1. L’interesse di professionisti, studiosi e studenti di diritto penale per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni. Certamente contribuiscono ad alimentare questa attenzione i dati relativi agli infortuni ed alle malattie professionali, che sebbene di gran lunga migliori rispetto a venti o trenta anni fa, ancora oggi riflettono situazioni nelle quali la produzione di beni e l’erogazione di servizi pongono quotidianamente in pericolo la vita e l’integrità fisica dei prestatori di lavoro, estendendosi in alcuni casi fino a minacciare l’incolumità pubblica. Al contempo, l’interesse per la materia affonda le radici in considerazioni di carattere squisitamente scientifico, attesi il ruolo protagonista che la casistica germogliata in questo settore ha giocato nel modellamento di alcune fondamentali categorie della parte generale.
Il volume di Rocco Blaiotta raccoglie queste sfide e ci restituisce un quadro organico di entrambi i versanti in cui si articola il c.d. diritto penale del lavoro: quello preventivo del governo del rischio; quello repressivo che scatta a fronte dell’accertamento di offese di pericolo e di danno. La pluriennale esperienza dell’autore, che come è noto a queste tematiche si è dedicato nella veste di consigliere e presidente della Sezione IV della Corte di Cassazione, si riflette nelle caratteristiche di fondo del volume, individuabili nell’impeccabile equilibrio tra sintesi ed approfondimento, tra attenzione ai profili dogmatici ed ai relativi risvolti pratici, tra restituzione di un quadro fedele del dibattito e proposte interpretative originali.
Impreziosito dall’introduzione di Tullio Padovani, il Manuale – che tale non è definito, ma ne presenta tutte le caratteristiche di completezza ed organicità – è suddiviso in otto capitoli che accompagnano con passo sicuro il lettore alla scoperta dei nessi che tengono insieme una disciplina frammentata e articolata, ricostruendo un mosaico coerente dove le parti si completano e si chiariscono vicendevolmente.
2. L’autore offre anzitutto uno spaccato storico della disciplina, attraverso il quale mette in luce il passaggio dalla logica della protezione “oggettiva” e pubblicistica che aveva caratterizzato la normativa degli anni ’50, alla logica dell’“autonormazione” promossa dalle direttive europee e attuata dal legislatore con la legge 626 del 1994. Quindi si sofferma sulla struttura e le scelte di fondo che innervano il Testo Unico in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche), con il quale si porta a compimento l’evoluzione cominciata nel secolo precedente, recependo al contempo le indicazioni giurisprudenziali stratificatesi nel corso degli anni.
Entrando nel vivo della materia, vengono dapprima esaminate le figure cardine del sistema (capitolo II), valorizzando l’introduzione di qualificate competenze tecniche e scientifiche (responsabile del servizio di prevenzione e protezione, medico competente); per poi affrontare lo spinoso tema della delega di funzioni (capitolo III). Di particolare rilievo sistematico la considerazione secondo cui il concetto di posizione di garanzia, germogliato sul terreno dei reati omissivi impropri, viene a ben vedere in rilievo – come di recente riconosciuto dalle Sezioni Unite nella nota sentenza ThyssenKrupp – nella generalità delle situazioni in cui un soggetto viene chiamato a gestire una determinata sfera di rischio, e dunque anche in chiave limitativa della responsabilità per reati commissivi. Si tratta di un tema che viene ripreso ed ulteriormente sviluppato nella successiva trattazione dell’imputazione causale.
3. Particolare attenzione merita il quarto capitolo, dedicato alla valutazione dei rischi e dunque al contributo del datore di lavoro nella definizione della disciplina cautelare, in ragione della particolare attenzione dedicata al tema – tra i più scottanti della contemporaneità – della definizione degli obblighi cautelari del garante nella prospettiva del bilanciamento tra interessi confliggenti, tenuto conto dell’impossibilità pratica e tecnica, in molti casi, di azzerare i rischi senza rinunciare ad una determinata attività economica.
La trattazione si snoda attraverso i capisaldi della giurisprudenza costituzionale (a partire dalla sentenza n. 312 del 1996 e dall’ampio dibattito dottrinale che ha generato, fino alle più recenti questione emerse nel caso Ilva affrontate dalle sentenze nn. 85/2013 e 58/2018); per approdare alle frontiere rappresentate dalla fenomenologia del rischio pandemico da Covid-19, rispetto alla quale vengono tratteggiati tanto i profili di integrazione della disciplina del TUSL con la regolamentazione introdotta dai protocolli stipulati tra le parti sociali; quanto i profili di responsabilità da contagio, con riferimento ai quali l’autore manifesta un certo realistico scetticismo rispetto all’opportunità ed alla realizzabilità di iniziative a carattere repressivo (“la temperie pandemica non lascia, nel nostro campo, spazio ragionevole all’azione penale, se non in casi marginali: causalità, colpa, rischio consentito, scudo legale ergono una barriera che scoraggia intraprese che disperano di essere fruttuose nell’ottica accusatoria”) (p. 114).
