1. Qualcuno direbbe che è fortuna ma in realtà quando si fa ricerca seriamente la sorte c’entra poco. La monografia Punire la parola pericolosa? Pubblica istigazione, Discorso d’odio
E libertà di espressione nell’era di internet, appena pubblicata da Alessandra Galluccio ha un primo indiscutibile merito: è on time. Nessuno di noi poteva prevedere, infatti, che saremmo stati chiamati a commentare anche con strumenti di analisi di tipo penalistico la politica americana. Quel che è stato vividamente definito il primo tentativo di “auto-golpe” della storia a opera di Trump il 6 gennaio scorso, è andato in scena appunto con “parole pericolose” che hanno dato fuoco alle polveri grazie al fatto che ormai viviamo immersi “nell’era di internet”. Ma il libro è di strettissima attualità anche su un altro versante, stavolta, domestico, visto che il Senato italiano dovrà a breve esaminare la legge anti-omofobia approvata alla camera e che tante discussioni ha suscitato, anche sotto il profilo della eventuale compressione della libertà di espressione. Anzi, a dirla tutta, questo libro parla del futuro con cui dovranno fare i conti le democrazie liberali che si ispirano al costituzionalismo pluralista, messe sotto stress nel frullatore della comunicazione social globale.
Ma può bastare la sua attualità per renderlo attraente? No. Questo libro va studiato, infatti, perché allo stato costituisce la più aggiornata e approfondita messa a punto del risalente e complesso dibattito sui limiti penalistici al discorso pubblico. Corredata anche da proposte di politica penale non poco coraggiose, ma avanzate con la giusta misura, cioè con quel senso del limite che dovrebbe assistere l’attività di tutti gli studiosi, pure quelli più esperti. E poi, sia consentito dirlo con franchezza, è scritto bene! Si legge senza affanni e a tratti risulta perfino avvincente. Il che è tutt’altro che scontato nella letteratura “dottrinale”: a volte noi professori scriviamo in modo talmente involuto da far concorrenza alla peggiore giurisprudenza. Ma la chiarezza di espressione è sintomo di nitore concettuale: non di rado, nelle nostre valutazioni, questo fattore lo trascuriamo. Proviamo ora a indicare solo alcuni dei molteplici spunti di riflessione che si possono trarre dal libro, lasciando al lettore la scoperta del resto.
2. Anzitutto il lavoro contiene un’analisi critica della giurisprudenza americana sul Free Speech. Pur molto estesa (prende le mosse addirittura dalla fase precedente alla entrata in campo della Suprema Corte), essa procede in modo tale da facilitarne la utilissima comparazione con il sistema italiano. Capita, infatti, anche in dotte disquisizioni sul tema, di imbattersi in citazioni del diritto statunitense che fanno intendere il mondo giuridico americano come un tutt’uno omogeneo o comunque facilmente decifrabile secondo un lineare dispiegarsi di tratti evolutivi nel tempo. La studiosa milanese, invece, dimostra che le cose non stanno proprio così. Piuttosto, in quel mondo il confronto giusfilosofico è al suo interno molto diversificato e lo sono altrettanto i percorsi giurisprudenziali, più correttamente raffigurabili come un andamento a zig zag che come una strada retta senza interruzioni o scorciatoie. Tanto da far registrare all’autrice “un’andamento ondivago della tutela accordata alla libera espressione, quando i contro-interessi presi in considerazione sono quelli dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale” (pag. 307).
Beninteso, non si tratta di disconoscere il primato americano nello sforzo di assicurare il massimo di protezione al Free Speech. Semmai di smitizzarlo, di rivedere criticamente la cosiddetta “eccezionalità americana” anche alla luce di quel che è accaduto negli ultimi tempi. E con questo spirito l’autrice osserva che “le affermazioni solenni” di adesione ai valori sottostanti al I Emendamento “non impediscono, comunque, che la libertà di espressione venga indebitamente compressa tutte le volte in cui i propalatori appartengano alla classe dei ‘nemici’; tutte le volte cioè in cui anche la semplice espressione sia percepita come una minaccia radicale allo stile di vita e al modo di pensare maggioritario; obliterando la distinzione – sufficientemente apprezzabile, forse, solo dal punto di vista costituzionale – fra un’idea rivoluzionaria e un’idea in grado, in concreto e in un lasso di tempo ragionevolmente breve, di provocare la rivoluzione”. Insomma, al di là degli stereotipi, anche gli americani non vanno troppo per il sottile con l’incriminazione in concreto di forme di espressione della libertà di opinione quando si sentono minacciati dal “nemico”, quando non vivono “in tempo di pace” (pag. 320). Da questo punto di vista, la mistica del “clear and present danger” presenta una natura a fisarmonica: più o meno protettiva della libertà di parola a seconda del momento storico-politico. Ne viene fuori un’idea più matura – diremmo adulta – del sistema americano nella sua effettiva storicità, che non offre alcuna sponda a chi in Italia, ad esempio, si attarda ancora a guardare con superficialità al modello americano per costruire a suo piacimento elenchi immutabili di ciò che è sacrificabile della libertà di parola sull’altare delle esigenze penalistiche. E anche un insegnamento che forse nel mondo penalistico viene da troppi trascurato, ossia che le dinamiche dei “bilanciamenti”, il senso e il peso dei principi costituzionali e dei contro-interessi che di volta in volta giudici e legislatori intendono tutelare, è materia che appartiene certamente alla scienza giuridica, e tuttavia non conoscibile fino in fondo se non attraverso le lenti della storia politica e sociale dei contesti in cui vengono in gioco. Con una battuta: un penalista che vuole capirci qualcosa al riguardo non può limitarsi a prendere le misure alle norme e a studiare qualche massima giurisprudenziale, deve andare oltre, affacciarsi alla storia delle idee che fa da sfondo alle scelte di legislatori e giudici.
