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24 Luglio 2024


Le esperienze ed il metodo nel contrasto al terrorismo di destra


* Pubblichiamo di seguito il testo della relazione svolta dall'Autore all’incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura nel corso dedicato ai Magistrati Galli e Alessandrini sul contrasto al terrorismo e svoltosi a Milano, presso l’Università degli Studi, dal 5 al 7 giugno 2024. 

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1. Neofascismo eversivo: solo un problema del passato? È soltanto di pochi giorni fa (17 aprile 2024) il deposito della motivazione della sentenza n. 16153, con la quale le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto: «la condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel cosiddetto ‘saluto romano’ integra il delitto previsto dall’art. 5 legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo alle circostanze del caso, sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. fin. Cost[1]; tale condotta – ha soggiunto il Collegio allargato – può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)».

La sentenza ha riguardato episodi verificatisi il 29 aprile 2016, in occasione di una pubblica manifestazione organizzata a Milano per commemorare la morte di Enrico Pedenovi, consigliere provinciale del Movimento sociale italiano, ucciso da militanti di Prima Linea il 29 aprile 1976, Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte della Gioventù, deceduto il 29 aprile 1975, a seguito di un attentato subito pochi giorni prima ad opera di extraparlamenari di sinistra riconducibili ad Avanguardia Operaia, nonché Carlo Borsani, militante della Repubblica Sociale Italiana, ucciso il 29 aprile 1945 da un gruppo partigiano comunista. In particolare, si legge nella sentenza, durante la manifestazione, alla quale avevano partecipato circa milleduecento persone, era stato invocato il “camerata Sergio Ramelli” e formulata per tre volte la chiamata del “presente”, subito dopo levandosi dalla folla la corale risposta “presente” e il “saluto romano”. Analogo rituale era stato seguito successivamente in altra zona di Milano, presso la lapide commemorativa dello stesso Sergio Ramelli.

Solo esibizioni “nostalgiche” di poco conto[2]? Non direi. Il Tribunale di Roma, nel dicembre scorso, ha condannato a otto anni e mezzo di reclusione Roberto Fiore, dirigente di Forza Nuova, assieme, fra gli altri, a Luigi Aronica, anch’egli militante di Forza Nuova e già appartenente ai Nuclei Armati Rivoluzionari, per l’assalto alla sede della C.G.I.L. di Roma. E chi è Roberto Fiore? Un salto nel passato: il fondatore, assieme a Gabriele Adinolfi, di Terza Posizione[3], vale a dire quel movimento eversivo che formò oggetto della prima inchiesta romana iniziata nell’autunno del 1980, subito dopo l’omicidio di Mario Amato e la strage di Bologna. Fiore rimase a lungo latitante (una latitanza, a quanto sembra, “dorata”) a Londra e venne condannato nel 1985 per associazione sovversiva. Non solo simbolismi, dunque, ma anche fatti concreti.

Eppure, la recentissima decisione delle Sezioni unite sul saluto fascista, nel porre a raffronto due strutture incriminatrici fra loro non poco “intrecciate”, come la legge Scelba e le disposizioni del decreto Mancino[4], rivisto e corretto nel tempo e ora, in virtù della riserva di codice, trasferite sotto il nuovo titolo dei delitti contro l’eguaglianza[5] (artt. 604 bis e 604 ter della nuova Sezione I-bis del Capo III del Titolo XII del codice penale), pone in luce una esigenza di “rivisitazione” del vecchio neofascismo e di quello che potremmo definire un neofascismo di nuovo conio.

La legge Scelba, infatti, evoca un raggruppamento – storicamente esistito e reputato costituzionalmente incompatibile – con tutto il portato della sua ideologia, moduli politici, sociali e culturali, e soprattutto fatti storici che ne hanno contrassegnato il suo evolversi nel corso del ventennio, fino all’epilogo della seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 ed alla fine della R.S.I.

Il decreto Mancino, invece, è figlio – e frutto, in larga misura – di vari strumenti sovranazionali, che – in piena sintonia con i principi declinati dagli artt. 2 e 3 Cost. – hanno imposto ai vari Stati democratici di perseguire, anche penalmente, ogni manifestazione discriminatorie fondata su motivazioni, etniche, razziali, di credo religioso, sesso, condizione sociale o politica. Basti pensare alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, al Patto internazionale dei diritti civili e politici, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, alla Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (ICERD) firmata a New York il 7 marzo 1966, la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. E tralascio, ovviamente, la recente Risoluzione del Parlamento europeo del 19 aprile 2023 sulla lotta alla discriminazione nell'UE, relativa alla tanto attesa direttiva orizzontale antidiscriminazione (2023/2582(RSP)[6].

Il passato ritorna: ma è difficile che si riproduca come una sorta di clone; la memoria, per quanto fitta e periodicamente rievocata, tende a sbiadire: induce a leggere episodi, idee e fatti, anche di estrema tragicità, secondo prospettive in parte diverse, perché frutto di nuovi episodi, idee e fatti, anch’essi tragici, e più “presenti” rispetto al passato. Il tutto, ovviamente, al netto di sclerotismi ideologici, e di altrettanto sclerotiche aspirazioni “revansciste”.

Il passato, dunque, per comprendere il presente e, forse, per preconizzare, sia pure con tutte le cautele del caso, il futuro.

Non a caso, le Sezioni unite hanno distinto la natura del reato di cui all’art. 5 della Legge Scelba, come ipotesi di reato di pericolo concreto, e quello di cui all’art. 2, comma 1, del d.l. n. 122 del 1993[7] come figura di reato di pericolo presunto o astratto[8] (anche se, poi, la distinzione tende a perdere pregnanza alla luce del necessario rispetto del principio di offensività). E non a caso sono pervenute alla soluzione della possibile concorrenza tra i reati, evocando il possibile – e direi quasi fisiologico – passaggio dal “vecchio” simbolismo ideologico ad un più moderno “anelito” discriminatorio, sicuramente e “storicamente” compresente nella cultura e nelle azioni riconducibili al partito fascista.

Spesso mi capita di citare una plastica espressione di Karl Engisch, il quale, per descrivere il fenomeno della sussunzione del fatto nella fattispecie, affermava fosse necessario ricorrere all’“Hin – und Hervandern des Bliches”, vale a dire all’andirivieni dello sguardo.

Ecco, per comprendere il “nuovo” ci serve rileggere il “vecchio”, con un atteggiamento ondulatorio della osservazione, quasi a ricercare mutamenti nel DNA dei fenomeni e comprendere dove si vada a parare.

Alcuni passaggi – contrassegnati da episodi qualificanti - sono però nodali, perché, anche se talune componenti di fondo permangono inalterate, gli apparati (i gruppi di riferimento), le strategie, le modalità operative i contesti ambientali, la stessa visione antiistituzionale, assumono connotazioni profondamente diverse, al punto che è la stessa matrice “fascista” a risultare non poco “contaminata”. E di questo mutamento siamo stati testimoni “oculari”.

