Pubblichiamo di seguito il testo, con alcune modifiche e integrazioni, della memoria depositata dalla Prof.ssa Antonella Massaro durante l’audizione svolta, il 20 maggio 2025, presso la Seconda Commissione Giustizia del Senato, nell’ambito dell’esame del disegno di legge n. 1433 (Femminicidio e contrasto alla violenza sulle donne).
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1. Uno statuto penale differenziato per la violenza contro le donne: considerazioni introduttive.
Il disegno di legge n. 1433, intitolato Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime, prevede all’art. 1 l’introduzione di una fattispecie autonoma di femminicidio (che sarebbe inserita nel nuovo art. 577-bis c.p.) e di alcune circostanze aggravanti, modellate sugli stessi elementi costituitivi del reato autonomo, per i seguenti delitti: maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.), lesioni personali e omicidio preterintenzionale (intervenendo sul catalogo delle aggravanti previsto dall’art. 585 c.p.), interruzione di gravidanza non consensuale (art. 593-ter c.p.), violenza sessuale (intervenendo sull’art. 609-ter c.p.), atti persecutori (art. 612-bis c.p.), diffusione illecita di foto e video a contenuto sessualmente esplicito (art. 612-ter c.p.).
Prendendo in considerazione solo queste modifiche, relative al piano del diritto penale sostanziale, credo che la presentazione del disegno di legge in esame si presti a un duplice livello di riflessione. Anzitutto, in via preliminare, è necessario chiarire se sia possibile (da un punto di vista tecnico-giuridico) e opportuno (da un punto di vista politico-criminale) introdurre uno statuto penale differenziato per il fenomeno della violenza contro le donne. In secondo luogo, sempre che al primo quesito si ritenga di rispondere affermativamente, si tratta di precisare in che modo questa esigenza di tutela possa trovare concreta attuazione sul versante più strettamente legislativo-normativo.
Quanto all’an di un intervento del legislatore, sebbene sia consapevole della complessità del tema, credo che l’introduzione di norme penali che valorizzino la violenza contro le donne come fenomeno “speciale” sia praticabile sul piano tecnico-giuridico e che, allo stato attuale, risulti altresì auspicabile sul versante più strettamente politico-criminale.
Non mi soffermerò troppo sulla eterna dialettica tra repressione e prevenzione, che non solo caratterizza il rapporto del diritto penale con altri settori dell’ordinamento, ma che, storicamente, ha offerto la base per la costruzione di sistemi penali ispirati a modelli per molti aspetti antitetici. Mi limito ad osservare che, in riferimento allo specifico fenomeno della violenza contro le donne, è evidente come dall’introduzione di nuove norme penali non conseguirebbe automaticamente un significativo abbattimento del numero dei femminicidi, specie se riforme di questo tipo non siano accompagnate da più ampi e strutturati interventi sul piano della prevenzione (stricto sensu intesa), preferibilmente attraverso riforme che non si chiudano con laconiche e poco lungimiranti clausole di invarianza finanziaria. Questo però non significa che l’intervento del diritto penale sia inutile o addirittura dannoso. Come già avvenuto in passato (specie) con l’introduzione di una fattispecie autonoma per il delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), un’esplicita considerazione di fenomeni criminali caratterizzati da riconoscibili peculiarità può contribuire tanto a una più tempestiva individuazione dei fatti in questione da parte delle autorità competenti quanto a una più efficace strategia repressiva (stricto sensu intesa), secondo quello che al diritto penale, pressoché strutturalmente, compete. Senza contare l’innegabile valenza simbolico-culturale di un esplicito riconoscimento, da parte del diritto penale nazionale, delle dinamiche riconducibili alla violenza di genere[1].
Per meglio chiarire le premesse che mi conducono a questa conclusione credo sia utile muovere dalla preliminare distinzione tra tre concetti, indubbiamente contigui, ma chiaramente distinti e distinguibili: il riferimento è alle categorie della violenza domestica, della violenza di genere e della violenza contro le donne.
