1. Il diritto penale come strumento di welfare giudiziario? – La legge 5 giugno 2020, n. 40, nel convertire il d.l. 8 aprile 2020, n. 33, ha aggiunto un art. 29-bis (obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19) secondo cui «ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
Nella prospettiva penalistica, la previsione[1] parrebbe scontata e come tale inutile (di che altro potrebbe riempirsi, nell'attuale emergenza, la clausola vuota dell'art. 2087 c.c.? Non certo delle previsioni del T.U. 81/2008 o di precedenti protocolli sulla sicurezza, vista la novità della situazione e quindi della tipologia di cautele). Non varrebbe dunque la pena parlarne ... se non fosse stata preceduta da accese discussioni sulla configurabilità di una responsabilità datoriale per il contagio da Covid-19 dei lavoratori.
Le preoccupazioni generavano, a loro volta, dalla qualificazione come "infortunio sul lavoro" dell'infezione da coronavirus ad opera dell'art. 42, comma 2, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (convertito in l. n. 27 del 2020), recante "misure speciali a sostegno delle famiglie", e più noto come Decreto Cura Italia.
Per intenderci, si trattava del decreto che ha disposto misure quali: il congedo parentale straordinario parzialmente retribuito; il voucher baby-sitter; l'estensione della durata dei permessi ex legge 104/92; l'equiparazione della quarantena alla malattia ecc.
In tale quadro, l'art. 42, comma 2 c.p. mirava a facilitare il trattamento assicurativo del lavoratore in una situazione affatto eccezionale.
Nulla aveva a che fare con la tutela penale, come ha avuto cura di specificare in interventi immediatamente successivi lo stesso INAIL (v. soprattutto la Circolare n. 22 del 20.5.2020).
Ciò nondimeno, preoccupava che una giurisprudenza, la quale da anni sembra usare impropriamente il risarcimento del danno da reato appunto come strumento di assistenza sociale, in aggiunta o in sostituzione a quelli statali istituzionali, dis-interpretando il citato art. 42, comma 2, lo brandisse per prospettare responsabilità penali "a tappeto" ed elargire ristori economici ai soggetti più sfortunati (o reputati tali).
Va anche riconosciuto che il pericolo non è ancora fugato.
Tuttavia, ove sciaguratamente si inverasse, difficilmente sarebbe il frutto di "sviste" interpretative. E si sa che di fronte ad "accanimenti giudiziari" non c'è rimedio legislativo che tenga: non quello predisposto dal legislatore vigente; tantomeno quello rimasto (almeno per ora) nel cassetto dei progetti, su cui tornerò.
L'unico vaccino ad un uso improprio delle categorie penali in sede giudiziaria consisterebbe in una presa di coscienza di tipo "culturale" da parte della magistratura, e dovrebbe quindi provenire dal suo interno. Potrebbe trovare voce in circolari degli organi dirigenziali (penso soprattutto agli Uffici delle Procure) che invitino a una rigorosa applicazione di principi e categorie nel loro nucleo abbastanza definite e comunque affatto chiare in rapporto alle situazioni da decidere in questa materia, così da limitare al giusto l'avvio di indagini penali.
D'altronde, tutti gli interventi specialistici a caldo sul tema delle infezioni da Covid-19 e la stessa già citata Circolare Inail 20 maggio 2020 concordano sulle enormi difficoltà di individuare, nei casi in oggetto, responsabilità penali. In uno scenario in cui a sporadiche condanne nei primi gradi di giudizio farebbero seguito frequenti assoluzioni in appello o in cassazione, un atteggiamento di prudenza nella fase iniziale sarebbe viepiù auspicabile.
2. La difficile configurabilità del nesso causale nel contagio Covid-19 (premessa). – Tenevo a questa, forse brutale, precisazione. Per il resto, mi limiterò a chiarire che la responsabilità penale dell'imprenditore non può essere ovviamente esclusa ma che, altrettanto ovviamente, dovrebbe integrare un'ipotesi eccezionale.