Nelle conclusioni di questo denso capitolo, l’autore dimostra attenzione nei confronti delle critiche rivolte da autorevole dottrina al principio dell’autoregolazione nella gestione del rischio lavorativo, ma al contempo ritiene che le stesse si presentino per certi aspetti eccessive: l’intervento dello Stato nel governo di attività rischiose, indispensabile per offrire un elevato livello di tutela di beni giuridici di elevato rango, prevenendo il ripetersi di tragedie umane e disastri ambientali come quelli che hanno caratterizzato i casi Eternit, Porto Marghera o Ilva – non è a suo avviso incompatibile con la richiesta di impegno concreto e professionalmente qualificato da parte del soggetto privato nell’individuazione e nella valutazione dei rischi, in linea con le scelte di fondo compiute dal legislatore nazionale e, a monte, da quello europeo. Su queste premesse si fonda una posizione imperniata sulla contestuale valorizzazione del principio di separazione dei poteri (“il garante non può essere lasciato da solo nell’assunzione di decisioni che implicano difficili ponderazioni tra gli interessi coinvolti, che devono essere esperite dalla sfera politica”), nonché dell’irrinunciabile ruolo di protagonista svolto dal singolo garante a fronte dell’evoluzione della tecnologia e della scienza (nella prospettiva di “adeguare lo strumentario protettivo al divenire delle conoscenze, senza pretendere sempre il massimo astrattamente possibile ma assicurando comunque uno standard elevato ed efficiente”) (p. 115-116).
4. La trattazione prosegue affrontando i tre livelli nei quali si sviluppa la tutela “sanzionatoria” della sicurezza sul lavoro: l’apparato contravvenzionale (capitolo V), i reati di comune pericolo del codice penale (capitolo VI) e i reati di evento dannoso di omicidio e lesioni personali (capitolo VII).
Sul primo fronte, la disciplina viene affrontata mettendo in luce – con la consueta attenzione ai riflessi penalistici dell’evoluzione delle più generali politiche in materia di sicurezza sul lavoro – come l’avvento del paradigma “partecipativo” germogliato sin dagli anni ’90 si sia riflesso anche nella configurazione dell’apparato contravvenzionale raccolto in un unico corpus dal TUSL, dove ai tradizionali illeciti contravvenzionali di stampo sanzionatorio puro si affiancano oggi anche quelli conformati attorno all’inosservanza delle prescrizioni attinenti all’organizzazione ed ai processi sulla sicurezza. A fronte dell’annoso problema della limitata afflittività di tali strumenti sanzionatori, si evidenzia come il legislatore, ispirandosi (anche) in questo settore alla logica riparatoria e premiale, abbia optato per “un percorso di virtuosa interlocuzione tra agenti ispettivi e garanti”, nell’ambito delle attività di vigilanza effettuate da istituzioni aventi la qualifica di polizia giudiziaria, finalizzato in ultima analisi, oltre che alla deflazione processuale, “alla riconduzione delle attività nella sfera della sicurezza, piuttosto che alla rigida efficienza della risposta sanzionatoria” (p. 123).
5. Al centro del congestionato crocevia tra pericolo e danno, tra mera condotta ed evento, tra incolumità pubblica e individuale, si colloca il “microsistema” delle fattispecie codicistiche di comune pericolo mediante violenza, che ha conosciuto recenti e controversi revival nella casistica sui disastri ambientali e c.d. sanitari. Anche su questo terreno, punteggiato da alcuni tra i più complessi rompicapi interpretativi della materia, Rocco Blaiotta regala al lettore una perfetta sintesi tra trattazione istituzionale ed approfondimento critico, accompagnata ed arricchita dai riferimenti ai leading cases della materia.