2. Violenza domestica, violenza di genere e violenza contro le donne: coordinate definitorie.
Il concetto di violenza domestica non pone particolari difficoltà a livello ricostruttivo: la definizione si concentra sull’elemento oggettivo del legame “familiare” tra reo e persona offesa, inteso, in senso ampio, come contesto affettivo dotato di un coefficiente minimo di stabilità. Il modello, detto altrimenti, è quello del “reato relazionale”, commesso, cioè, nell’ambito di un rapporto interpersonale, esistente prima del fatto[2]. La ratio dell’aggravamento di pena risiede nel fatto che il contesto domestico può rivelarsi particolarmente criminogeno sia perché, trattandosi di un contesto privato, i meccanismi di controllo sociale hanno un minor potenziale di inibizione del comportamento violento sia perché il controllo esercitato da chi occupa una posizione dominante rende più difficile il ricorso alle autorità[3].
Il concetto di violenza di genere, invece, valorizza la “causa” della violenza, evidenziandone il carattere strutturale e la matrice socioculturale: la violenza è diretta contro una persona per ragioni legate al genere, intendendo con quest’ultima espressione i ruoli, i comportamenti e gli attributi che un certo modello socioculturale, che “motiva” l’agente e/o che quest’ultimo assume a parametro della propria condotta, considera appropriati per uomini e donne[4].
I gender-based crimes, detto altrimenti, sono dei culturally-motived crimes, nel senso che trovano la loro “ragione” in un modello culturale accettato come dominante in un determinato contesto storico: l’esplicita criminalizzazione di questi comportamenti si fonda proprio sulla distanza di un certo ordinamento giuridico rispetto a modelli culturali che il diritto (anche penale) non solo non riconosce, ma, anzi, si propone di superare.
La violenza contro le donne, infine, costituisce una species del genus violenza di genere: agli elementi costitutivi di quest’ultima si aggiunge il quid pluris della selezione della vittima, rappresentata dalla donna, intesa (anzitutto) in senso biologico o, comunque, giuridico-formale.
La ratio di tutela, mi sembra opportuno precisarlo, non si fonda sulla pretesa vulnerabilità della “donna in quanto donna”, che, in quanto ontologicamente fragile, necessiterebbe di una tutela rafforzata, seguendo il filo conduttore di una connessione strutturale tra “femminile” e “debolezza”. Sono le modalità dell’offesa a rendere la vittima di violenza di genere vulnerabile che legittimerebbero l’introduzione di norme penali ad hoc, con una prospettiva di tutela che trova il suo baricentro (non nella donna vulnerabile in una prospettiva ex ante, ma) nell’uomo violento e nelle cause strutturali della violenza.
Sembrerà banale a dirsi, ma la violenza contro le donne non è un “problema” delle donne vittima di violenza, ma, prima di tutto, è un “problema” degli uomini violenti.
La peculiarità che, come precisato, caratterizza la violenza di genere e (quindi) la violenza contro le donne, rende ragionevole (id est: conforme al principio di uguaglianza) una differenziazione di questi fenomeni sul piano giuridico-penale[5].
2.1. La lettura oggettiva del “motivo di genere”.
Attraverso le categorie dalla violenza di genere e contro le donne, occorre precisarlo, non si valorizza il disvalore soggettivo insito in un particolare movente o in una certa finalità, posto che, a mio avviso, il concetto in questione può e deve essere ricostruito su basi oggettive.
Non è necessario arricchire la definizione con una componente soggettiva, il cui effetto immediato sarebbe quello di richiedere un’indagine sulla causa psichica che ha spinto il soggetto ad agire o, più in generale, sul suo foro interno, giungendo, tra l’altro, alla conclusione (poco auspicabile) di una necessaria rappresentazione del motivo in questione.
Il reato, piuttosto, deve essere “causato” da un modello socioculturale fondato sulla discriminazione di genere. Non importa che il soggetto sia stato concretamente motivato alla commissione del reato dalla discriminazione di genere: ciò che importa è quel modello, oggettivamente riconoscibile in sede di accertamento della responsabilità penale, sia disapprovato dall’ordinamento.
Se, quindi, non rilevano le motivazioni interiori che hanno sorretto, nel caso concreto, la condotta penalmente rilevante, ma le cause oggettive del reato, riconducibili al modello socioculturale fondato sulla discriminazione di genere e sulla subalternità della donna rispetto all’uomo, l’accertamento del requisito in questione dovrebbe essere condotto sulla base di un parametro (non soggettivo, ma) oggettivo, che valorizzi il punto di vista di un osservatore esterno e non quello del reo.
Risultano di particolare interesse, a questo proposito, alcuni spunti emersi nella giurisprudenza spagnola, chiamata a confrontarsi con la novità introdotte dalla Ley orgánica 1/2004, contenente misure di protezione integrale contro la violenza di genere.