3. La causalità. – È ovvio che la selezione dell'area della responsabilità penale avverrà (dovrebbe avvenire) principalmente sul piano causale: nella materia in oggetto lo schema di accertamento Franzese (SS.UU. n. 30328/2002), se rigorosamente applicato, porterà quasi sempre a negare l'elevata probabilità logica che esista un nesso condizionalistico tra condotta ed evento. Di occasioni di contagio alternative all'esposizione sul luogo di lavoro ce ne sono molte in generale e raramente saranno identificabili mediante analisi differenziali (il nuovo coronavirus – come noto – è ubiquitario e, per di più, ben sappiamo che la malattia può essere asintomatica o paucisintomatica). Le difficoltà saranno ancor maggiori con riferimento a condotte tenute nella fase iniziale, quando il coronavirus circolava in modo silente e non è stato quindi minimamente tracciato.
Intendiamoci: non si sta affermando che la prova del nesso causale sia esclusa aprioristicamente. Essa potrà conseguirsi quando il lavoratore sia stato in un ambiente lavorativo chiuso e si possa dimostrare che avesse annullato o ridotto al massimo i contatti con l'esterno (penso al personale di alcune RSA, casomai messosi in autoisolamento, e/o al lavoro dei detenuti negli istituti penitenziari). Ma, com'è chiaro, si tratterà di evenienze rare.
Incidentalmente e quantomeno a una valutazione "a caldo", in materia di contagio da Covid, sospetto che non funzionerebbe neppure il modello Masera-Zirulia, che prone una valorizzazione delle indagini epidemiologiche e la cui utilità in altri ambiti personalmente condivido[2]. L'infezione sul lavoro di cui si discuta in sede penale dovrebbe infatti avere caratteristiche quantitative, in termini di estensione, tali da rendere significativa la coorte oggetto di studio. Inoltre, occorrendo confrontare tali dati con quelli epidemiologici "di controllo", un altro ostacolo potrebbe essere rappresentato dalla parzialità di questi ultimi (legata al fatto che, soprattutto nelle prime fasi, i "tamponi" sono stati eseguiti in modo non sistematico, esclusivamente su soggetti sintomatici ecc.).
Soltanto nelle poche ipotesi in cui sarà possibile ravvisare con certezza il nesso causale, avrà quindi ragione di porsi il problema della colpa.
Prima di trattare questo punto, mi consento una piccola parentesi, volta ad esorcizzare il timore di un pericolo forse non del tutto scongiurato.
4. Parentesi sull'(in-)utilità di "scudi penali". – Ho detto che l'art. 29-bis della legge n. 40/2020, sebbene motivato dalle vicende di cui si è detto, dichiara l'ovvio. Ora preciso che non ha esplicite velleità penali.
Non ritocca la teoria della colpa. Non incide sulla tipicità dei reati (neppure menziona la materia penale). Non modifica assetti di tutela preesistenti: tantomeno quello del T.U. 81/2008 i cui contenuti, al limite, specifica per relationem. Ha soltanto una valenza indiretta, di "richiamo" all'esistente. A differenza di alcuni suoi omologhi nella recente storia penalistica (penso ovviamente alla responsabilità del sanitario, su cui tornerò), non assurge nemmeno a regola di giudizio.
Se vogliamo riconoscere alla disposizione un ruolo penalistico, si tratterebbe di un semplice memento[3]. Tradendo una (forse eccessiva?) sfiducia nell'interprete, la disposizione si limita a ricordare ciò che già dovrebbe essere noto, e cioè che, in relazione ai fatti verificatisi in determinati frangenti – in questo caso addirittura emergenziali e segnati da grande incertezza –, per decidere della colpa si deve guardare alle regole di cautela in quel momento vigenti e non a quelle che dovessero rivelarsi efficaci ex post. Regole di cautela che sono state appunto "concordate" (con il contributo di diverse parti, portatrici di interessi e punti di vista differenti) in atti scritti denominati (perspicuamente o meno: non rileva): protocolli.
Un intervento legislativo minimale, dunque, la cui opportunità si coglie, come detto, essenzialmente calandolo nel contesto storico che lo ha generato, ma che non cambia, non deve cambiare, l'esistente. Al limite, può fungere da monito per evitare il senno del poi (vd. infra).
Ben altra cosa è dunque la disposizione in oggetto rispetto alla proposta avanzata nei primi giorni di maggio dal Direttore dell'INAIL[4], che ipotizzava un'esplicita esenzione da responsabilità nel caso di osservanza della normativa Inail (c.d. "scudo penale del datore di lavoro").
Tale previsione, nonostante il suo condivisibile fine e il fascino della semplicità, sarebbe stata inutile, controproducente, forse dubbia. E, visto che una siffatta novella – nell'attuale alluvione di provvedimenti anche legislativi – ancora non può dirsi scongiurata, vale la pena di spiegare succintamente le ragioni del giudizio negativo.