Nella molteplicità di temi affrontati, spicca l’attenzione per i nodi interpretativi che circondano gli eventi lesivi presi in considerazione dall’art. 437 c.p., sciolti dall’autore lungo una direttrice esegetica volta a valorizzarne le interrelazioni semantiche. Tale approccio, che si lascia apprezzare per equilibrio e coerenza sistematica, e che senz’altro susciterà l’attenzione della prassi e della dottrina, va ad abbracciare, per quanto riguarda il disastro, gli orientamenti tesi a riconoscere che il relativo tratto caratteristico “non risiede tanto in un elemento quantitativo, quanto nell’indeterminatezza delle persone che possono entrare in contatto con il rischio non protetto”; mentre, per quanto riguarda l’infortunio, porta l’autore a ritenere che “non avrebbe coerenza sistematica ritenere che il codificatore abbia voluto riferirsi alla lesione dei beni della vita e dell’integrità nella sua forma minima, relativa cioè ad un singolo individuo senza che vi siano proiezioni offensive di maggior rilievo”, di tal ché “l’infortunio di cui parla la nostra fattispecie di pericolo deve essere l’espressione, l’esito, di un accadimento che abbia un’intonazione disastrosa” (p. 150 s.). Sempre con riferimento all’infortunio, si rinviene una posizione originale riguardo alla problematica configurabilità della c.d. malattia-infortunio, rispetto alla quale l’autore si mostra decisamente meno scettico rispetto alla (compatta) dottrina, osservando come certe ipotesi paradigmatiche di danni da agente chimico o biologico (come l’intossicazione da sostanze tossiche presenti in una cisterna) non possano non essere considerate alla stregua di infortunio, senza per questo violare il divieto di analogia in malam partem. Si tratta di una posizione intermedia interessante, la cui tenuta dovrà essere vagliata tenendo conto della durata del processo eziologico che conduce all’evento lesivo, sul quale si appunta la tradizionale distinzione tra malattia e infortunio (si pensi alla differenza tra una malattia oncologica e un’infezione da virus).
Di particolare interesse sono anche le dense pagine dedicate al controverso tema della configurabilità del disastro ambientale e del disastro sanitario, categorie di evento lesivo frutto dell’incontro tra l’elasticità semantica dell’art. 434 c.p. e l’originalità degli impianti accusatori che hanno sorretto le note vicende processuali del Petrolchimico di Porto Marghera e degli stabilimenti italiani Eternit. La ricostruzione dei problemi e la descrizione delle posizioni affiorate in dottrina e giurisprudenza si affianca ad un netto rifiuto della deriva esegetica che ha portato a ritenere configurabile il disastro ambientale e/o sanitario nell’art. 434 c.p.; rifiuto che tuttavia non si fonda (come invece accade in dottrina) sul requisito della necessaria concentrazione temporale dell’evento distruttivo, bensì sulla dimensione dell’offesa all’incolumità pubblica, smarrita ad avviso dell’autore da una parte della giurisprudenza. Tali considerazioni costituiscono a loro volta la base per una cauta apertura verso la configurabilità, ai sensi della medesima norma incriminatrice ovvero della corrispondente ipotesi colposa ex art. 449 c.p., di un inedito “disastro aziendale”, ogniqualvolta il disastro verificatosi in ambiente lavorativo non sia riconducibile al capoverso dell’art. 437 c.p. in ragione del difetto di condotte ivi tassativamente tipizzate. Non è certo questa la sede per tentare di esprimere un anche solo provvisorio punto di vista su queste posizioni: ciò che preme evidenziare è che la tesi, evidentemente coraggiosa e caratterizzata da un non trascurabile grado di creatività esegetica, si candida ad inaugurare un nuovo capitolo nella saga dei “disastri innominati”, in attesa che la penna del legislatore conferisca finalmente una maggiore tassatività a questa tormentata fattispecie, tenendo anche conto dei suoi intricati rapporti con il “nuovo” disastro ambientale ex art. 452-quater c.p. (ipotesi a sua volta non scevra da profili di oscurità).
6. È notoriamente nel quadro delle imputazioni per omicidio e lesioni personali che il ruolo del formante giurisprudenziale ha contribuito a modellare – con risultati peraltro non sempre felici – alcune categorie della parte generale del diritto penale, con una valenza che trascende quella settoriale del contesto lavorativo. La tensione che attraversa queste tematiche traspare fin dalle prime righe del settimo capitolo, dove vengono messe in lucida contrapposizione l’“umanissima compassione per le sofferenze della vittima”, da un lato, e il principio costituzionale di responsabilità per fatto proprio e colpevole, dall’altro.
Trattandosi di reati d’evento, il primo corno problematico dell’accertamento della responsabilità concerne il nesso causale. Il lettore viene guidato attraverso pagine preziose, che forniscono una piccola "parte generale” utile certamente per lo studente ma anche per l’operatore attento al rigore metodologico, passando in rassegna le teorie della causalità e le problematiche sottese, ed approdando all’adesione alla teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento. Tale prospettiva si salda idealmente con la già menzionata valorizzazione della suddivisione di sfere di responsabilità gestoria, le quali aggiungono alla mera condicio sine qua non un elemento di selezione “funzionale” a sua volta non riducibile al generico “rischio lavorativo”, bensì articolato nell’individuazione di molteplici tipologie di rischio specifico. Si tratta di un’impostazione densa di ripercussioni pratiche, tanto nei casi “estremi” di interruzione del nesso causale, quanto nelle fenomenologie di incidente purtroppo più frequenti, come l’autore puntualmente illustra attraverso una serie di utili esemplificazioni tratte dalla casistica più recente, dando parallelamente conto dell’autorevole recepimento dell’impostazione in parola, come già accennato, nella pronuncia delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp.