Si è posta la questione, per quel che qui maggiormente interessa, se, per applicare le fattispecie previste dagli articoli 153, primo comma, 171, quarto comma e 172, secondo comma del codice penale spagnolo, fosse necessaria una particolare intenzione dell’agente, anche sulla base dell’art. 1 della legge di riforma, o se, al contrario, fosse sufficiente una condotta commessa da un uomo nei confronti di una donna rispetto alla quale intrattiene o ha intrattenuto una relazione coniugale o analoga.
Il Tribunale Supremo, con considerazioni relative anche al cruciale profilo dell’onere della prova (rectius, rischio per la mancata prova), ha osservato che «secondo la giurisprudenza costituzionale, per l’applicazione dell’art. 153.1 del codice penale, è necessario un substrato che dimostri che l’aggressione è inquadrata nel contesto di una concezione riprovevole impiantata in ambiti culturali o sociali di predominio maschile sulle donne. Ma questo non significa che sia necessario un particolare elemento soggettivo o un dolo specifico. La presunzione funziona in senso opposto. Solo se vi è la prova o l’evidenza che l’episodio specifico o ripetuto di violenza è totalmente estraneo a questa concezione socialmente radicata, e che l’aggressione o la lesione obbediscono a coordinate radicalmente diverse, non vi sarebbe alcuna base per la differenziazione penale e la condotta dovrà essere punita attraverso i tipi sussidiari in cui la condizione femminile del soggetto passivo non rappresenta un titolo di aggravamento penale. Ma in linea di principio, un’aggressione in questo quadro contestuale di per sé e senza la necessità di una prova speciale è legata alla concezione che il legislatore penale intende sradicare o almeno riprovare»[6].
In maniera ancora più chiara, si è precisato come quello che caratterizzerebbe le fattispecie in questione non sarebbe un elemento soggettivo, «ma oggettivo, seppur contestuale e sociologico. Questa componente “machista” va ricercata nell’ambiente oggettivo, non negli stati d’animo o nelle intenzioni. Quando la Corte Costituzionale richiede quest’altro disvalore, non sta richiedendo una reiterazione, o uno scopo specifico, o una comprovata personalità machista. Chiede semplicemente di valutare se si possa ragionevolmente sostenere che nell’episodio in questione sia presente, anche se solo in forma latente, subliminale o latente, una tendenza “oggettivabile”, derivante dall’oggettività stessa dei fatti, a perpetuare una secolare disuguaglianza che si vuole sradicare punendo più severamente comportamenti che hanno questo sfondo»[7].
3. Le scelte del legislatore italiano degli ultimi decenni e le prospettive future: l’alternativa tra violenza di genere e violenza contro le donne.
Nel titolo di alcune delle più importanti leggi approvate in materia negli ultimi decenni si fa riferimento alla violenza di genere e/o alla violenza contro le donne, spesso accanto alla violenza domestica[8]. L’impressione, tuttavia, è che il legislatore italiano abbia seguito essenzialmente il paradigma di incriminazione offerto dalla violenza domestica e, quindi, dalla relazione pregressa tra reo e vittima nell’ambito di un contesto familiare-affettivo.
Il riferimento è, in particolare, alle c.d. aggravanti della relazione, introdotte, per esempio, per l’omicidio volontario (art. 577, primo comma, n. 1 e secondo comma c.p.), la violenza sessuale (art. 609-ter, primo comma n. 5-quater c.p.), gli atti persecutori (art. 612-bis, secondo comma c.p.), la diffusione illecita di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito (art. 612-ter, terzo comma c.p.).
Con la violenza di genere o la violenza contro le donne, come ho precisato, si aggiungerebbe un tassello ulteriore al mosaico di tutela che si sta componendo nel nostro ordinamento, valorizzando la violenza contro le donne come fenomeno distinto e concettualmente autonomo rispetto alla violenza domestica.
Si discute, anche all’interno del femminismo giuridico, se l’attenzione debba focalizzarsi sulla violenza di genere in senso ampio o, piuttosto, sulla sola violenza contro le donne, la quale presenterebbe una specificità che non potrebbe e dovrebbe confondersi nella troppo ampia cornice delle discriminazioni legate al genere.
