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05 Febbraio 2024


Prefazione a F. Consulich, Manuale di diritto penale del lavoro, Giappichelli, 2024


Pubblichiamo di seguito, con l’autorizzazione dell’Editore, la Prefazione, a firma del dott. Luca Poniz, al volume F. Consulich, Manuale di diritto penale del lavoro, Giappichelli, 2024.

 

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1. Appartengo ad una generazione di magistrati formatasi in un’epoca quasi pionieristica del diritto penale del lavoro; erano gli anni di vigenza della (sola) normazione speciale introdotta dalla legislazione prevenzionistica degli anni Cinquanta (il fondamentale d.p.r. n. 547 del 1955, il d.p.r. n. 164 del 1956 e i vari Decreti di “dettaglio” che integravano, settore per settore, le norme prevenzionali codificate in via generale dal primo), norme che avrebbero costituito uno strumento formidabile di intervento e tutela in un settore di essenziale importanza nel tessuto sociale ed economico del Paese: giustamente definite “primo organico corpus di norme prevenzionali che l’Italia abbia mai avuto” (“Prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro”, di Culotta, Di Lecce, Costagliola), costituivano una sorta di “ordinamento speciale”, concepito in funzione di una tutela oggettiva verso rischi sul lavoro “tipizzati” dal legislatore in modo tanto capillare e dettagliato quanto statico, naturalmente coerente con un’idea del lavoro, e della sua organizzazione, propria di un momento politico e sociale che oggi appare ancora più lontano di quanto non sia. Questo corpus normativo ha operato per circa un quarantennio, anche se la sua applicazione ha risentito di non poche incertezze, e il suo impatto sulla giurisdizione penale ha dovuto attendere una progressiva presa di consapevolezza, da parte della Magistratura, della straordinaria importanza di una prevenzione infortunistica capace di fungere, se correttamente applicata, da importante strumento di tutela anticipata di beni essenziali – quali la vita e la salute dei lavoratori – e da parametro di valutazione di quella responsabilità colposa che proprio nelle indagini e nei processi per infortuni sul lavoro e malattie professionali ha avuto ed ha il suo banco di prova più complesso e problematico.

Ed è stata proprio la giurisprudenza – le Preture penali (alcune organizzate in apposite sezioni specializzate, come la mitica V sezione della Pretura milanese), la Corte di Cassazione – protagonista di una stagione interpretativa che avrebbe progressivamente dato attuazione, e senso, ad una legislazione densa di precetti tecnici ma anche di problemi interpretativi, che investivano – solo per indicarne esemplificativamente alcuni – l’ambito applicativo delle norme, l’individuazione dei luoghi di lavoro, l’identificazione dei soggetti obbligati, la gerarchia tra gli obblighi di ciascuno di essi, il rapporto tra gli obbligati, con i conseguenti riflessi sul versante della colpa, solo apparentemente definita e tipizzata nelle clausole generali dell’art. 43 c.p. e nelle corrispondenti fattispecie di parte speciale, dove la normativa prevenzionale le integra o per costituirne circostanze aggravanti, o elementi integrativi delle stesse fattispecie. Quella legislazione non contemplava alcuna definizione dei soggetti, degli ambiti applicativi, del contenuto degli obblighi, e dunque apriva alla prassi – alle indagini, prima, ai processi, poi – formidabili problemi interpretativi, di cui appare utile qui indicare i più rilevanti: la nozione di luogo di lavoro, e dunque di correlata individuazione del campo di applicazione delle norme, sempre in bilico tra letture estensive e analogiche; l’individuazione dei soggetti “obbligati”, indicati dal legislatore nella triade del datore di lavoro-dirigente-preposto; l’identificazione del lavoratore, tra letture formali e sostanziali del rapporto di lavoro; il ruolo, e l’eventuale responsabilità del committente, in un’epoca caratterizzata dalla prevalenza del modello di lavoro subordinato. Si deve a quella stagione una formidabile elaborazione giurisprudenziale, che avrebbe consegnato, a quella successiva – figlia degli obblighi comunitari, e delle fondamentali direttive degli anni Novanta – in primis un metodo di interpretazione ancorato all’idea – progressivamente affinata – della rilevanza delle situazioni di fatto, da un lato rifiutando approcci formalistici e dall’altro dando ingresso ad istituti sconosciuti al legislatore, ma individuati, nelle pieghe del sistema, come coerenti proprio con le esigenze fattuali e organizzative del complesso mondo del lavoro: ci si riferisce, così, alla figura della delega di funzioni, perno attorno al quale hanno ruotato indagini e processi, con il problema preliminare della sua stessa ammissibilità, e poi quello della portata, dei presupposti, dei limiti, per l’evidente idoneità dell’istituto (ignoto però alla Legge, almeno fino al 1994) a consentire trasferimenti di responsabilità da un obbligato ad un altro, con evidenti potenziali problemi di tenuta dello stesso principio della personalità della responsabilità penale.