 

2. Dall’omicidio di Vittorio Occorsio all’omicidio di Mario Amato. «Alle ore 8,30 del 10 luglio 1976, il dott. Vittorio Occorsio, Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, veniva ucciso a raffiche di mitra, presso l’incrocio tra Via Mogadiscio e Via del Giuba nel quartiere “africano” di detta città. Era uscito poco prima dalla sua abitazione, posta in Via Mogadiscio n. 7. Alla guida della sua auto FIAT 125 targata Roma H01927 per recarsi al Tribunale ove avrebbe dovuto svolgere, quel mattino, le funzioni di P.M. di udienza presso la VII sezione penale». Così è descritto il fatto, nella sua ineluttabile crudezza, nella sentenza emessa dalla Corte di assise di Firenze del 16 marzo 1978. Sul corpo del Magistrato venivano abbandonate alcune fotocopie di un volantino con il quale il Movimento Politico Ordine Nuovo così rivendicava l’omicidio: «La giustizia borghese si ferma all’ergastolo, la giustizia rivoluzionaria va oltre. Il Tribunale speciale del M.P.O.N. ha giudicato Vittorio Occorsio e lo ha ritenuto colpevole di avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi sono portatori. Vittorio Occorsio ha, infatti, istruito due processi contro il M.P.O.N. ll termine del primo, grazie alla complicità dei giudici marxisti Battaglini e Coiro e del barone D.C. Taviani, il Movimento Politico è stato sciolto e decine di anni di galera sono stati inflitti ai suoi dirigenti. Nel corso della seconda istruttoria numerosi militanti del M.P.O.N. sono stati inquisiti e incarcerati e condotti in catene dinanzi ai tribunali del sistema borghese. Molti di essi sono ancora illegalmente trattenuti nelle democratiche galere, molti altri sono da anni costretti ad una dura latitanza. L’atteggiamento inquisitorio tenuto dal servo del sistema Occorsio non è meritevole di alcuna attenuante: l’accanimento da lui usato nel colpire gli ordinovisti lo ha degradato al livello di un boia. Ma anche i boia muoiono! La sentenza emessa dal Tribunale del M.P.O.N. è di morte e sarà eseguita da uno speciale nucleo operativo. Avanti per l’Ordine Nuovo!».

L’omicidio Occorsio è il primo atto della destra terroristica ricondotto pubblicamente ad una organizzazione non fantomatica, dalle connotazioni sfuggenti: la scelta stessa dell’”obiettivo” e delle “motivazioni” del gesto criminale non possono non richiamare alla memoria le pressoché coeve e similari azioni commesse da gruppi armati della sinistra, svelando – secondo varie fonti processuali – un “apprezzamento” se non, addirittura, una qualche “invidia” per le Brigate Rosse. Il volantino di rivendicazione dell’omicidio, d’altra parte, ne è fedele testimonianza, attraverso l’uso di simboli ed espressioni evocativi di un malcelato “emulazionismo rivoluzionario”.

La mattinata del 23 giugno 1980, poche settimane prima della strage di Bologna del 2 agosto, Mario Amato, anche lui Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, mentre attendeva un autobus alla fermata posta all'incrocio tra viale Jonio e via Monte Rocchetta, fu raggiunto alle spalle da Gilberto Cavallini che gli esplose alla nuca un colpo di rivoltella fatale, per poi fuggire con una motocicletta che lo aspettava, alla cui guida era l'altro NAR Luigi Ciavardini.

Alla notizia dell'avvenuto assassinio, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro festeggiarono, secondo le loro stesse dichiarazioni, consumando ostriche e brindando con champagne. Stilarono poi il volantino di rivendicazione in cui affermavano: «oggi Amato ha chiuso la sua squallida esistenza, imbottito di piombo». Nel lungo documento si affermava, fra l’altro, che «Chiariamo subito che i Nar hanno chiuso i battenti da un pezzo. Ciò vuol dire che le varie telefonate, rivendicazioni, smentite o volantini sono il frutto non di scissioni o correnti all’interno dei Nuclei ma, piuttosto, il parto dei vari «eroi fascisti» che di eroico hanno solo la lingua. (...) [Seguono minacce ai traditori, definiti] «camerati [...] ladri o rapinatori con l’alone eroico e rivoluzionario appiccicato sulle spalle» e a «guardie, infami e compagni che si sono macchiati del nostro sangue. Per quel che riguarda il caso della guardia Evangelista e dei suoi fortunatissimi colleghi, l’unica cosa che a noi dispiace sono i mancati funerali. Dato che ci manca la possibilità di fare altro, data la nostra entità numerica, a noi non resta che la vendetta. Il massimo che possiamo fare è vendicare i camerati uccisi o in galera. Se non possiamo averli tra noi, dobbiamo almeno non farli sentire inutili e questo non per pietismo ma perché la vendetta è sacra! [...] Per conseguire questi obiettivi non c’è bisogno né di «covi» né di «grandi organizzazioni». Tre camerati fidati e buona volontà bastano. E se tre non ce ne sono, ne bastano due e non ci dite che non ci sono due camerati fidati! Ma anche se fosse, il nostro compito è di continuare a cercarli o, se necessario, crearli. Creare lo spontaneismo armato. Chiudiamo questo documento, dicendo a chi ci accusa di non essere abbastanza politici che non ci interessa la loro politica, bensì lottare e nella lotta c’è molto poco spazio per le chiacchiere. E a chi ci accusa di non avere un futuro rispondiamo: signori, siete sicuri voi di avere ben chiaro il presente? E a chi ci accusa di essere dei disperati ribattiamo che è meglio la nostra «disperazione» della vigliaccheria. A chi serve una mano, sarà data e sarà piombo per chi continua a inquinare la nostra gioventù predicando l’attesa o roba simile. Noi ora torniamo alle nostre case, continuando la solita vita, in vista della prossima vendetta [...] Oggi, 23-6-1980, alle ore 8.05 abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore Mario Amato, per le cui mani passavano tutti i processi a carico dei camerati [...] Per la dinamica è da tenere presente che si è usata una calibro 38 special, con un proiettile la cui punta era a testa cava. Inoltre il mezzo usato, Honda 400 rossa, è stato requisito a G. Brignoni, nato a Pantelleria e residente in via Norvegia, come risulta dal libretto della moto. Ciò è avvenuto in via Salaria, vicino all’aeroporto dell’Urbe».

Il raffronto tra i due tragici episodi, all’apparenza così simili, rende emblematica la “rottura” col passato. L’omicidio Occorsio venne realizzato utilizzando una vettura ed esplodendo devastanti raffiche con un mitra Ingram, facente parte di un lotto acquistato dal Ministero dell’Interno spagnolo e pervenuto a Pierluigi Concutelli – autore materiale della azione – a quanto sembra nel quadro di operazioni militari dal medesimo condotte contro i separatisti baschi.

