazione di Carminati per decorrenza della durata complessiva massima della custodia cautelare[14].

L’annullamento dell’aggravante mafiosa originariamente contestata in relazione ai due reati di corruzione per i quali era in esecuzione la misura cautelare – incidendo sulla loro gravità e implicando una rideterminazione della quantificazione della pena da parte del giudice del rinvio – ha infatti impedito “di ritenere irrevocabile la statuizione[15] della Cassazione su tale punto.

Aderendo alla giurisprudenza prevalente, si è reputato che nei casi di rimessione al giudice di rinvio della sola determinazione della pena, la formazione del giudicato progressivo riguardi esclusivamente l’accertamento del reato e la responsabilità dell’imputato, non anche la commisurazione della sanzione, impedendo così di valutare la detenzione dell’imputato come esecuzione di pena definitiva, ed imponendo, al contrario, di considerarla come custodia cautelare sottoposta al limite dei termini massimi di cui all’art. 304, comma 6, c.p.p. dei “due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza”.

Partendo da tale presupposto, e tenuto conto che la pena edittale massima vigente al tempus commissi delicti per il delitto di corruzione (al netto delle aggravanti mafiose escluse dalla S.C.) era di otto anni di reclusione e che il punctum termporis per calcolare la decorrenza dei termini doveva essere retrodatato ex art. 297, comma 3, ultima parte, c.p.p., alla data della prima ordinanza cautelare relativa ad altri reati connessi alla medesima indagine ma successivi, la misura della custodia cautelare è stata ritenuta scaduta il 7 aprile 2020, con l’inevitabile corollario della scarcerazione di Carminati, non essendo questi ristretto per altra causa.

 

8. La sentenza in commento – soprattutto se considerata non in maniera isolata, ma in stretta connessione con altre tre decisioni coeve della stessa Corte di Cassazione – l’ordinanza di restituzione alla Sezione remittente del Presidente della S.C. del 2019[16] con cui si è negata l’esistenza di un contrasto interpretativo in materia di mafie delocalizzate, la successiva decisione della Prima Sezione[17] e la sentenza che ha ravvisato la sussistenza dell’art. 416 bis c.p. nella vicenda del clan Fasciani[18] –, segnala una oramai stabile inversione di tendenza della giurisprudenza di legittimità rispetto al problema della qualificazione giuridica delle mafie atipiche, dopo anni di pericolosi sbandamenti.

Da una lettura sinottica di questi provvedimenti è possibile ricavare una serie di punti fermi in argomento che dovranno condizionare i futuri orientamenti interpretativi in questa materia così insidiosa.

In primo luogo, la decisione ha l’indiscusso merito di fornire una risposta al dilemma circa la qualificazione mafiosa dei fenotipi associativi differenti da quelli classici attraverso un impianto argomentativo rigoroso e scevro da precomprensioni extragiuridiche[19] ed, all’opposto, incardinato su un approccio strettamente gius-penalistico, illuminato dai principî costituzionali di legalità, offensività e proporzionalità-ragionevolezza della pena.

Dal punto di vista metodologico, infatti, afferma chiaramente che la questione della natura mafiosa di un sodalizio criminale autoctono deve essere affrontata adoperando un paradigma valutativo di tipo rigorosamente giuridico, segnalando peraltro come questo sia l’unico utilizzabile per tutte le c.d. nuove mafie di cui all’art. 416 bis, ultimo comma, c.p., qualunque sia la loro declinazione. La qualificabilità in termini mafiosi delle nuove associazioni criminali diverse dai sodalizi storici non può essere esclusa o ammessa incondizionatamente, in modo aprioristico, ma deve essere sempre subordinata all’accertamento in concreto, nel singolo caso, dell’effettiva sussistenza dei requisiti di tipicità del delitto associativo mafioso esplicitati nel comma 3 dell’art. 416 bis c.p.

In secondo luogo, proprio la scelta di metodo di far discendere la risposta al quesito sulla caratura mafiosa o meno della vicenda ‘mafia capitale’ da un rigoroso apprezzamento di tipo normativo-valutativo, lascia intravedere in filigrana una riaffermazione ‘forte’ del valore vincolante del principio di legalità legicentrico in ambito penale[20]. Riaffermazione, invero, particolarmente apprezzabile in un settore che aveva registrato pericolosi sbandamenti, soprattutto in materia di ‘mafie delocalizzate’: gli elementi essenziali del fatto tipico non possono essere trascurati o sminuiti in sede applicativa per ragioni di difesa sociale.

La sentenza ha anche un’altra valenza non di poco momento, confermando l’importanza della funzione della nomofilachia in un sistema penale a legalità formale come il nostro, consentendo di emendare a violazioni di legge emerse nelle decisioni di merito per motivi di legittimità e di cristallizzare una interpretazione delle medesime norme incriminatrici più fedele al dato normativo.