L'esenzione legislativa da responsabilità penale del datore di lavoro sarebbe stata inutile. Aspirando a una sorta di presunzione iuris et de iure, avrebbe dimenticato che l'accertamento della colpa è svolto necessariamente in concreto[5]. I "protocolli" di cui stiamo parlando (innanzitutto, il citato Protocollo 24.4.2020) non contengono soltanto regole rigide (ammesso che ne esistano), ma anche elastiche: sono (vive) raccomandazioni da cablare sulla specificità delle situazioni concrete, tra loro anche molto diverse. Una pur sommaria lettura del testo fornisce facile conferma di questa osservazione, come quando si suggerisce il massimo utilizzo dello smart working o si consiglia di limitare gli spostamenti all'interno dei siti per le attività produttive.
Gli stessi atti chiedono dunque all'imprenditore di cablare le cautele sulle caratteristiche della sua azienda: secondo un ormai sempre più frequente modello di normazione che suppone il concorso di fonti pubbliche e private. Modello che può piacere o no, ma che è imposto dalla crescente complessità sociale e, in questo caso, suggerito dalla scarsa predittività delle conseguenze già solo nel breve termine. Modello con cui, in sintesi, tocca fare i conti anche penalistici.
Di conseguenza, uno "scudo penale" come quello ipotizzato, pur suggerendo il contrario, non avrebbe impedito la nascita di un procedimento penale ed avrebbe quindi tradito le sue promesse. Le indagini sarebbero state pur sempre avviate per accertare che le cautele fossero state realmente assunte, fossero adeguate alla specifica situazione lavorativa e fossero comunque concretamente idonee (come nell'esempio del termoscanner usato davvero ma che si scopre a posteriori non funzionante o non a norma[6]).
A bypassare l'accertamento giudiziario sulla concreta adeguatezza delle precauzioni ci si era già provato d'altronde in più occasioni, come per gli enti (penso alla c.d. proposta Arel sulla certificazione dei modelli organizzativi, datata oramai una decina d'anni) e, più di recente, in materia medica (con le leggi Balduzzi e poi Gelli-Bianco). La missione si è rivelata impossibile. Se errare è umano, perseverare sarebbe stato diabolico.
L'esenzione legislativa da responsabilità penale del datore di lavoro sarebbe stata dannosa. Lo "scudo penale" avrebbe rischiato di ingenerare l'inquietante equivoco che il nesso causale vada in questa materia supposto, presunto o accertato secondo modelli probatori semplificati: laddove, come si è detto, è proprio su quel versante che presumibilmente sarà realizzata la massima selezione.
Qui, il paragone con quanto accaduto in ambito sanitario desta preoccupazioni anche maggiori. In materia medica l'accertamento del nesso causale è arduo e discrezionale (nella prima fase, non può prescindere da leggi con scarso potere predittivo, come quelle biologiche; nella seconda fase trova un ostacolo nella multifattorialità di molti eventi-malattia), ma resta pur sempre possibile. Dal che l'astratta utilità di riforme tese a incidere sull'accertamento della colpa[7]. In tema di infezione da Covid negli ambienti lavorativi, invece, il giudizio sulla responsabilità penale dovrebbe arrestarsi solitamente, come ricordato, sul piano causale, che uno "scudo" tarato sulla colpa avrebbe invece probabilmente indotto a presumere.
L'eterogenesi dei fini di una siffatta riforma sarebbe stata quindi non solo prevedibile ma clamorosa.
L'esenzione legislativa da responsabilità penale del datore di lavoro sarebbe forse stata di dubbia correttezza teorica. Oltre ad essere spesso elastiche, alcune cautele filtrate nei protocolli non hanno una finalità del tutto chiara. Sono state tarate – peraltro in tutta fretta, a causa del carattere emergenziale della situazione – su studi (molto iniziali) virologici ma anche epidemiologici. Si sono avvalse di analisi statistiche, oltre che di studi clinici. Sono state pensate in chiave di gestione del rischio per la salute pubblica, e non solo individuale. Insomma, non tutte le regole dei protocolli potrebbero rivelarsi perfettamente funzionali all'accertamento di posizioni individuali in relazione a specifici eventi Covid. Ipotizzare un nesso semplicistico ed automatico tra osservanza della regola e mancanza della colpa sarebbe stato quantomeno fuorviante.