 

2. Se questi sono stati, e – come vedremo, per molte altre ragioni, ancora sono – (alcuni dei) problemi che l’ordinamento pone, si comprende bene perché l’Autore muova, quasi all’esordio di questo prezioso lavoro, dall’affermare che “l’imputazione colposa è sempre in bilico sul baratro della violazione della riserva di legge e del principio di tassatività”, riassumendo, con formula felice, la portata dei problemi propri del reato colposo che, nella combinazione con le peculiarità dell’ordinamento prevenzionale, continua a porre una serie di questioni interpretative di straordinaria complessità, che investono la stessa tecnica normativa di codificazione delle regole – ad iniziare dal problema dell’“intreccio tra fonti normative pubbliche e private”, in ragione della “autonormazione privata” che, nel diritto penale del lavoro, ha assunto innegabile centralità (cui viene dedicato un denso capitolo, il primo, non a caso intitolato “la legalità nel diritto penale del lavoro”, indicativo della formidabile portata, anche teorica, delle fonti del diritto penale del lavoro) – per poi riguardare i soggetti, la loro stessa individuazione come destinatari astratti di obblighi prevenzionali, la relazione tra essi e l’organizzazione, e dunque poi il tema della cooperazione colposa, fino a quello – notoriamente molto esplorato tra gli studiosi – della nuova figura di responsabilità dell’ente, da studiare in relazione al suo rapporto (non sempre ben compreso) con quella classica del soggetto.

Il primo merito del volume appare proprio quello di offrire una diversa prospettiva di analisi del diritto penale del lavoro: una riflessione sistematica non sulle norme prevenzionali (dagli anni Novanta in poi, da quando, cioè, entra in vigore il d.lgs. n. 626 del 1994, e fino all’emanazione del Testo Unico n. 81 del 2008, non si contano i testi di analisi e commento delle nuove norme...), ma sul sistema penale che il “diritto della prevenzione infortunistica” condiziona, ridefinendone connotati di fondo (la stessa legalità formale, come si è detto), interferendo con le clausole “definitorie” (se la colpa ha un connotato normativo, allora nel diritto penale del lavoro esso assume una portata rilevante, come sembra imporre di considerare la significativa “giuridificazione”, da parte del d.lgs. n. 81 del 2008, proprio degli “obblighi generali” di cui all’art. 15), ampliandone la portata applicativa (per via della progressiva estensione dei confini della prevenzione, ora ampliati fino a ricomprendervi ambiti prima non contemplati, come nel caso della committenza, dei lavori esternalizzati…).

La riflessione, insomma, è necessariamente articolata, e la prospettiva di analisi non può che muovere dai principi di fondo, se è vero, come dice benissimo l’Autore, che “il diritto penale del lavoro è a buon diritto un sottosistema giuridico complesso che prende le mosse dalla trama codicistica (si usano ancora gli istituti del reato omissivo improprio, o della cooperazione colposa, nonché le fattispecie di omicidio, lesioni o disastro colposo, per andare alla parte speciale), ma impiantandola su una piattaforma operativa nuova, il rischio, con i suoi strumenti di valutazione e le peculiari strategie di tutela. Il d. lgs. 81/2008 delinea una strategia regolativa di tipo partecipativo, che implica il coinvolgimento dei garanti della sicurezza e dei collaboratori tecnici di questi ultimi per assicurare una efficiente valutazione e gestione del rischio lavorativo”.