Inoltre, la decisione si caratterizza anche per aver inaugurato un nuovo genere di provvedimento giudiziario: la sentenza di legittimità preceduta da un comunicato stampa. In un’epoca storica di dilagante populismo penale mediatico[21], per evitare ogni possibile deformazione di una decisione che, negando l’esistenza di un sodalizio mafioso a Roma, si poteva prestare ad una narrazione meta-giuridica parziale sia da parte di quanti ne condividessero la valutazione, sia da quanti la avversassero, la Corte ha ritenuto opportuno anticipare il deposito delle circa 400 pagine di motivazioni con una nota informativa con cui segnalava la natura non mafiosa della vicenda mafia capitale, ma, al contempo, si rimarcava la sua rilevanza penale ad altro titolo.

Infine, la sentenza in commento conferma l’intreccio, ben evidente in questo settore anche nei giudizi di legittimità, tra profili probatori e questioni di diritto sostanziale.

Anche questa decisione, così come quelle sincroniche richiamate in precedenza, sembra infatti rimarcare, ancora una volta, come spesso in materia di mafia non sia in discussione il tipo criminoso descritto dall’art. 416 bis c.p. e, soprattutto, la centralità al suo interno del requisito strutturale del metodo mafioso, ma unicamente il materiale probatorio necessario a provarlo.

Non può dunque essere ravvisato alcun improprio dimorfismo giuridico della fattispecie associativa, in forza del quale è possibile individuare una tipicità differenziata per le mafie tradizionali e per quelle nuove. Il modello delittuoso di associazione di tipo mafiosa è e resta unico, variando solamente gli elementi da prendere in considerazione per affermarne la sussistenza a seconda del sotto-tipo fenomenologico di volta in volta in gioco.

Ciò significa che se non è stata ragionevolmente ravvisata in questa vicenda specifica una associazione di tipo mafioso, non è però preclusa la possibilità che in altri casi all’apparenza analoghi di mafie autoctone o di altre mafie nuove possa pervenirsi a soluzioni opposte, purché nei giudizi di merito si accerti in concreto l’effettiva esplicitazione del metodo mafioso nelle sue plurime componenti.

Concludendo: la decisione in commento sembra avere una valenza palindroma, per un verso rappresentando l’ultimo atto che conferma la gravità dell’inchiesta romana ‘mondo di mezzo’, per altro verso costituendo il punto di partenza per la soluzione dei problemi analoghi che, in futuro, potranno affiorare rispetto a tutte le mafie atipiche.

 

 

[1] Cass., Sez. VI, 10 marzo 2015, n. 24535 e Cass., Sez. VI, 10 marzo 2015, n. 2453. Per una ricostruzione delle origini dell’indagine e della vicenda cautelare cfr. C. Visconti, A Roma una mafia c’è e si vede…, in Dir. pen. cont., 15 giugno 2015; A. Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di "Mafia Capitale": tra l'emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. pen., 2016, 87 ss.; L. Fornari, Il metodo mafioso: dall'effettività dei requisiti al “pericolo d'intimidazione” derivante da un contesto criminale?, in Dir. pen. cont., 30 s.

[2] Trib. Roma, sent. 20 luglio 2017, n. 11730, in Foro it., 2018, II, 176 ss., con nota di G. Fiandaca, Esiste a Roma la mafia? Una questione (ancora) giuridicamente controversa. In argomento cfr. anche E. Zuffada, Per il tribunale di Roma ‘‘mafia capitale’’ non e` mafia: ovvero, della controversa applicabilita` dell’art. 416-bis c.p. ad associazioni criminali diverse dalle mafie ‘‘storiche’’, in Dir. pen. cont., 2017, n. 11, 270; nonché G. Amarelli, Le mafie autoctone alla prova della giurisprudenza: accordi e disaccordi sul metodo mafioso, in Giur. it., 2018, 956 ss.

[3] Corte App. Roma, Sez. III, sent. 11 settembre 2018, n. 10010, in Dir. pen. cont., 14 maggio 2019, con nota di E. Cipani, La pronuncia della Corte d’appello di Roma nel processo cd. mafia capitale: la questione dell’applicabilità dell’art. 416bis c.p. alle mafie “atipiche”, infatti, aveva segnalato come, dalla fusione tra i due sodalizi e dal conferimento a quello neo-costituito della carica di intimidazione di Carminati, era scaturita una vera e propria trasformazione dei “metodi di corruzione semplice” in “metodi di corruzione di tipo mafioso”. Ricostruisce tutti i diversi gradi di giudizio ed i problemi emersi sul piano della qualificazione giuridica dei fatti E. Mazzantini, Il delitto di associazione di tipo mafioso alla prova delle organizzazioni criminali della “zona grigia”. Il caso di Mafia capitale, in Arch. pen. web, 11 dicembre 2019, 1 ss.