Sebbene in passato le mie riflessioni si siano concentrate sulla categoria generale della violenza di genere (o, meglio, dei reati di genere), credo sia comunque ragionevole prendere in esame, come fa il disegno di legge n. 1433, la sola violenza contro le donne: il fenomeno in questione presenta in effetti delle caratteristiche, sul piano quantitativo e qualitativo, che consentono di differenziarlo nell’ambito del genus più ampio, secondo la linea di tendenza che emerge anche dalle fonti internazionali ed eurounitarie.
4. Criticità della fattispecie di femminicidio proposta dal disegno di legge n. 1433 e possibili soluzioni alternative.
Passando ad esaminare il secondo piano di riflessione, quello relativo al quomodo dell’intervento legislativo, credo che la fattispecie di femminicidio, per come proposta dal disegno di legge n. 1433, presenti alcuni elementi di criticità.
Il primo comma del nuovo art. 577-bis c.p. rubricato femminicidio, risulterebbe così formulato: «Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575 […]».
Mi sembra che la descrizione della fattispecie di femminicidio sia sovraccarica di elementi costitutivi che, lungi dal chiarire con precisione i contorni della nuova norma, alimenterebbero le incertezze sul piano applicativo[9].
Anzitutto, la precisazione «fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575» risulta chiaramente superflua, posto che la nuova norma risulterebbe speciale rispetto all’art. 575 c.p. e, quindi, il rapporto con l’omicidio volontario resterebbe regolato dai principi generali.
Quanto alla “definizione” di femminicidio, sono ipotizzabili (almeno) due soluzioni, tra loro alternative.
La prima soluzione consiste nel riferimento al concetto di genere e a quello di “violenza fondata sul genere”, a sua volta intesa come violenza basata (o fondata) su ragioni di genere. Questa prima strada richiederebbe l’introduzione di una norma definitoria, che a sua volta, potrebbe recepire le indicazioni offerte dalle fonti internazionali ed europee (a partire dalla Convenzione di Istanbul) oppure seguire una formulazione autonoma.
Una definizione del femminicidio che si “appoggi” a quella della violenza di genere, in effetti, sembrerebbe l’opzione preferibile: non solo risulterebbe sufficientemente chiaro il legame logico-concettuale con i gender-based crimes, ma un’opzione di questo tipo, forse, consentirebbe di affrancare interpretativamente il concetto di “donna” (persona offesa) da una lettura esclusivamente biologica, per orientarla verso la più ampia cornice offerta dalle costruzioni sociali e culturali.
La seconda soluzione, qualora si voglia evitare un riferimento testuale e concettuale al genere, consiste nella valorizzazione degli elementi costitutivi della violenza contro le donne, specie per come descritta dalla giurisprudenza italiana che, pur in assenza di norme ad hoc, si confronta esplicitamente con il fenomeno in questione[10].
Una possibilità potrebbe essere quella di valorizzare la triade controllo, possesso e dominio, richiedendo che il fatto sia basato (o fondato) su ragioni di controllo, possesso o dominio esercitati nei confronti della persona offesa in quanto donna.
Le scelte relative alla lettera della nuova disposizione rappresentano certamente un aspetto cruciale, specie allo scopo di non ridurre l’intervento legislativo a mero diritto penale simbolico, che, come spesso evidenziato, rappresenta un rischio evidente collegato all’attuale formulazione del disegno di legge[11].
Sulla base di considerazioni riferibili anche alla soluzione definitoria che fa riferimento al concetto di genere, credo sia preferibile affidarsi a segni linguistici di stampo oggettivo-causale, capaci di valorizzare la lettura in senso oggettivo del motivo di genere alla quale si è fatto riferimento. Proprio per questo ragione, mi sembra preferibile evitare formule linguistiche che potrebbero suggerire una connotazione teleologica della condotta o, in ogni caso, una curvatura soggettivizzante dell’elemento che viene in considerazione (per, al fine di)[12].
Nella prima parte della formulazione proposta dal disegno di legge si usa, in maniera condivisibile, l’espressione il fatto è commesso come atto di.
Possibili formulazioni alternative, alle quali ho in parte già fatto riferimento, sono le seguenti:
Quanto ai concetti di controllo, possesso e dominio, ho immaginato, sia pur come spunto di una riflessione ancora provvisoria, che gli stessi possano essere collocati lungo una sorta di climax ascendente, in base al diverso grado di incidenza sulla sfera di autodeterminazione della donna: il controllo indicherebbe la limitazione della libertà di autodeterminazione a un livello “minimo”, il possesso farebbe riferimento a una vera e propria reificazione della donna, mentre il dominio si riferirebbe a uno stato assoggettamento complessivo della persona. Si tratta di elementi che sarebbero una manifestazione del rapporto di potere o, meglio, della asimmetria di potere che caratterizza le dinamiche della violenza di genere: ho pensato, però, che fosse più utile, per esigenze di determinatezza della fattispecie, evitare un esplicito riferimento al potere e cercare di articolare in maniera più specifica le sue “componenti”.