Questa piattaforma operativa nuova – rappresentata dal “rischio”, governato dal legislatore prevenzionale degli anni Cinquanta con tecnica di valutazione presuntiva, ma solo evocato sullo sfondo dell’obiettivo prevenzionale, ed invece divenuto protagonista centrale della filosofia prevenzionale inaugurata con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 626 del 1994 – costituisce un indiscutibile elemento di centralità di “principio”, prima ancora che un (conseguente e) rilevante problema applicativo: e infatti l’Autore mette al centro della riflessione il problema, e lo collega alla peculiare complessità del suo rapporto con le stesse categorie generali della responsabilità colposa, quando afferma – con parole chiare e lucidamente indicative del percorso che seguirà la riflessione – che “allo scopo di contemperare l’esigenza di flessibilità del rimprovero con quello della prevedibilità dello stesso, nell’ambito della disciplina sulla sicurezza del lavoro si è definito in via legislativa un meccanismo procedurale di valutazione del rischio”. I riflessi sono molteplici, e tutti analizzati in profondità; qui merita evidenziare la notazione, per cui “si assiste ad una più frequente coincidenza tra produttore di regole preventive e destinatario di doveri preventivi (si pensi alle procedure contenute in un Documento di valutazione dei rischi ai sensi del d. lgs. 81/2008). Ciò tendenzialmente annulla, almeno rispetto ai garanti della sicurezza aziendale, il rischio di non conoscenza e inesigibilità soggettiva dell’adeguamento alla norma cautelare. Se il primo problema è del tutto azzerato, il secondo viene grandemente limitato a sopravvenienze davvero imprevedibili. Ne deriva che la rimproverabilità dell’agente, in caso di violazione delle regole che egli stesso si è autoimposto, in questi casi potrebbe essere davvero minima”. Così ben identificata la portata quasi rivoluzionaria del “rischio” e del suo “governo”, un’articolata riflessione è dedicata alle sue implicazioni teoriche (“Il fattore tecnologico: riflessi sulla formulazione della norma penale”), e al loro impatto sulle categorie generali della responsabilità; ma proprio perché l’ambizione dell’analisi è quella di offrire anche soluzioni – e questo è il secondo merito del volume, non a caso denso di riferimenti casistici, vuoi reali, vuoi ipotetici, ad offrire un banco di prova della plausibilità delle tesi sostenute – si offre una rigorosa lettura della funzione operativa del “governo del rischio”, in tutte le declinazioni in cui la normativa ne prevede – innovativamente dal 1994 in poi – la centralità: dal Documento di valutazione dei rischi a quello di valutazione dei rischi interferenziali, strumento di rilevante complessità (e per questo di non poca problematicità applicativa) nel delicato settore del rapporto tra committente ed appaltatore, anch’esso oggetto di innovativa disciplina da parte del legislatore del 1994, e del 2008 poi.

 

3. Come noto, pur a fronte di una nuova codificazione delle regole prevenzionali – oggetto dell’intervento del 2008 con l’adozione del Testo Unico (per vero ampiamente riproduttivo delle norme introdotte con i decreti n. 626 del 1994 e n. 494 del 1996, e chiaramente debitore della relativa tecnica normativa) – e dell’apprezzabile tentativo di soluzione dei tanti e rilevanti problemi interpretativi che si erano registrati nella vigenza delle norme precedenti, persistono non pochi problemi che le clausole definitorie del Testo Unico vorrebbero risolvere, non sempre riuscendovi: del resto, alcune definizioni normative appaiono cristallizzare risalenti approdi giurisprudenziali, con (quasi) esplicito richiamo di massime giurisprudenziali, come nel caso – assai rilevante – della delega di funzioni, per la prima volta nominata dal legislatore nel 1994 (sia pure senza definizione, ed al solo fine di identificare obblighi non delegabili) ed invece articolatamente disciplinata dal legislatore del 2008 (ma con la singolare dimenticanza di una definizione…), e del riconoscimento normativo del fondamentale istituto delle “funzioni di fatto”, con l’art. 299 a disciplinare “l’esercizio di fatto di poteri direttivi”, norma ricognitiva, con tecnica e contenuto discutibili, di princìpi elaborati ed affermati in ormai consolidati orientamenti.