[4] Sulla natura giuridica peculiare del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e sulla contrapposizione con quella delle altre fattispecie associative si veda G. Spagnolo, Dai reati meramente associativi ai reati a struttura mista, in Aa.Vv., Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, 156 ss.; G. De Vero, I reati associativi nell’odierno sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 385 ss.; G. Insolera-T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, 85 ss.

[5] Tale necessità è evidenziata dalla dottrina più recente. Sul punto si veda da ultimo I. Merenda-C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis c.p. tra teoria e diritto vivente, in E. Mezzetti-L. Luparia Donati, a cura di, La legislazione antimafia, Bologna, 2020, 37 ss.

[6] Segnala l’importanza assunta dal metodo mafioso nell’economia della fattispecie associativa di cui all’art. 416 bis c.p. G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 3ᵃ ed., 2015, 114 ss.

[7] In chiave critica cfr., C. Visconti, Associazione di tipo mafioso e ‘ndrangheta del nord, in Libro dell’anno del diritto 2016, in www.treccani.it, 1 ss.; G. Amarelli, Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 1197 ss.; F. Serraino, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art. 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 264 ss.; per un diverso punto di vista, favorevole alla applicabilità estensiva dell’art. 416 bis c.p. alle mafie delocalizzate, si veda A. Balsamo-S. Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, ivi, 18 ottobre 2013, 1 ss.; R.M. Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, ivi, 10 novembre 2015.

[8] Le espressioni sono tratte da I. Merenda-C. Visconti, Metodo mafioso, cit., 43 s.

[9] Cass., Sez. II, 16 marzo 2020, n. 10255, Fasciani, in questa Rivista, 24 marzo 2020, con nota di C. Visconti, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone. Sul punto cfr. anche A. Manna-A. De Lia, “Nuove mafie” e vecchie perplessità. Brevi note a margine di una recente pronuncia della Cassazione, in Arch. pen., 1/2020, 1 ss.; G. Amarelli, Mafie autoctone: senza metodo mafioso non si applica l’art. 416 bis c.p., in Giur. it., 2020, in corso di pubblicazione.

[10] Analoghe connessioni tra la qualificazione giuridica mafiosa e il dualismo o monismo dei sodalizi criminali protagonisti delle vicende giudiziarie sono state evidenziate anche rispetto alle mafie delocalizzate. Sul punto si veda da ultimo Pres. Agg. Cass. S.u., ord. restituzione atti, 17 luglio 2019, in questa Rivista, 18 novembre 2019, con nota di G. Amarelli, Mafie delocalizzate: le Sezioni unite risolvono (?) il contrasto sulla configurabilità dell’art. 416 bis c.p. ‘non decidendo’.

[11] Per approfondimenti sui principali snodi della decisione di primo grado si rinvia a G. Amarelli, Le mafie autoctone, cit., 957 ss.

[12] Di recente, tale nesso di dipendenza è stato segnalato da S.U., 4 marzo 2020, n. 8545, Chioccini, in questa Rivista, 16 marzo 2020, con nota di S. Finocchiaro, Le Sezioni unite sulla natura dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa e sulla sua estensione ai concorrenti: tra punti fermi e criticità irrisolte.

[13] Da ultimo, ha ribadito, al contrario, l’irrilevanza della preesistenza effettiva di un sodalizio di tipo mafioso per la configurabilità dell’aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 416 bis.1, comma 1, c.p., Cass., Sez. V, 13 novembre 2019, n. 6764, Spada, in questa Rivista, 22 maggio 2020, con nota di D. Carrozzo, Aggressione di giornalisti da parte di un membro del clan Spada di Ostia: la Cassazione riconosce l’aggravante del metodo mafioso.

[14] Tribunale di Roma, Sezione Riesame, ord., 15 giugno 2020.

[15] Tribunale di Roma, cit., 3.

[16] Pres. Agg. Cass. S.u., ord. restituzione atti, 17 luglio 2019, cit.

[18] Cass., Sez. II, 16 marzo 2020, n. 10255, Fasciani cit.

[19] Per una analisi del fenomeno delle nuove mafie si veda R. Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove, Roma, II ed., 2009; G. Pignatone-M. Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma, 2019.

[21] Tra i diversi contributi in argomento si vedano per tutti G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2014, 102; D. Pulitanò, Populismi e penale. Sulla attuale situazione spirituale della giustizia penale, ivi, 123 ss.; E. Amati, Insorgenze populiste e produzione del penale, in www.discrimen.it, 3 giugno 2019; S. Seminara, Consenso sociale, populismo e diritto penale, in www.giustiziainsieme.it, 10 giugno 2020.