5. La colpa. – Scongiurato – si spera – il pericolo dell'ennesima legge "eccezionale" e ammesso che si verta in uno di quei rarissimi casi in cui possa essere ravvisato il nesso causale, resteranno allora ferme le tradizionali categorie in materia di colpa. Sì ma – si chiederebbe un imprenditore – che cosa devo fare in concreto per non incorrere in responsabilità penale?
Le risposte sul tappeto sono sempre le stesse.
Tutto ciò che è scientificamente possibile? Si tratta di soluzione deprecata dalla dottrina maggioritaria ma giurisprudenzialmente purtroppo non assurda. Al di là di ogni approfondimento sui rapporti tra cautela e precauzione, in questo caso, in aiuto del datore di lavoro dovrebbe venire l'eccezionale incertezza scientifica che ha segnato la situazione di pandemia: d'altronde, se ha sbagliato l'OMS, ben può errare anche l'imprenditore nel valutare il rischio e predisporre le conseguenti cautele, soprattutto nei momenti iniziali di diffusione della pandemia.
Ciò che impongono la normativa e i protocolli ... e basta? Neanche questa, che pure potrebbe sembrare l'opzione suggerita dalla novella legislativa del citato art. 29-bis, si rivelerebbe la risposta giusta ai fini penali. Ferma l'auspicabile (e vivamente raccomandato) rispetto delle previsioni contenute nella legge e nei protocolli, e sempre che sussista il nesso causale, non può escludersi che il datore di lavoro sia penalmente rimproverato per non aver fatto di più, laddove, in concreto, un maggior rischio fosse per lui (soggettivamente) prevedibile ed evitabile (l'evenienza è piuttosto inverosimile, date le circostanze, ma non può essere negata in linea teorica). Per converso, la parziale attuazione dei protocolli – in un mondo giurisprudenziale ben funzionante – non dovrebbe tradursi per ciò solo in responsabilità e quindi in condanna, ove il pericolo fosse per qualche ragione nullo o più efficacemente fronteggiabile attraverso presidi diversi o ulteriori. O – semplicemente – laddove l'imprenditore non fosse nelle condizioni materiali di fare alcunché, per impossibilità fisica o (vuoi anche) perché la cautela rientrava nella sfera di controllo del solo lavoratore.
A tale fine, è sempre utile comunque ricordare che le regole cautelari rilevanti ai fini del giudizio sulla colpa sono tese a minimizzare il rischio e non ad annullarlo (il rischio può essere annullato solo vietando tout court l'attività pericolosa ma, in tal caso, la possibile gravità dell'esito, sul piano economico ed occupazionale, impone una valutazione "di fioretto", preferibilmente ad opera di un soggetto pubblico). Insomma, per quanto appaia banale, vale sempre il monito per cui la cautela non diventa inadeguata retroattivamente soltanto perché non è riuscita ad impedire un evento dannoso.
Ciò che richiedono la legge e i protocolli, ma cum grano salis. Rimane allora in piedi solo questa soluzione. Contrastato il meme (che si è molto diffuso in ambito penalistico) per cui i protocolli, per il mero fatto ("magico") essere così denominati, contengano esclusivamente regole di comportamento iper-tipizzate quanto ai contenuti e rigide quanto all'applicazione, va accettata la conclusione che essi, al pari delle linee guida (cui peraltro una dottrina li ha già espressamente assimilati[8]), parlino una lingua che non è quella precipuamente penale. Va cioè considerata l'ipotesi che si esprimano attraverso "raccomandazioni", suggerendo comportamenti atti a ridurre al minimo eventi dannosi in generale, e modalità di condotta la precisione della cui descrizione oscilla da un più a un meno, ma la cui attitudine precauzionale va comunque testata sul campo.
Il che per il datore può implicare, in concreto, l'opportunità di innalzare lo standard di cautele rispetto ai protocolli, ma, in ipotesi, anche di abbassarlo.
Sullo speculare versante dell'accertamento penale giudiziario, dopo la valutazione tarata sull'agente modello – quella che in dottrina chiamiamo «misura oggettiva della colpa» –, per la quale le disposizioni del protocollo rappresenteranno un punto di partenza imprescindibile, l'interprete dovrà pur sempre concretizzare il giudizio, interrogandosi sulla «misura soggettiva». Dovrà cioè verificare prevedibilità ed evitabilità del preciso evento verificatosi, da parte di quel determinato datore di lavoro, combattendo la tentazione di scorciatoie e schemi presuntivi.