L’omicidio Amato fu consumato, come abbiamo ricordato, con una motocicletta rubata ed esplodendo un colpo di pistola. Il primo gesto venne rivendicato, come detto, con un volantino incentrato essenzialmente sulla persona dell’ucciso, nei confronti del quale si fa mostra quasi di un odio personale. Il volantino di rivendicazione dell’omicidio Amato si concentrò, invece, sullo “spontaneismo armato” propugnato dai N.A.R. – dei quali, peraltro, viene declinato il superamento – con poche battute sulla persona dell’ucciso, ed una meticolosa indicazione di “riscontri obiettivi” per impedire rivendicazioni “depistanti”: segno evidente, quest’ultimo, di come nella eversione di destra strumentalizzazioni e depistaggi fossero ritenuti un “rischio” tutt’altro che remoto.

Per un mondo in cui i simboli hanno un valore identitario, quelli che abbiamo adesso messo in luce sembrano essere tutti sintomaticamente orientati nella medesima direzione: scrollarsi di dosso il passato ed indicare, attraverso i fatti, la “via” da seguire.

Ma al di là di questi elementi “differenziali”, tra l’omicidio di Vittorio Occorsio e quello di Mario Amato si colgono forti divergenze anche per i “contesti” in cui i fatti sono maturati. Dopo l’omicidio Occorsio e dopo lo scioglimento delle due grandi organizzazioni “storiche” della destra eversiva, Avanguardia nazionale e Ordine Nuovo[9], le linee portanti dei vari “ambienti” in cui si erano ricollocati avanguardisti e ordinovisti, si polverizzarono, dando vita a quella che mi capitò di definire come “strategia dell’arcipelago”.

Attraverso circoli culturali (notissimo quello tiburtino dedicato a Drieu La Rochelle e fondato da Paolo Signorelli[10]); testate giornalistiche, come Costruiamo l’azione, Quex[11] ed altre; sezioni di partito “operativamente” agguerrite (alcune sezioni del M.S.I. erano vere e proprie centrali eversive); raggruppamenti interni al FUAN (noto quello di Via Siena a Roma); specifiche realtà di quartiere; nuove entità aggregative, come Terza Posizione, le Comunità Organiche di Popolo e simili, si finì per intessere una serie di gangli, ciascuno con i propri referenti politico-ideologici e, purtroppo, anche operativi, autonomi, gli uni dagli altri, ma tutti correlati da un comune sentire e, soprattutto, da una visione interpersonale che definirei di “cameratismo militante”.

Cominciarono sistematicamente, accanto ad attentati dinamitardi di vario genere ed a numerose rapine, per autofinanziamento e presso armerie, gli omicidi e tentati omicidi di “traditori” o supposti tali[12]; di avversari politici; di appartenenti alle forze dell’ordine e, dunque, anche di magistrati che, come Mario Amato, avevano compreso che era proprio l’”ambiente” nel suo complesso a dover essere attentamente investigato.

L’armamentario ideologico, e la stessa natura dei fatti criminosi, stava chiaramente virando dalla eversione politica di matrice “pseudogolpista”, al terrorismo vero e proprio. Sembrava, quasi, che destra e sinistra si muovessero su binari ideologicamente paralleli, ma su cui progrediva uno stesso treno di criminalità politica. La tesi degli opposti estremismi, sicuramente riduttiva sul piano della analisi dei fenomeni, coglieva però plasticamente la realtà “di piazza” e di “cronaca” di quegli anni. La ribellione era ormai da tempo diventata rivoluzione antisistema.

Mario Amato era divenuto il punto di riferimento per le indagini sulla destra eversiva, nella Procura di Roma, in quanto aveva iniziato a raccordare fra loro singoli fatti ed episodi, allargando l’orizzonte anche su ciò che avveniva al di fuori della Capitale. Un metodo di lavoro faticosissimo, senza nessun aiuto interno, e che lo portò a quell’isolamento che non mancò di denunciare all’allora Procuratore della Repubblica ed allo stesso C.S.M., che, come è noto, fu stimolato – da un documento sottoscritto dalla stragrande maggioranza dei sostituti dell’epoca – ad aprire una inchiesta sulla gestione della Procura romana che condusse al trasferimento del Procuratore della repubblica. Erano gli anni, va ricordato, in cui, purtroppo, la Procura romana non godeva di buona fama: si parlava spesso di quell’ufficio come del “porto delle nebbie”.

 

3. Cultura istituzionale e nuova destra eversiva. L’omicidio di Mario Amato e la di poco successiva strage di Bologna segnano il punto di non ritorno: senza voler troppo enfatizzare, nulla poteva essere più come prima. Sono finiti i tempi della “internazionale nera”, che vedeva Pinochet in Cile, il franchismo ancora ben presente in Spagna, il regime dei colonnelli in Grecia, il peronismo e la terceira position in Argentina e che aveva visto Concutelli agire come comandante militare di Ordine Nuovo ma anche come attentatore di fuoriusciti cileni, come il vicepresidente della democrazia cristiana cilena Bernardo Leighton e sua moglie, su commissione – per il tramite di un certo Michael Townley – dei servizi segreti cileni della DINA e del suo capo Manuel Contreras Sepulveda[13], oppure operare, a quanto affermano alcune fonti, anche per conto dei servizi spagnoli contro l’ETA, o, ancora, utilizzare, per conto di ordine Nuovo,  una fabbrica clandestina di armi a Madrid.

Ormai, il divario tra la preoccupante ascesa del brigatismo di sinistra, sul quale gli apparati di sicurezza e di polizia si erano da tempo concentrati, e le nuove forme del terrorismo di destra, imponevano un deciso cambio di passo.

Ed è proprio a questo riguardo che alcune notazioni devono essere svolte. Dopo la morte di Mario Amato, il gruppo di magistrati che ne ereditarono le inchieste si imbatterono in una strana situazione. Di cosa fosse la destra eversiva[14], malgrado i plurimi inviti e sollecitazioni ad approfondire il tema, che lo stesso Amato aveva rivolto alle varie istituzioni, forze di polizia comprese, tenuto conto della avvertita pericolosità dei soggetti e raggruppamenti, si sapeva poco o nulla.

Quella sottovalutazione, già grave in sé, lo era ancor di più per due ragioni. Da un lato, infatti, ci si avvide di come (anche negli stessi uffici giudiziari) episodi, anche gravi, inducessero molti “benpensanti”a ritenere che gli stessi fossero, in larga misura, dovuti alle intemperanze di quattro ragazzini di destra appassionati delle armi (rileggere le audizioni di Mario Amato al C.S.M. è oggi illuminante).