Se in tanto gli obblighi hanno un senso, ed una funzione, in quanto vi siano dei soggetti che ne sono portatori, e se la corretta delineazione della relazione tra obblighi e soggetti, e tra soggetti e soggetti, ha la complessità e talora problematicità che notoriamente si registra proprio nei processi per infortuni e malattie professionali, appare felicissima la scelta di dedicare ai “soggetti del diritto penale del lavoro” un’articolata riflessione, che sintetizza bene “il problema” (appunto) “dell’individuazione dei soggetti responsabili nell’organizzazione di impresa”, muovendo da una condivisibile individuazione di un (molto interessante, e assai utile per noi operatori “pratici”) criterio metodologico, per così dire, che consente di “allocare correttamente, soddisfacendo il vincolo di valore dell’art. 27 Cost. comma 1, la responsabilità per un infortunio sul lavoro”, individuato – in perfetta coerenza logica con gli assunti di partenza della riflessione – nel “rischio”, “non già per trovare sic et simpliciter un garante (il cd. gestore del rischio, secondo la formulazione giurisprudenziale, bensì per individuare 1) in prima battuta, quale sia il rischio che si è concretizzato nell’evento; 2) in seconda battuta, quale norma cautelare doveva contenerlo; 3) infine, chi doveva rispettare la norma cautelare rilevante che può essere – ma non necessariamente – un garante”. Segue una capillare e completa disamina di tali potenziali soggetti, divisi tra garanti originari e garanti derivati (con utilissime riflessioni sull’istituto della delega, invero non sempre ben compreso né da chi pretende di esercitarlo, né da chi, a valle, ha poi il compito di coglierne senso e funzioni proprie…), e con la netta, e condivisibile, assegnazione del lavoratore alla categoria dei “non garanti”, pur con la correlata precisazione della titolarità di obblighi di protezione “propria e altrui” assegnati innovativamente dal Testo Unico del 2008, in coerenza con “il modello partecipativo della prevenzione invalso nella attuale legislazione lavoristica”.

A fronte della complessità, e rilevante problematicità, dell’individuazione dei soggetti responsabili (titolari e/o contitolari degli obblighi, e rimproverabili per le loro inosservanze, in tutte le varie forme in cui le stesse possono manifestarsi), non poteva mancare la parte dedicata alla cooperazione colposa, giustamente definita come “la forma elettiva di manifestazione del reato nel diritto penale del lavoro”, in ragione della struttura normalmente plurisoggettiva delle contestazioni nell’ambito dei processi per infortuni sul lavoro e malattie professionali: qui l’analisi è particolarmente profonda e articolata, adattando alla speciale complessità della materia del diritto penale del lavoro le robuste riflessioni condotte dall’Autore nella recente monografia. Se, infatti, il problema è che “la partecipazione colposa non è un doppione del tipo colposo di parte speciale”, e che “è chiaro invece che qualsiasi studio sulla cooperazione colposa deve ricercare vincoli di sistema all’espansione del rimprovero in ambito pluripersonale, proprio attraverso l’identificazione dei requisiti strutturali peculiari della partecipazione, diversi da quelli del fatto monosoggettivo”, la soluzione di questo problema appare tutt’altro che agevole sul piano teorico – e la ricostruzione delle diverse tesi in campo dà ampiamente conto di un dibattito secolare – e presenta, poi, una speciale difficoltà se calato nella complessa dinamica della ricostruzione delle responsabilità nei luoghi di lavoro: ecco perché la tesi di una dimensione cautelare del concorso colposo – presentata come alternativa alle tesi interpretative storicamente in campo – sembra offrire una soluzione sistematicamente rigorosa alla tendenza espansiva dell’art. 113 c.p. (“trasformato oggi in un moltiplicatore di imputazioni, consentendo alla responsabilità penale di risalire dalla posizione dell’autore materiale del fatto colposo a coloro che, nell’ambito della procedura, lo abbiano indotto, per fatti concludenti e con ordini formali impartiti in forza di una superiorità nell’organigramma della struttura di riferimento, a compiere l’imprudenza”), suggerendo all’interprete di ricostruire il rapporto tra cooperanti composto da 1) un nesso oggettivo di rischio non consentito tra partecipi ad un evento, 2) un nesso normativo di carattere relazionale tra i concorrenti, idea che appare perfettamente coerente con quella di fondo dell’intera opera – la centralità del problema del rischio e del suo “governo” – che nella tesi in esame si manifesterebbe appunto nel rimprovero – a soggetti che abbiano tenuto comportamenti causalmente inidonei in sé – di condotte rilevanti nella logica, appunto, dell’aumento del rischio.