So bene che quest'idea suppone un banale quanto oramai irrealistico buon senso nell'applicazione della categoria colposa e si libra quindi in un immaginario aere parallelo in cui i giudici non si lascino accecare da quello definiamo elegantemente Hindsight Bias (sottintendendovi la più prosaica accusa di oggettivare la colpa e usare in modo distorto il diritto penale).
Tuttavia, allo stato attuale non vedo alternative realistiche a una rigorosa applicazione (dei nuclei concettuali) delle categorie e quindi alla svolta culturale di cui parlavo all'inizio. Tanto più che – come ho già varie volte osservato – i casi in oggetto saranno, in linea di massima, "casi (molto) facili".
6. La responsabilità degli enti. – Se dunque l'intervento legislativo lascia, tutto sommato, il tempo che trova (e di altri non si sente il bisogno), qualcosa di più proficuo si potrebbe invece forse fare sul piano del sistema della responsabilità degli enti.
Come argomentato in una dettagliata e recente analisi della dottrina[9], il sistema 231, se ben attuato, ha già al suo interno gli strumenti per reagire all'emergenza sanitaria e quindi penale. E, se ben realizzata, la compliance aziendale dovrebbe mettere l'ente a riparo da condanne penali.
Dovrebbe. Ben sappiamo infatti che il giudizio sulla colpevolezza dell'ente, in punto di valutazione dell'adeguatezza dei modelli, si fa più tecnico, quindi meno gestibile dal magistrato e diventa ancor più fluido e opinabile di quanto accada per la responsabilità individuale.
Impossibile ignorare che il nodo principale dell'impianto 231/2001 si è rivelato (e sarà anche in materia di contagio da Covid-19) il giudizio sull'attuazione in concreto delle cautele, peraltro solitamente svolto in fase cautelare e quindi secondo standard probatori attenuati.
Al punto che – come parimenti noto – soprattutto in situazioni di grave difficoltà economica, oltre che sanitaria, l'ente potrebbe essere tentato di svolgere un deprecabile calcolo costi/benefici. Potrebbe cioè preferire non attuare tutte le gravose cautele del sistema 231, o non attuarle affatto, accettando il rischio di incorrere in "incidenti penali", con la riserva "mentale" di patteggiare, ove tale esito si prospetti più conveniente (una sommaria analisi della giurisprudenza, con le sue poche sentenze definitive, suggerisce che questo è quanto già probabilmente accade nella prassi, quantomeno delle medie imprese, che però rappresentano – come noto – una percentuale molto consistente del mondo imprenditoriale italiano).
In questa prospettiva, l'efficacia deterrente della 231 si assottiglierebbe ulteriormente, e con essa il suo impulso "moralizzatore". Quel che è peggio, una più debole prevenzione acuirebbe i rischi per la salute dei lavoratori.
Mi chiedo allora se questa possa rappresentare l'occasione per un generale ripensamento del sistema.
Sono consapevole che la riforma che sto per proporre è irrealistica, a causa delle spinte europee, dell'interazione con la compliance internazionale (concorrente con quella italiana, almeno nelle società multinazionali) e, forse soprattutto, per gli interessi economici che ruotano attorno al sistema 231. Tuttavia, ritengo che sarebbe utile cominciare a riflettere sull'opportunità legislativa di fare un passo indietro: abbandonando l'attuale complesso assetto di tutela positiva a favore di sanzioni più miti e comunque modulabili, vuoi anche (espressamente) penali, ricollegate però alla semplice mancata, incompleta o inidonea attuazione della compliance, e cioè a violazioni di tipo "formale", slegate cioè dalla verificazione di eventi-reato.
L'uso delle virgolette (a cingere l'aggettivo "formale") è dovuto al fatto che, per l'accertamento della responsabilità dell'ente, la giurisprudenza dovrebbe comunque ricorrere a saperi esperti aziendalistici, il solo know how in grado di esprimere congrue ma elastiche (non basate su schemi formalistici) valutazioni sull'idoneità dei presidi attuati dalle aziende in rapporto alle loro caratteristiche interne. E tuttavia, una risposta sanzionatoria di questo tipo, pur perdendo in severità, guadagnerebbe in certezza e quindi in deterrenza. Si rivelerebbe cioè più performante nella misura in cui eviti l'attuale roulette russa di (condanne ma soprattutto di) sequestri e in genere di misure cautelari (talvolta esiziali ma) poggiate su presupposti largamente incontrollabili.