Dall’altro, e a mano a mano che le indagini divenivano sempre più incisive e chiarificatrici, ci accorgemmo di come sarebbe bastato andare ad “origliare” le chiacchiere che in certi bar si facevano tra gli appartenenti ai nuovi gruppi neofascisti, per scoprire fatti e responsabili di episodi di estrema gravità. Nella destra eversiva si parlava (e straparlava) senza alcuna remora o cautela, nella consapevolezza di un sostanziale “disinteresse” per quegli ambienti da parte delle forze dell’ordine.

Eppure, secondo quanto hanno più volte affermato tanto Fioravanti che la Mambro, molte azioni contro agenti delle forze dell’ordine sono state rese “esplicite”, quanto a matrice di provenienza, proprio per dimostrare agli esterni ed ai sodali  che ci si doveva scrollare di dosso quell’aura di “protezione” da parte delle istituzioni. Se questo stato di cose rappresentava il nucleo pulsante dello spontaneismo armato, ciò stava a significare che un certo radicalismo “rivoluzionario”, che già aveva attraversato formazioni extraparlamentari di sinistra, stava cominciando ad attecchire anche nella destra eversiva, nella consapevolezza che i frutti del compromesso storico avrebbero eroso spazi ideologici anche per il neofascismo “ribellista”.

Siamo ormai ben lontani dalla logica ordinovista e avanguardista, schiava della visione organicistica e strutturalista del “partito-movimento politico ideologico”, che, efficacemente, Rosario Minna (giudice istruttore del secondo processo Occorsio, di cui erano pubblici ministeri gli indimenticabili Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi)[15] definiva essere informata ancora al vecchio “ducismo”. Era infatti innegabile la fedeltà ad una “idea” di “Uomo Nuovo” secondo schematismi evoliani, evocativi del culto della personalità del leader: i vari Delle Chiaie, per Avanguardia nazionale, Paolo Signorelli, Fabio De Felice e lo stesso Concutelli, per Ordine Nuovo, regolavano, con il loro “prestigio”, il flusso dei “fogli d’ordine” ideologici ed operativi, lasciando poco spazio alle iniziative “individualistiche”.

Fioravanti, Mambro[16] e il loro gruppo (autodefinito) dei sette magnifici pazzi, attraverso la dichiarata fine del periodo dei N.A.R. e l’approccio allo “spontaneismo armato”, intendevano invece operare agli esatti antipodi. Fare la guerra contro lo Stato, le Istituzioni, gli “infami” e gli avversari politici, senza voler “prendere il potere”, ma per soddisfare l’esigenza (quasi “estetica”) – come si leggeva su un numero di Costruiamo l’azione – di “dare addosso all’immondo mondezzaio”.  Riecheggiano, e neppure troppo fra le righe, gli obiettivi brigatisti di “disarticolazione delle cinghie di trasmissione del sistema”.

 

4. Nuovi modelli e nuove tecniche di indagine. La frantumazione delle vecchie organizzazioni eversive storiche genera, dunque, il pullulare di iniziative frammentate: la presenza di gruppi neofascisti è registrabile in varie parti dell’Italia. Milano, Padova, Treviso, Venezia, Torino, Genova, Firenze, in Umbria, Lazio, Calabria e Sicilia. Sorge, quindi, un doppio tipo di impegno investigativo. Si dà vita, anzitutto (novità, per quei tempi, non poco contrastata dalle “burocrazie giudiziarie”, schiave del concetto del “lavoro isolato” del magistrato) ad un gruppo di sostituti procuratori, “strutturato” e allocato in un ufficio a sé stante e dotato di un supporto di personale: il pool comincia a funzionare come modello di lavoro, dando subito frutti quasi insperati. Tutte le indagini sulla destra vengono concentrate e, da qui, nella consapevolezza della dimensione nazionale del fenomeno, iniziano contatti periodici con i colleghi di altre sedi giudiziarie che si occupavano delle “emergenze” terroristiche di destra. Inizia, sia pure in forma rudimentale, quello scambio di atti ed informazioni che le novità introdotte nel codice Rocco adesso consentivano e assecondavano.

Siamo ancora ben lontani dalle procure distrettuali e nazionale: ma, nei fatti, ci eravamo attrezzati alla bisogna. Tuttavia, e questo aspetto presenta margini di ovvia delicatezza, le indagini richiedono un simbiotico raccordo tra procura e polizia giudiziaria: dunque, uno “sforzo” organizzativo particolarmente delicato, in quanto – come ho già sottolineato – la conoscenza dell’ambiente era stata sino a quel momento piuttosto trascurata dalle forze di polizia, in quanto l’ottica investigativa e lo studio programmatico del fenomeno eversivo erano stati prevalentemente attratti dall’obiettivamente più consistente fenomeno del brigatismo rosso.

Si era infatti raggiunto l’acme della “geometrica potenza”, col sequestro e l’omicidio dell’onorevole Moro[17]: ma la strage di Bologna aveva rappresentato uno “scrollone” di ineludibile gravità che non poteva non attrarre l’attenzione e gli sforzi istituzionali anche verso l’opposta matrice terroristica.

La DIGOS e (per la verità, un pochino dopo) il reparto Operativo dei Carabinieri, furono quindi indotti a dedicare il massimo sforzo nel collaborare alla attività di indagine. Ma la base di partenza era, in quel periodo, costellata da una massa impressionante di fascicoli a carico di ignoti, e le poche indicazioni soggettivamente significative (frutto di arresti in flagranza per rapine, aggressioni, detenzione di armi e simili) andavano tutte “rilette” e “decrittate” per dar vita ad un quadro unitario.

Malgrado, come ho detto, la eversione di destra fosse diffusa, ovviamente con diversa intensità, più o meno su tutto il territorio nazionale, Roma rappresentava, in quegli anni, una realtà che abbiamo a suo tempo definito come “a macchia di leopardo”. Il numero e la gravitò dei fatti di violenza che si verificavano a cadenza impressionante, denotava, plasticamente, una sorta di suddivisione di aree territoriali e, quindi, ambientali, “occupate” dalle formazioni di sinistra e da quelle di destra: vi erano quartieri “rossi”, dove i neofascisti venivano aggrediti e “neutralizzati” (vari, purtroppo, anche gli omicidi di quegli anni); e quartieri “neri”, dove i ruoli erano ribaltati (anche qui, con omicidi di militanti di opposto colore). San Babila, e i “sambabilini” a Milano, e Parioli e i “pariolini” a Roma sono, evidentemente, delle semplificazioni descrittive, ma che, in qualche misura danno l’idea. Terza Posizione, di questa “scacchiera” ne fece addirittura una strategia strutturale, dando vita, appunto, a tutta una serie di “Comitati di quartiere” (il Comitato Quartiere Trieste; il Comitato Quartiere Montagnola, ecc.), dotati di un settore politico, e l’apporto di un settore operativo, accanto al contributo operativo di una “Legione” (ritroveremo poi nei N.A.R. diversi suoi appartenenti).