I tre elementi, ovviamente, dovrebbero sussistere in via alternativa, non cumulativa.
L’espressione in quanto donna, comunemente usata nelle fonti non nazionali[13] e nelle riflessioni socio-criminologiche in materia di femminicidio, risulterebbe così meglio contestualizzata, sottraendosi a una possibile censura sul piano della determinatezza (o comunque ridimensionando i dubbi su questo versante).
Vorrei esprimere, tuttavia, le mie perplessità relative alla scelta di inserire una fattispecie autonoma di reato per il (solo) delitto di femminicidio.
Come ho avuto occasione di precisare in passato[14], credo possa essere più efficace (e, per certi aspetti, più semplice) ragionare sull’introduzione di una circostanza aggravante, formulata nei termini che ho cercato di precisare e, ovviamente, coordinata con le circostanze aggravanti già esistenti per evitare illegittime duplicazioni sul piano sanzionatorio.
La scelta di una circostanza aggravante, a mio avviso, risulterebbe preferibile per un triplice ordine di motivazioni.
Si otterrebbe, anzitutto, una maggiore coerenza sistematica dell’intervento legislativo. Sebbene, infatti, il femminicidio rappresenti la forma più grave delle offese che ruotano attorno all’orbita concettuale della violenza contro le donne, il fenomeno in questione, come noto, assume proporzioni più ampie e complesse. A mio avviso sarebbe quindi più convincente “parificare” la risposta dell’omicidio “contro le donne” a quella, per esempio, della violenza sessuale o degli atti persecutori motivati della stessa causa.
In secondo luogo, si garantirebbe una maggiore “flessibilità” sul versante della commisurazione della pena.
A questo proposito vorrei precisare che, sia pure come mera ipotesi di lavoro, potrebbe anche ragionarsi nei termini di un “bilanciamento bloccato”. Quando la Corte costituzionale, con la sentenza n. 197 del 2023, ha dichiarato l’illegittimità dell’analogo meccanismo introdotto dalla legge n. 69 del 2019 in riferimento alle aggravanti della relazione previste dall’art. 577 c.p., le motivazioni della Corte valorizzavano (anche) l’eterogeneità delle condotte riconducibili all’omicidio intrafamiliare, che sarebbe stato irragionevole parificare sul piano di una così significativa compressione della discrezionalità del giudice. Questa argomentazione, forse, risulterebbe meno decisiva in presenza di un’aggravante costruita secondo le coordinate definitorie offerte dalla violenza contro le donne.
In terzo luogo, mi sembra che l’introduzione di una circostanza aggravante possa contribuire a semplificare il regime di imputazione dell’elemento in questione. Come ho precisato, ritengo preferibile una lettura oggettiva del motivo di genere. Se, tuttavia, l’elemento in questione venisse inserito come elemento costitutivo di una fattispecie autonoma di reato, l’operatività dei principi generali imporrebbe che lo stesso contribuisca a definire l’oggetto del dolo, rendendosi cioè necessaria una sua rappresentazione da parte dell’agente al fine di poter ritenere integrata la fattispecie soggettiva del delitto in questione[15]. Le circostanze aggravanti, invece, seguirebbero i criteri delineati dall’art. 59 c.p., rendendo certamente meno significative le criticità sul piano di una imputazione soggettiva.