 

4. Per completare il commento delle parti che appaiono salienti, deve essere sottolineata la profonda riflessione condotta nei capitoli VI e VII, in tema di “organizzazioni complesse” e “responsabilità da reato delle persone giuridiche nei contesti lavorativi”, temi naturalmente distinti ma con evidenti punti di “contatto”, a cominciare dalla nozione stessa di organizzazione, locuzione versatile, e densa di significati, ed implicazioni, proprio sul versante del diritto penale del lavoro e della colpa.

Riconosciuta all’organizzazione la (scomoda) natura di fattore decisivo nella genesi del reato colposo, l’Autore ne studia fisiologia e patologia, per così dire, e si interroga sul significato del criterio della “competenza per il rischio” – notoriamente utilizzato dalla giurisprudenza per l’individuazione del “responsabile” negli ambiti plurisoggettivi – o, per meglio dire, sulla sua stessa ammissibilità in ragione della sua censurata idoneità a creare, come “effetto collaterale”, “ossimoriche posizioni di garanzia fattuali”, a ben vedere in netta opposizione alla tipizzazione delle posizioni di garanzia, invocata da chi individua proprio su questo terreno le tensioni più forti con il principio di tipicità, e, a ben vedere, di legalità penale. La riflessione che ne consegue investe la tecnica di contestazione delle responsabilità, ed infatti si accompagna ad una disamina fortemente critica di taluni arresti giurisprudenziali, al contempo suggerendo come “in luogo del gestore del rischio, occorre valorizzare un diverso ruolo, che domina la scena con azioni positive e che organizza la specifica operazione infausta, contaminata dalla produzione dell’evento avverso”. È evidente che il problema non sia quello meramente definitorio, come se bastasse sostituire una locuzione (gestore del rischio), con un’altra (organizzatore): il tema vero è quello della riconoscibilità ex ante della “realtà dei processi decisionali sia nel contesto di un’organizzazione complessa che di un ben più semplice gruppo di persone che occasionalmente cooperino in una medesima attività”, ove la rilevanza del concetto di organizzazione si coglie nella sua proposta definizione, “modalità di divisione di compiti”, con tutte le variabili fattuali proprie di ogni ambito lavorativo.

La riflessione si completa con una rigorosa, e coerente, ricostruzione delle collegate forme di responsabilità generate dalla tipizzazione normativa di obblighi prevenzionali precedentemente inediti, quali quelli derivanti dal rischio interferenziale, che dal 1994 in poi viene fatto gravare sul committente, e che nella complessa regolamentazione dedicata ai cantieri, prevede figure di “obbligati” che aggiungono funzioni di governo del rischio delineate a misura della sua peculiarità: con tutte le incertezze applicative consequenziali, che risentono a loro volta di una non sempre apprezzabile linearità definitoria.