I frutti, come ho accennato, furono pressoché immediati. Con la meticolosa rilettura dei fatti, si riuscì, in qualche misura, ad avere idee precise sui raggruppamenti e sugli obiettivi eversivi perseguiti: la “costruzione” della associazione eversiva, costituita in banda armata, era indubbiamente l’operazione più difficile, proprio perché, a destra, le aggregazioni non fruivano, né volevano fruire, a parte la esperienza di Terza Posizione, di una “denominazione d’origine”.

Dunque, erano soltanto i fatti ed il reticolo interpersonale a fungere da cartina del tornasole per la costruzione e configurazione delle fattispecie associative. Ho parlato di reticolo personale perché nella destra neofascista – come è fin troppo evidente – il “cameratismo” va ben al di là di una mera comunanza di intenti, ma assume i connotati di una filosofia esistenziale; una vera e propria Weltanschauung. In questo, i “miti” del passato tornano potenti, e trasferiscono sul piano individuale l’essenza stessa dell’etica rivoluzionaria. E’ evidente, quindi, che in tanto si potesse immaginare l’esistenza di un “gruppo”, in quanto fra i sodali fosse intravedibile questa, del tutto particolare, affectio societatis.

I nostri sforzi si sono concentrati in questa direzione anche attraverso “tecniche” di indagine decisamente “rozze” e che oggi farebbero sorridere.

Ci accorgemmo, infatti, che una miniera di dati potevano essere tratti dagli stessi fascicoli della DIGOS. Bastava, infatti, un semplice verbale di identificazione per stabilire un certo tipo di rapporto tra i soggetti identificati in quella determinata circostanza; imparammo ad utilizzare anche i semplici atti di notorietà che fondavano le dichiarazioni di convivenza, necessarie alle fidanzate dei detenuti per fruire dei permessi di colloquio: andando a vedere, infatti, chi erano stati in quella circostanza i testi fidefacenti, si osservava che i nomi erano sempre di persone riconducibili allo stesso “ambiente”; attraverso le comparazioni balistiche effettuate dalla polizia scientifica, si ricostruivano i collegamenti tra i diversi impieghi di quelle armi, e si impiantò una rudimentalissima (ma assai utile) banca dati delle armi; dai precedenti arresti o investigazioni, si ricostruiva la mappa delle vicende e la “storia” delle persone. Il controllo sulla corrispondenza ed i relativi sequestri offrivano indicazioni interessantissime. Insomma, ogni traccia utile veniva acquisita, censita e “memorizzata” (all’epoca solo in forma cartacea) in un archivio che avevamo cominciato a costituire e che, poi, venne sviluppato e in parte informatizzato. Senza enfasi, ma anche questo si verificò: ad un certo punto, ci accorgemmo che ne sapevamo di più delle stesse forze dell’ordine

 

5. Il problema delle indagini in un universo analogico: l’importanza delle dichiarazioni. L’ho accennato poco fa: gli anni di cui parliamo sembrano sepolti nel tempo. Le evoluzioni della tecnica sono stati stupefacenti e, con esse, le indagini hanno usufruito di mezzi impensabili allora. Parliamo non soltanto di un “codice fa” (operavamo, infatti, col vecchio codice Rocco del 1930, sia pure con gli “aggiornamenti” delle varie novelle[18]); ma anche di un universo fa: oggi, il campo è governato dalla prova scientifica; ieri dalla prova critica. Tutto era analogico[19]: era il documento che parlava, e le persone parlavano nel processo essenzialmente attraverso il documento che rappresentava la dichiarazione: il verbale. Le dichiarazioni dibattimentali seguivano una produzione documentale “schiacciante”: tutto sommato, ne spegnevano grandemente il valore rappresentativo e l’esigenza di immediatezza.

Dico cose ovvie e risapute, ma indispensabili per comprendere il contesto in cui quelle indagini fossero necessariamente assai più “rozze” di quelle che si sarebbero potute svolgere con gli strumenti moderni. Le intercettazioni erano telefoniche e dovevano essere ascoltate con la cuffia e registrate sul magnetofono a nastro; i tracciamenti degli spostamenti richiedevano il vecchio pedinamento; le indagini balistiche e, se vogliamo, anche gli stessi accertamenti medico-legali, avvenivano con i limiti propri delle conoscenze di allora. Le telecamere e gli impianti di videosorveglianza erano sostanzialmente inesistenti; le città, a differenza di oggi, e la stessa vita sociale, erano tutt’altro che “monitorati”. In sostanza, meno tecnica, più privacy, ma, di riflesso, meno “notizie”.

Il documento era, dunque, un fatto importante: ad ogni arresto o perquisizione doveva scaturire l’acquisizione delle (ormai obsolete) “agendine telefoniche”, attraverso le quali ricostruire persone e contatti: e, come per le Brigate Rosse, si usavano delle “codificazioni” alfanumeriche (ne ricordo una che, trasferendo in numeri la nota tiritera “la vispa Teresa avea fra l’erbetta…” aveva fatto impazzire i decrittatori dei Servizi!) e alcune lettere erano, nei passaggi più segreti, codificate secondo un antico codice massonico, di cui fu proprio uno degli arrestati a fornirci il sistema di decrittazione del tutto misterioso.

Gli interrogatori e le perquisizioni – assai meno le intercettazioni, ricordando che cellulari e tablet non esistevano ancora – assieme al materiale che potremmo definire “di polizia” (per questo ho prima accennato della importanza dei fascicoli personali esistenti presso gli uffici della DIGOS), costituivano, dunque, la fonte di approvvigionamento maggiore per le indagini. Da qui, la meticolosità con cui quegli atti venivano compiuti e poi analizzati e la necessità di “costruire” sugli stessi un archivio, destinato a cristallizzare le conoscenze: una “banca dati” tutta analogica, ma estremamente ricca e funzionale, perché sin dall’inizio, alcune voci collaborative ci “illuminarono” su fatti, organizzazioni, responsabilità e, soprattutto, strategie operative.

Imparammo una cosa, che, a mio avviso, si rivelò fondamentale: comprendere ciascuna delle variegate personalità che componevano quell’ambiente, equivaleva a comprendere il particolarissimo “collante” umano su cui i vari gruppi si fondavano. Si trattava, infatti, di una mescolanza di soggetti quanto mai eclettica, per età, esperienze personali, ideali di vita, che doveva trovare un comun denominatore: e la ricerca del fattore di coesione finiva per rappresentare l’oggetto più evanescente, ma assolutamente centrale, del nostro lavoro. Come ho già detto, nella nuova destra eversiva – a differenza delle formazioni di sinistra - contavano più le persone ed il loro reticolo di rapporti che non le strutture più o meno rigide: forse, per una innata propensione all’individualismo, tipico di un certo retaggio culturale.