5. Riflessioni conclusive.
L’ordinamento giuridico italiano, fino a un passato non troppo remoto, conosceva norme “speciali” per casi che sarebbero attualmente riconducibili al fenomeno della violenza di genere, sia pur allo scopo (non di inasprire, ma) di “annacquare” la risposta penale: il riferimento è, ovviamente, ai delitti honoris causa, formalmente abrogati dalla legge n. 442 del 1981. L’art. 587 c.p., che nella rubrica faceva riferimento all’omicidio e alle lesioni personali “a causa d’onore”, valorizzava poi la commissione del reato «nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale [del coniuge, della figlia o della sorella] e nello stato d’ira determinato dall’offesa all’onor suo o della famiglia». Nell’infanticidio per causa d’onore (art. 578 c.p.) e nell’abbandono di un minore per causa d’onore (art. 592 c.p.), invece, si richiedeva che il fatto fosse commesso «per salvare l’onore proprio o di un proprio congiunto». Non è un caso che si registrassero oscillazioni sul modo di intendere la causa d’onore, perennemente in bilico tra motivo, movente e scopo[16]. Così come non è un caso che in queste fattispecie si individuasse la proiezione di atteggiamenti e di stereotipi socioculturali oggetto di una tanto rapida quanto non scontata evoluzione, relativa proprio al ruolo della donna: «la posta in gioco […] è in realtà la posizione della donna che da oggetto incidentale di una tutela proiettata in una dimensione funzionale, si trasforma in soggetto personale, titolare di una libertà che, in materia sessuale, rappresenta una delle più faticose, travagliate (e contestate) conquiste del secolo»[17].
Lo “svelamento” di quegli stereotipi e il “riconoscimento” del disvalore relativo alla violenza basata su ragioni di genere sono il risultato di un processo lento, faticoso e ancora non del tutto scontato, nell’ambito del quale un ulteriore adattamento del diritto penale si presenta con un obiettivo possibile, attorno al quale aprire un dibattito che, scevro da pregiudizi ideologici, sia disposto a confrontarsi con un cambiamento socioculturale visibile e tangibile.
Il rischio da evitare, come evidenziato da più parti nell’ambito del dibattito successivo alla presentazione del disegno di legge n. 1433, è quello di incorrere in una vera e propria eterogenesi dei fini. Una norma che dovesse risultare scarsamente applicata nelle aule di giustizia produrrebbe il paradossale effetto di contribuire ad una diminuzione del numero dei femminicidi formalmente accertati. In questo momento, in effetti, il femminicidio esiste, così come esiste il più ampio fenomeno della violenza contro le donne. Oltre alle statistiche alle quali si fa costante riferimento, penso alle discussioni relative a una formazione specializzata degli operatori giuridici in riferimento a fenomeni riconducibili alla violenza contro le donne o, ancora, all’istituzione di una «Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere». Nel momento in cui si “formalizzasse” l’esistenza giuridico-penale della violenza contro le donne, le nuove norme, lungi dall’arrestarsi a una mera valenza simbolica (nel senso di norme formalmente presenti, ma sostanzialmente inapplicate), dovrebbero poter trovare una concreta applicazione nella prassi giudiziaria: sarebbe una sconfitta, culturale prima ancora che giuridica, giungere a un formale “azzeramento” del contatore dei femminicidi solo perché, viste le difficoltà di applicare la nuova fattispecie, l’uccisione di una donna per ragioni di genere resterebbe attratta nella generale fattispecie di omicidio volontario.
Su un piano generale, ad ogni modo, credo che questo disegno di legge offra l’occasione per una più accurata riflessione su temi che troppo spesso sono relegati al margine del dibattito scientifico. L’obiettivo dovrebbe essere quello di arricchire e perfezionare, con un tassello strategico, il mosaico di una tutela che, certamente, non può e non deve esaurirsi nel diritto penale, ma alla costruzione del quale, credo, il diritto penale non può e non deve sottrarsi.
[1] Sulla utilità di una fattispecie di femminicidio, ai fini un rafforzamento della tutela penale a fronte di forme di violenza che colpiscono le donne in modo sproporzionato, C. Pecorella, Perchè può essere utile una fattispecie di femminicidio, in Sist. pen., 2 giugno 2025.
[2] R. Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in M. Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia – Trattato teorico-pratico di diritto penale, Torino, Giappichelli, 2022, 160 ss.
[3] Così, pressoché testualmente, M. Pérez Manzano, Algunas claves del tratamiento penal de la violencia de género: acción y reacción, in RJUAM, 2016, 20.
[4] Art. 3 Convenzione di Istanbul, lettera e): «con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini».
[5] Amplius, per tutti, P. Di Nicola Travaglini, Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, in Sist. pen., 5/2025, 5 ss.
[6] ATS, 31 luglio 2013, VI razonamiento jurídico.