 

5. Alla responsabilità da reato delle persone giuridiche vengono dedicate alcune riflessioni particolarmente importanti sulla natura di tale tipo di responsabilità, onde meglio definirne l’esatto rapporto con quella presupposta, ossia la responsabilità “da reato” del soggetto o dei soggetti che operano nell’ente o, meglio, “nell’interesse e a vantaggio” dell’ente. È proprio l’operare su due piani diversi delle due “forme di responsabilità” (quella dell’ente riguarda “rischi normativi, di commissione di reati, e opera per classi di ipotesi astratte”), che consente di cogliere le fondamentali differenze sul piano dell’organizzazione e dunque l’intima natura di quei “modelli di organizzazione”, che peraltro beneficiano proprio nell’ambito delle norme prevenzionali di una tipizzazione dei contenuti in ragione del centrale art. 30 del d.lgs. n. 81 del 2008. Qui appare importante evidenziare una lucida e completa riflessione sui punti di contatto e soprattutto di distinzione tra la nozione di organizzazione, e relativa “colpa” che sembra avvicinare, almeno terminologicamente, i due piani della responsabilità: le precisazioni, sostanziali prima ancora che terminologiche, appaiono fondamentali, anche a fronte di non rari fraintendimenti. Distinta quella dell’organizzatore da quella dell’organizzazione, e individuata l’essenza di questa nella “omessa neutralizzazione di rischi normativi”, ecco che appare logicamente delineato il percorso di individuazione logico-giuridico delle due (macroscopicamente diverse) forme di responsabilità, anche al fine di evitare automatismi di responsabilità e, in buona sostanza, il fallimento stesso del modello teorico delineato.

 

6. Questo volume ha il grande pregio di guidare il lettore attraverso la complessità di un sistema, che ricostruisce con completezza, rigore e puntualità, coniugando i profili più impegnativi della riflessione teorica con quelli più pragmatici, ma non per questo più agevoli, delle ricadute di tale riflessione. E dunque possiede una qualità importante e rara: muove dai principi e sui principi si interroga, ma senza astrazioni e senza dogmatismi barocchi, fornendo all’interprete possibili soluzioni ai molteplici problemi che il sistema pone. E i problemi investono, e condizionano – come è noto – anche fasi cruciali del processo penale, ad iniziare dalle indagini, dove i Magistrati del Pubblico Ministero affrontano – non di rado con l’indifferibile urgenza del compimento di atti irripetibili, con le correlate garanzie per coloro nei cui confronti gli esiti saranno opponibili – la complessità della valutazione delle (potenziali) responsabilità in una fase “primitiva” del procedimento. In questi momenti l’acquisizione di tutti gli elementi di fatto che consentono di ricostruire la relazione tra soggetti, ruoli, obblighi e dunque potenziali responsabilità per il fatto è, per definizione, sommaria. Un’indagine nell’indagine, verrebbe da dire, che i profili sostanziali – se rettamente intesi – dovrebbero guidare in modo rigorosamente selettivo, onde rifuggire da ipertrofiche costruzioni quando non da oggettivizzazioni di responsabilità. Così, invece, spesso non è.

Le contingenti urgenze procedimentali rischiano infatti di condurre le investigazioni verso allargamenti della platea dei “responsabili in quanto garanti”, da ultimo anche in ragione della nuova disciplina dell’iscrizione nel registro degli indagati e della sua prevista “retrodatazione”, con i conseguenti effetti processuali. Di qui ad esempio le cd. “iscrizioni difensive” (che pare un ossimoro, ma a ben vedere tale non è), con paradossali effetti, opposti alla garanzia per l’indagato e dunque alla ratio della riforma…

Un sistema complesso, dunque. Il volume non lo rende semplice, ma aiuta ognuno di noi ad orientarsi in esso, seguendo la trama che guida l’intera riflessione, ispirata alla rigorosa coerenza con i princìpi.