Tutto questo non vuole affatto significare che fossimo alla ricerca di una sorta di “tipo d’autore”: anzi, è l’esatto contrario, perché solo attraverso una “disarticolazione” dei gruppi era possibile pervenire ad una lettura plausibile dei vari personaggi che li componevano. Quando in alcune operazioni (mi viene in mente l’assalto a Radio Città Futura, o la rapina all’armeria Omnia Sport, entrambe operazioni altamente “simboliche”) operavano più “gruppi” o ambienti (N.A.R., ambienti del FUAN, ecc.), ancora una volta erano i rapporti personali a dettare le “regole del gioco”, piuttosto che le strategie di ciascuna componente dell’eclettico commando.

In questo contesto, l’importanza della lettura dei documenti di propaganda ideologica assume un risalto per alcuni aspetti meno pregnante rispetto a quanto accadeva a sinistra: il neofascismo eversivo ha convissuto con una mitologia ben sedimentata, e poco propensa a “modernismi” che ne offuscassero la portata. Il livello medio di “indottrinamento politico”, e se si vuole di cultura politica, era piuttosto basso: la politica del “fare” era molto più attrattiva di quella del “dire” e del “proclamare”. Trovare, quindi, tratti di effettiva differenziazione ideologa fra i diversi gruppi era operazione assai ardua e, tutto sommato, superfluo alla luce di quanto si è già osservato.

Mi sentirei di fare solo una distinzione a proposito del cosiddetto Movimento Popolare Rivoluzionario che ruotava attorno all’ambiente di Costruiamo l’Azione, dove agivano persone, come Sergio Calore e Paolo Aleandri, capaci di “ideare” elementi di significativa novità politica e culturale. Non è un caso, quindi, che, assecondando la prospettiva del cosiddetto movimento del 1977, siano state in quell’ambiente per la prima volta tentate delle convergenze strategiche con la sinistra eversiva, poi ineluttabilmente fallite.

Ma è proprio in quel crogiolo di realtà sfilacciate che – guarda caso – nelle indagini conseguite al rinvenimento di un grosso covo di armi e documenti di estremo interesse investigativo, gestito da Egidio Giuliani, a seguito degli arresti operati, per la prima volta ci imbattemmo con esponenti delle Brigate Rosse che avevano partecipato ad alcune rapine e scambio di armi, con i “nostri” eversori di destra.

Viene in mente la logica del canestro di ciliegie: erano anni di profondo tumulto sociale, nei quali gli equilibri erano sempre in precario spostamento “in avanti”; il malessere di profondi strati della realtà giovanile (le università e le scuole sembravano distillare una cultura di violenza antisistema, non soltanto verbale) rendeva quasi trasparenti i fermenti, e dunque, permetteva che, dalla individuazione di un reato maturato in quel contesto, e dei suoi autori, si potesse risalire alle responsabilità di altri fatti, “figli” o “fratelli” del primo.  

Stagione intensa, dunque, ma che per fortuna – come è stato da tutti riconosciuto – non vide eccessi o abusi nella risposta istituzionale.

 

6. La destra eversiva e la criminalità “comune”. È una pagina nota e da molti scandagliata sotto vari profili ricostruttivi. Il terrorismo neofascista, infatti, non è stato solo contrassegnato da bombe, omicidi, assalti, progetti di golpe e “vendette” di vario genere: nel corso della nostra esperienza e nella rilettura di vecchi episodi, ci siamo imbattuti in sequestri di persona (Concutelli, quando fu arrestato, fu trovato in possesso di banconote che provenivano dal sequestro del banchiere leccese Luigi Mariano, liberato dopo il pagamento di un riscatto di 280 milioni di lire), in una serie impressionante di rapine, in banche uffici postali e armerie, furti di vario genere, creazione di documenti di identità falsificati, smercio di preziosi, traffico di banconote false, ed altri reati “comuni”, ma chiaramente orientati a finanziare o comunque ad agevolare l’attività dei gruppi eversivi e terroristici.

Tutto questo, in un quadro di relazioni con organizzazioni criminali “comuni” di altissimo spessore. Parliamo di mafia, banda della Magliana, clan dei Marsigliesi, banda Turatello e simili[20].

Molto si è detto dei contatti tra i “neri” e la banda della Magliana, i cui componenti, a cominciare da Franco Giuseppucci, appartenevano alla stessa ideologia neofascista. Le recenti vicende che hanno visto protagonista Massimo Carminati, il quale perse un occhio proprio in quegli anni, in quanto ferito dalla polizia mentre tentava di passare il valico di Gaggiolo con la Svizzera, attraverso un itinerario utilizzato dai latitanti dei N.A.R., testimoniano del circuito strettissimo tra ambienti di malavita organizzata ed eversione di destra, al punto che si è vagheggiata una convergenza operativa, attraverso lo scambio di uomini e mezzi, per la realizzazione di alcuni episodi criminosi eclatanti, ma processualmente rimasti un sostanziale “mistero”[21]

D’altra parte, che criminalità comune e criminalità politica possano presentare aspetti di intersezione tanto delinquenziale che ideologica, è un dato ormai anche processualmente assodato. Difficile, d’altra parte, pensare che “operazioni” da compiere in Sicilia (ad esempio, il progetto di evasione di Concutelli dal carcere di Palermo) potessero essere realizzate senza un qualche “lasciapassare” della criminalità mafiosa; così come le insistite voci di “scambi” di favori con realtà mafiose per la commissione di omicidi “eccellenti” non sono certo suonate come ipotesi del tutto inverosimili.

Per altro verso, la “riconversione” politica di criminali comuni è fenomeno tutt’altro che ignoto fra le formazioni neofasciste; così come, all’inverso, abbiamo assistito ad una “riconversione” in criminalità comune, dopo gli anni di piombo, di diversi ex militanti in quelle stesse formazioni.

È un fenomeno, questo, che, anche se non del tutto ignoto alle formazioni di sinistra (penso, in particolare, ai N.A.P.), mi sembra sia stato particolarmente significativo nei gruppi di destra, vista la facilità con la quale giovani “di buona famiglia”, hanno potuto accedere ad armi, documenti falsi, riciclatori e ricettatori, ladri di vetture e simili, nel corso della loro storia ed evoluzione. Molte realtà umane hanno così finito per consumarsi, come criminali “comuni”, nei peggiori dei modi: in carcere, uccisi in conflitti a fuoco o per vendette di vario genere; drogati o emarginati da ogni contesto sociale. Tragici epiloghi che testimoniano il fallimento di malintesi “valori”.

 

7. Piccoli spunti pro futuro. Difficile trarre qualche spunto conclusivo dalla esperienza professionale ed umana che ci ha accomunato in quegli anni.

Le indagini che coinvolgono fenomeni complessi, come il terrorismo e la eversione antidemocratica, non possono essere condotte in modo “isolato”, quasi autoreferenziale. Occorre – come oggi è un dato acquisito – che il coordinamento, all’interno degli uffici di procura e tra gli uffici di procura, sia effettivo e non ponga il singolo magistrato come autonomo e solitario “gestore” della attività investigativa.