Mi chiedo, insomma, se anche per gli enti stia giungendo il doloroso momento del commiato da un illuministico diritto penale dell'evento (in questo caso "-reato") e se il post-emergenza Covid-19 possa rappresentare un'occasione per iniziare ad elaborarlo.
[1] ... che per il resto produce l'effetto di elevare a rango legislativo disposizioni che tale rango non hanno.
[2] L. Masera, Accertamento alternativo ed evidenza epidemiologica nel diritto penale, Giuffrè, 2007. Vd. anche Id., Evidenza epidemiologica di un aumento di mortalità e responsabilità penale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 3-4/2014, pp. 343 ss.; S. Zirulia, Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale, Giuffrè, 2018.
Come noto, Luca Masera, in relazione all'accertamento di alcune malattie professionali da esposizione ad agenti tossici (come i tumori generici), spiegò in quale modo le indagini epidemiologiche (se rigorosamente condotte) possono neutralizzare o comunque contenere al massimo i fattori di confondimento, concetto largamente sovrapponibile a quello, appena richiamato, dei fattori causali alternativi di franzesiana memoria. Metodi scientifici standardizzati e controllabili offrono al giudice informazioni utili sulla c.d. frazione di rischio e cioè su dati percentuali che, pur oscillando tra un minimo e un massimo, sono attendibili e consentono quindi di contare con ragionevole approssimazione gli eventi avversi (malattia o morte) ascrivibili ad un certo antecedente (Masera invocava il c.d. accertamento alternativo e concludeva per la configurabilità dell’omicidio plurimo, proponendo di attestarsi sulla soglia più bassa di eventi). Dopo di lui e sulla sua scia, Stefano Zirulia ha apportato alcune precisazioni importanti, chiarendo (da un lato, che lo strumento al modello dell’accertamento alternativo è aggirabile tornando a un concetto di evento concreto ma non troppo; dall'altro lato,) che lo studio epidemiologico penalmente rilevante va condotto proprio sulla popolazione realmente interessata dal problema penalistico e non su popolazione analoga. In tal modo ha delimitato ulteriormente la possibilità di ricorrere alle indagini epidemiologiche.
[3] Scrive C. Cupelli, Spunti sull'art. 29-bis del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (convertito nella legge 5 giugno 2020, n 40), in questa Rivista, 15 giugno 2020: si tratta di una «norma di indirizzo, dal valore "pedagogico"».
[4] https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/sicurezza-del-lavoro/quotidiano/2020/05/08/contagio-covid-19-serve-introdurre-scudo-penale-datori-lavoro
[5] Questa riflessione si è offerta da subito al dibattito. S. Dovere, La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19, in Giustizia Insieme, 5 maggio 2020. Vd. anche i suoi interventi sul webinar http://www.keyeditore.it/webtv/contagio-sul-lavoro-e-possibili-responsabilita-datorialile/
[6] L'esempio è mutuato da S. Dovere, http://www.keyeditore.it/webtv/contagio-sul-lavoro-e-possibili-responsabilita-datorialile/, ed è stato ripreso da C. Cupelli, Spunti cit.
[7] Personalmente, ho sempre cercato (invano) di neutralizzare la portata di quelle riforme, degradandole a semplici regole di giudizio. O. Di Giovine, In difesa del c.d. decreto Balduzzi (ovvero: perché non è possibile ragionare di medicina come se fosse diritto e di diritto come se fosse matematica) (editoriale), in Arch. pen., 2014, 1 ss.; O. Di Giovine, Mondi Veri e Mondi immaginari di Sanità, Modelli epistemologici di medicina e sistemi penali, in Cass. pen., 2017, 2151 ss.
[8] Ancora S. Dovere, La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19, in Giustizia Insieme, 5 maggio 2020. Vd. anche i suoi interventi sul webinar http://www.keyeditore.it/webtv/contagio-sul-lavoro-e-possibili-responsabilita-datorialile/
[9] M. Pozzi – G. Mari, I modelli 231 alla prova dell'emergenza Covid 19: nuovi rischi-reato e conseguenti strumenti di prevenzione e protezione dell'ente collettivo dalla responsabilità ex crimine, in questa Rivista, 12 giugno 2020.