[7] STS, n. 856/2014, 26 dicembre 2014. Nella dottrina italiana, A.M. Maugeri, Le “aggravanti” nei confronti degli uomini autori di “violenza di genere” nella disciplina spagnola: possibile strategia politico criminale o strumento di una politica della “sicurezza” discriminatoria?, in Jura Gentium, 2016, § 4, discutendo favorevolmente l’introduzione di “aggravanti di genere”, precisa che «non si tratterebbe di punire più gravemente la violenza di genere in considerazione di uno specifico movente soggettivo dell’autore, ma piuttosto si tratterebbe di tenere conto non solo dell’offesa all’incolumità fisica o all’onore o alla libertà personale, o alla libertà sessuale, realizzata attraverso le lesioni, i maltrattamenti, le minacce, la violenza sessuale, ma l’ulteriore disvalore insito nella violenza di genere come forma di violenza strutturale in quanto espressione di discriminazione, in quanto meccanismo sociale per mantenere la donna nella posizione subordinata che occupa nella società patriarcale». Cfr. L. Goisis, Genere e diritto penale. Il crimine d’odio misogino, in Quest. giust., 2/2022, pp. 44-45, 62, favorevole a un’estensione dell’art. 604-ter c.p. al fine di renderlo riferibile anche ai reati di odio misogino/di genere, ritiene che il “movente di genere” dovrebbe ritenersi accertato quando «le condotte contengano effettivamente i segni di una finalità di discriminazione e di odio – di genere – allorché l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto riguardo anche al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sul genere e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato all’esclusione di condizioni di parità».
[8] D.l. n. 93 del 2013, convertito dalla l. n. 119 del 2013: «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere»; l. n. 69 del 2019: «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere»; l. n. 68 del 2023: «Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica».
[9] Tra le tante critiche avanzate nei confronti della formulazione proposta dal disegno di legge n. 1433, specie per il potenziale deficit di determinatezza, valga, per tutti, il rinvio a Fausto Giunta, il quale nell’intervista pubblicata su Il Riformista, 17 marzo 2025, ritiene che l’attuale formulazione costituisca un «capolavoro di contorsione concettuale e approssimazione descrittiva, ispirata al linguaggio massmediatico».
[10] V. sul punto F. Menditto, Riflessioni sul delitto di femminicidio, in Sist. pen., 2 aprile 2025, § 4.
[11] Da ultimo, V. Mongillo, Diritto penale e ingegneria simbolica: i limiti della proposta di un nuovo delitto di femminicidio e le esigenze di tutela effettiva, in Sist. pen., 12 giugno 2025.
[12] Cfr. Unione Camere Penali Italiane, Osservazioni al ddl n. 1433 intitolato “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”, 4: «Secondo il DDL in esame, ricorre la più grave fattispecie del “femminicidio”, in due casi, quando il fatto di omicidio è commesso come “atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna” o quando il fatto è commesso “per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. Si tratta a ben vedere, di due distinte ipotesi: la prima, quella della “discriminazione” da intendersi sotto un profilo oggettivo della condotta, la seconda, quella della “repressione”, qualificata invece sotto un profilo soggettivo. La seconda parte, sembra infatti individuare - a differenza della prima - l’elemento distintivo del dolo specifico».
[13] V. per esempio art. 3 Convenzione di Istanbul, lettera d): «l’espressione “violenza contro le donne basata sul genere” designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato», art. 2 direttiva UE 1385/2024, lettera a): «“violenza contro le donne”»: qualsiasi atto di violenza di genere perpetrata nei confronti di donne, ragazze o bambine solo perché donne, ragazze o bambine, o che colpisce le donne, le ragazze o le bambine in modo sproporzionato, che provochi o possa provocare danni o sofferenza fisica, sessuale, psicologica o economica, incluse le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, nella sfera pubblica come nella vita privata».
[14] A. Massaro, Il malinteso della donna come vittima vulnerabile: il diritto penale di fronte ai gender-based crimes, in GenIus, 3 gennaio 2025.
[15] D. Pulitanò, Femminicidio ed ergastolo, in Giurisprudenza Penale Web, 3/2025, 3: «prendere sul serio il problema del dolo, arricchito dalla consapevolezza e volontà di discriminare e/o reprimere, potrebbe portare a un’eterogenesi dei fini di una riforma pensata e pubblicizzata in ottica giustizialista».
[16] Amplius, A. Visconti, Reputazione, dignità, onore Confini penalistici e prospettive politico-criminali, Giappichelli, 2018, spec. 224 (nota 231) e 227.
[17] T. Padovani, I delitti nelle relazioni private, in Storia d’Italia Einaudi. Annali: la criminalità, Vol. XII, Einaudi, 1997,