Nel nostro piccolo, e con i mezzi (come abbiamo ricordato, rozzi e limitati) che avevamo a disposizione, abbiamo – sia pure ante litteram – dato vita ad un lavoro di gruppo, condividendo esperienze e conoscenze tra noi e con gli altri colleghi, sicuri che il bagaglio delle acquisizioni dovesse essere non cristallizzato, ma costantemente reinterpretato e ampliato. Qualunque “gelosia” investigativa e qualunque perdita di reciproca fiducia con la polizia giudiziaria (abbiamo avuto la fortuna di imbatterci in persone davvero eccezionali, e che hanno anche pagato un caro prezzo come il povero Capitano Francesco Straullu[22]) avrebbero compromesso quelli che ritengo essere stati degli indiscutibili successi.

Ma quel modello e l’”archivio” di memoria che ne è derivato (qualcosa di ben diverso dalle banche dati di cui oggi disponiamo), credo valga a prevenire ciò che l’esperienza del passato ci ha insegnato a rifuggire: vale a dire, la sottovalutazione se non addirittura il tendenziale disinteresse, verso fenomeni che – come abbiamo ricordato in premessa – possono nuovamente germinare, anche se con mutate forme.

I gruppi che si propongono obiettivi di discriminazione, di odio razziale o negazionista, secondo i nuovi artt. 604-bis e ter cod. pen., attraverso qualunque forma di violenza, non possono a mio avviso essere riguardati come delle entità realmente distanti da quelli che hanno caratterizzato la galassia in cui si è “storicamente” espressa, nei termini di cui abbiamo accennato, la destra eversiva.

Antevedere le possibili derive antidemocratiche è, quindi, a me sembra, un imperativo categorico che può consentire di mettere a frutto le esperienze – purtroppo anche tragiche – maturate nel passato, e delle quali ho cercato di fornire una piccola testimonianza.

 

 

 

[1] Per un approccio critico in riferimento alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, v. F. Blando, Movimenti neofascisti e difesa della democrazia, in Costituzionalismo.it, fascicolo 1, 2014. V. anche G. E. Vigevani, Origine e attualità del dibattito sulla XII disposizione finale della Costituzione: i limiti della tutela della democrazia, in Rivista di diritto dei media 1/2019; B. Pezzini, Attualità e attuazione della XII disposizione finale: la matrice antifascista della costituzione repubblicana, Giuffrè, 2011;

[2] Sul “rifiorire” dei gruppi neofascisti v., fra gli altri, P. Berizzi, Nazitalia, Baldini+Castoldi, 2018; G. Caldiron, Estrema destra, Newton Compton Editori 2017;C. Vercelli, Neofascismo in grigio, Einaudi, 2021;E. Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017.

[3] Terza Posizione nacque intorno al 1978 dalle ceneri di Lotta Studentesca, con una posizione ideologica vagamente ispirata al “terzismo” peronista. I suoi slogans, con i quali tappezzava i muri di Roma, specie nel quartiere Trieste, nei pressi del liceo Giulio Cesare, quartiere ove era presente uno nei nuclei più significativi del movimento (il Comitato Rivoluzionario Quartiere Trieste), erano “Né fronte rosso, né reazione, avanti per la Terza Posizione”, e “Il popolo non vota, lotta”. Il movimento si avvaleva, come gran parte dei gruppi neofascisti, del simbolismo norreno: il suo simbolo si ispirava, infatti,  alla runa Wolfsangel, vale a dire dente di lupo (una sorta di “N” rovesciata sbarrata al centro), con un martello che rievocava il mitico “martello di Thor”, del quale i militanti facevano abbondante uso nelle manifestazioni di piazza. Richiamava strutturalmente il modello a  “nidi” (Cuib), tratti dallo scritto Guardia di ferro di Corneliu Codreanu, un collaborazionista rumeno. Tra le varie ricostruzioni, v. N. Rao, Il Piombo e la Celtica, Sperlig & Kupfer, 2009; U. M. Tassinari, Fascisteria, Castelvecchi editore, 2001; M. Caprara, G. Semprini, Neri!, Newton Compton, 2011.

[4] V. al riguardo Spaccasassi, Le manifestazioni usuali del fascismo tra legge “Scelba” e “Mancino”, in Questione giustizia, 7 aprile 2022; A. Nocera, Manifestazioni fasciste e apologia del fascismo tra attualità e nuove prospettive incriminatrici, in Diritto Penale Contemporaneo, 9 maggio 2018, 14; L. Risicato, Lo scivoloso confine tra commemorazione e apologia del fascista, in Giurisprudenza Italiana, 2021, 1960; e M. Pelissero, La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione Giustizia n. 4 2015; D. Pulitanò, Legge penale, fascismo, pensiero ostile, Rivista di diritto dei media, n. 1 del 2019.

[5] V F. Palazzo, La nuova frontiera della tutela penale dell’eguaglianza, in questa Rivista, 11 gennaio 2022. Sulla aggravante del negazionismo, v. il fondamentale contributo di E. Fronza, Il negazionismo come reato, Giuffrè, 2012; M. Donini, Negazionismo e protezione della memoria, in questa Rivista, 10 febbraio 2021; L. Buscema, Giustizia riparativa e negazionismo: ricordare, rimediare e riflettere per riconciliare, in questa Rivista, 14 giugno 2022, nonché, volendo, A. Macchia, Negazionismo, discriminazione e crimini d’odio: una nuova prospettiva?, in Cass. pen., 2022, 953. Sui discorsi di odio v. A. Galluccio, Punire la parola pericolosa?, pubblica istigazione, “discorso d’odio” e libera espressione nell’era di internet, Giuffrè, 2020. Sulle problematiche dei reati “culturalmente motivati” v. F. Basile, Le principali categorie di reati culturalmente motivati, in Diritto penale e uomo, 26 giugno 2019.

[6] È di pochi giorni fa la notizia secondo la quale l’Italia è annoverata tra i nove Paesi che non hanno aderito alla dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore delle comunità Lgbtiq+, presentata dalla presidenza belga dell’Unione europea ai 27 Paesi Ue. Oltre all’Italia, non hanno firmato il documento: Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. L’Italia, secondo quanto precisato alla stampa da fonti del ministero della Famiglia, avrebbe deciso di non firmare la dichiarazione perché «in realtà è sbilanciata sull’identità di genere» e ricalcherebbe quindi «il contenuto della legge Zan», ossia il disegno di legge presentato dal deputato del Pd Alessandro Zan (e mai approvato) che prevede l’inasprimento delle pene contro i crimini e le discriminazioni nei confronti di omosessuali, transessuali, donne e disabili.