3. Ma il filo rosso lungo cui corre l’intera analisi riguarda i possibili modelli di bilanciamento, legislativo e giudiziale, tra i beni antagonisti messi in tensione dalle eterogenee fattispecie – “classiche” o di più recente emersione (dalla tradizionale istigazione a delinquere ai crimini d’odio, per intenderci) – che incriminano le parole pericolose. E uno dei modelli di bilanciamento tra libertà di espressione e sicurezza-dignità-uguaglianza su cui l’autrice concentra le sue riflessioni critiche è quello che punta sul pericolo concreto di comportamenti violenti, discriminatori o altrimenti più genericamente indesiderati. Una tematica che Galluccio indaga sia nelle declinazioni approfondite dalla cultura giudiziaria nordamericana, da sempre alle prese coi “nazisti dell’Illinois”, per citare i Blues Brothers, sia nelle sue versioni nostrane. E così le esternazioni razziste, ad esempio, sarebbero punibili ‘a patto che’ il giudice riesca a fornire un’idonea dimostrazione processuale del rischio contingente di causare danni reali concretamente misurabili in contesti situazionali più o meno circoscrivibili. A tal riguardo l’autrice avverte che, trattandosi di fattispecie “povere di danni ma ricche di valori” (pag. 353), il pericolo concreto non è così “innocente” come si vorrebbe far credere. Avendo a che fare, infatti, con oggetti di tutela a carattere “normativo-ideale”, cioè con beni indeterminati e privi di spessore empirico materialmente ledibile, perfino metafisico-trascendenti, la verifica in questione risulta inevitabilmente infiltrata da componenti valutative che, a loro volta, risentono di preliminari prese di posizione giudiziale sul modo di concepire i beni in conflitto e sul peso specifico che si decide di assegnargli.
Ecco perché, una volta preso atto delle disfunzioni pratico-applicative di un meccanismo di accertamento inevitabilmente condizionato da consistenti apporti etico-normativi dell’interprete, tra gli scenari additati in prospettiva di riforma, l’autrice mostra di accordare (ottimisticamente?) una fiducia razionale nella possibilità di una “tipizzazione rigorosa e frammentaria della ‘parola pericolosa’ penalmente rilevante”, e ciò attraverso una più piena e diretta responsabilizzazione del legislatore parlamentare tramite la tecnica del pericolo astratto. Una scommessa che gioca le sue carte sulla capacità del legislatore futuro di riuscire nell’impresa di tipizzare in modo razionale e non arbitrario, e nel pieno rispetto del principio di determinatezza e di necessaria lesività, giudizi predittivi di normale pericolosità dotati di intrinseca plausibilità empirico-criminologica. Riusciranno i nostri eroi?
Comunque sia, il libro spazza via – finalmente ! – anche un'altra illusione infantile coltivata ostinatamente da una parte minoritaria degli studi penalistici del settore. Quella cioè di avanzare proposte classificatorie dei reati che impegnano in vario modo il principio della libertà di espressione in modo di salvarli o censurarli a seconda se, in ragione della tecnica di incriminazione adottata, compromettano o meno la doverosa astinenza epistemica dello Stato su contenuti delle parole. L’autrice, infatti, con nettezza dimostra che, sempre e comunque, quando si limita penalisticamente una forma di espressione della libertà di opinione viene compromessa la neutralità statale sui contenuti del pensiero: il problema, semmai, è discutere apertamente e democraticamente in che misura tale compromissione si può considerare “politicamente” giustificata con argomentazioni di spessore costituzionalistico.
4. In chiusura vale la pena muovere qualche critica al libro, sennò gli apprezzamenti potrebbero apparire poco autentici e lo sono, invece. Ne scegliamo una, in particolare. La monografia è troppo voluminosa. Si badi, non v’è nulla di superfluo, e misurarsi con un tema di parte generale così complesso, ricchissimo di rimandi filosofico-politici e costituzionalistici non è facile. In realtà la critica è a noi stessi, cioè alle generazioni di studiosi che precedono la giovane studiosa. Negli ultimi lustri abbiamo infatti avallato l’idea che la qualità di una monografia scientifica nel nostro settore si misurasse anche con il numero delle pagine. Dovremmo cambiare rotta, seguendo la massima del grande Dietrich Bonhoeffer distillata nel capolavoro Resistenza e resa : “le qualità si integrano, le quantità si disputano lo spazio”. Quindi in verità non si tratta di una critica specifica a questo lavoro, ma ai suoi maestri e a tutti noi.
Al libro di Alessandra Galluccio sarà dedicato il quarto incontro del ciclo ConTesti, che si svolgerà online, venerdì 12 marzo, dalle 15 alle 17: ci si iscrive qui.