[7] La disposizione stabilisce che 1. Chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all'articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 258. Le organizzazioni sono quelle ora previste dall’art. 604-bis cod. pen., il cui comma 3 stabilisce appunto che “È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici nazionali o religiosi”. Rassegna, come si vede, in parte diversa e riduttiva rispetto alla non discriminazione costituzionalmente imposta dall’art. 3, che fa riferimento, anche, al sesso, alla lingua, alle opinioni politiche ed alle condizioni personali e sociali.

[8] Per la distinzione, non da tutti condivisa, tra reati di pericolo presunto e reati di pericolo astratto v. F. Mantovani, Diritto penale, parte generale, Cedam, 2019, 205 s.

[9] Per un’ampia disamina sui gruppi “storici” v. N. Rao, La fiamma e la celtica, Sperlig & Kupfer editori, 2006. Per uno sguardo sulle evoluzioni anche successive, v. M. Caprara, G. Semprini, Neri! La storia mai raccontata della destra radicale, eversiva e terroristica, Newton Compton, 2011.

[10] V. G. Compagno, Paolo Signorelli, Coniglio editore, Roma, 2008.

[11] Riconducibile alla posizione, all’epoca evoliana, di Fabrizio Zani, protagonista tanto ideologico che operativo di quegli anni e che tentò di accreditare la filosofia dello spontaneismo armato.

[12] Tipico l’esempio dell’omicidio di Antonio Leandri, commesso a Piazza Dalmazia a Roma, il 17 dicembre 1979, perché scambiato per un avvocato che si diceva fosse la fonte che aveva indicato alla polizia il covo di Via dei Foraggi, ove si nascondeva Pierluigi Concutelli, poi effettivamente arrestato. Analogo l’omicidio del tipografo romano Maurizio Di Leo, ucciso a Roma il 1° settembre 1980, perché scambiato per il giornalista Michele Concina, accusato di aver pubblicato vari articoli contro la destra eversiva. D’altra parte, sono note le campagne dei N.A.R. contro i cosiddetti “pennivendoli di regime”

[13] Su tali vicende e sul processo italiano, v. P. Mayorga, Il Condor Nero. L’Internazionale fascista e Pinochet, Sperling & Kupfer editori, 2003.

[14] Sulla eversione di destra di quegli anni v. il lavoro collettivo coordinato da V. Borraccetti, per Questione giustizia, Eversione di destra, terrorismo, stragi. I fatti e l’intervento giudiziario, Franco Angeli, 1986, nonché il fondamentale lavoro di F. Ferraresi, La destra radicale, Feltrinelli, 1984, nonché Id., Minacce alla democrazia: la Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, 1995. V. anche R. Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi Editore, 2012.

[15] Procedimento che era stato avviato sulla base delle prime dichiarazioni che eravamo riusciti a raccogliere a Roma dai primi collaboratori.

[16] V. A. Colombo, Storia nera. Le verità di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, Cairo Editore, 2007.

[17] L’espressione venne usata, come è noto, da Franco Piperno, esponente di Potere Operaio. Piperno affermò, infatti, che occorreva «Coniugare insieme la terribile bellezza di quel 12 marzo del '77 per le strade di Roma (corteo di massa armato) con la geometrica potenza dispiegata in via Fani».  V. F. Piperno, Dal terrorismo alla guerriglia, in "Pre-Print" del dicembre 1978.

[18] Stiamo parlando di anni in cui faceva capolino quello che Ennio Amodio efficacemente definì come il periodo del “garantismo inquisitorio”.

[19] La distinzione tra documento analogico e documento digitale e tra metodo analogico e metodo digitale è puntualmente offerta da P. Tonini, C. Conti, Manuale di procedura penale, 24^ ed., Giuffrè, 2023, p. 390.

[20] Mi capitò, a suo tempo, di parlare di “strutture di cerniera”, per definire quei qualificati sodalizi delinquenziali, propensi a raccordarsi funzionalmente a gruppi dei quali si conosceva la natura eversiva, pur mantenendo autonome le “bande”, anche se correlate fra loro. Si era fra l’altro posto il problema del teorico concorso tra associazione per delinquere e associazione finalizzata al terrorismo o eversione o della possibile aggravante della finalità di terrorismo per i reati di criminalità comune commessi dai delinquenti “comuni” ma nella consapevolezza di agevolare i gruppi eversivi.

[21] Basti pensare all’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli o a quello di Piersanti Mattarella.

[22] Il giovane Capitano di P.S. Francesco Straullu venne ucciso, assieme al suo autista Ciriaco Di Roma, il 21 ottobre 1981 da un nucleo dei N.A.R. con un rituale volutamente “macabro”, realizzato attraverso, fra l’altro, l’esplosione di numerosi colpi, anche a bruciapelo, esplosi con fucili d’assalto Sig-Manurhin, impiegati per l’ipotesi in cui la vettura fosse stata blindata: fucili acquistati in Svizzera, utilizzando falsi tesserini da finanziere. Nel volantino di rivendicazione si affermava «Mercoledì 21 ottobre alle 8.50 abbiamo giustiziato i mercenari torturatori della DIGOS Straullu e Di Roma. Ancora una volta la Giustizia Rivoluzionaria ha seguito il suo corso e ciò resti di monito per gli infami, gli aguzzini, i pennivendoli. Chi ancora avesse dei dubbi circa la determinazione e la capacità dei combattenti rivoluzionari ripercorra le tappe di questo ultimo anno e si accorgerà che il tempo delle chiacchiere è finito e la parola è alle armi [...]. Non abbiamo né poteri da inseguire né masse da educare; per noi quello che conta è rispettare la nostra etica per la quale i Nemici si uccidono e i traditori si annientano. La volontà di lotta ci sostiene di giorno in giorno, il desiderio di vendetta ci nutre. Non ci fermeremo! Non temiamo né di morire né di finire i nostri giorni in carcere; l'unico timore è quello di non riuscire a far pulizia di tutto e di tutti, ma statene certi, finché avremo fiato, non ci fermeremo [...]. Mercoledì, per ultimo, è toccato a Straullu. I suoi misfatti erano ben superiori al già grave fatto di appartenere alla cricca degli aguzzini di Stato [...] ben sappiamo in che condizioni taluni camerati sono usciti dal suo ufficio, dopo ore di sevizie. Ben sappiamo le pratiche laide che adottava nei confronti delle donne dei camerati in galera. Ben sappiamo come osava vantarsi di tutto ciò. Finché la mano della giustizia l'ha raggiunto ed annientato, come non tarderà a raggiungere ed annientare chiunque lo meriti». Le allusioni alle donne dei camerati in galera si riferivano alla accusa di avere “insidiato” la compagna dell’epoca di Egidio Giuliani, nel frattempo arrestato dopo la scoperta del Covo di Via Prenestina, di cui abbiamo fatto cenno. Su tale vicenda e sul contesto v. U. M. Tassinari, Fascisteria, Sperling & Kupfer, 2008.