Ampia e istruttiva è poi la trattazione relativa ai ragionamenti causali ed alle inferenze scientifiche, dove per un verso viene messo in luce l’innegabile ruolo propulsivo avuto della sentenza Franzese, e per altro verso vengono illustrati i successivi sviluppi prodotti dalla riflessione teorica e pratica dei due decenni successivi, aventi ad oggetto, tra l’altro: la struttura dei giudizi esplicativi e predittivi ed il diverso ruolo che il probabilismo è chiamato a giocare a loro interno; la stessa (incerta) distinzione, a monte, tra azione ed omissione; i criteri di selezione del sapere scientifico attendibile, attraverso il vademecum declinato dalla sentenza Cozzini. Si tratta di premesse teoriche e metodologiche che trovano poi puntuale sviluppo nella successiva trattazione della casistica sulle malattie professionali, dove uno spazio è riservato anche alle irrisolte questioni del cumulo di esposizioni all'amianto rispetto al mesotelioma pleurico ed all’individuazione della condicio nei casi di patologie multifattoriali; problemi in merito ai quali – osserva l’autore – una volta impostate correttamente le questioni di carattere giuridico e garantito un itinerario motivazionale scevro da profili di irrazionalità, la parola definitiva spetta necessariamente agli enunciati scientifici.
Volgendo lo sguardo all’altro versante fondamentale della responsabilità per fattispecie d’evento, l’imputazione colposa, l’autore osserva con disincanto che “l’obbligo di tutela a carico del gestore del rischio è talmente pregnante che, individuato il ruolo di garante, non si manca quasi mai di individuare una cautela violata” (p. 238); un approccio evidentemente incompatibile con il principio della personalità della responsabilità penale. La successiva analisi è dunque improntata ad una serrata ricerca di un sufficiente grado di determinatezza del rimprovero colposo, ponendo così le premesse per metterlo al riparo dalle “suggestioni emotive altamente presenti nel nostro contesto” (p. 239). Il taglio adottato dall’autore è lo stesso a cui ci ha abituati nelle pagine precedenti, parimenti attento al rigore sistematico ed alla dimensione pratica dei problemi via via affrontati, che in questa sede ci si può solo limitare a menzionare in maniera rapsodica: i rapporti tra colpa specifica e colpa generica, attraversati dal cruciale interrogativo “se le regole scritte esauriscano la misura di diligenza richiesta nelle situazioni considerate”, non privo di ripercussioni sul piano della contestazione dei profili di negligenza nel capo di imputazione; la cosiddetta causalità della colpa ed il parallelo problema della descrizione dell’evento lesivo, perennemente contesa tra spinte (repressive) verso la sua astrazione e controspinte (garantiste) nel segno della sua concretizzazione; il tema del rischio consentito (che riprende il filo del discorso avviato nel capitolo IV) e quello, di segno contrario ma per certi aspetti complementare, del ruolo del principio di precauzione nella definizione delle regole cautelari; la colpa c.d. relazionale, centrale in un contesto dove gli obblighi di agire per la sicurezza investono diversi agenti reciprocamente collegati nello svolgimento dei propri compiti; e ancora le annose questioni dei limiti entro i quali la colpa del lavoratore può escludere quella del garante, della cooperazione colposa, dei confini tra colpa cosciente e dolo eventuale (come definiti dalla dottrina e dalle Sezioni Unite nel già richiamato caso ThyssenKrupp), dei profili autenticamente “soggettivi” del rimprovero colposo e del principio di affidamento.
7. L’ultimo capitolo dell’opera sposta lo sguardo dai garanti persone fisiche alla responsabilità degli enti nel cui contesto organizzativo si vengono a creare le condizioni pericolose per la vita e la salute psico-fisica dei lavoratori e che pertanto entrano a pieno titolo tra i soggetti chiamati a svolgere, segnatamente attraverso l’adozione e l’attuazione dei compliance programs, un ruolo attivo nella prevenzione delle offese contro la persona. Una volta esteso il meccanismo di imputazione delineato dalla legge n. 231 del 2001 anche ai reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose commessi con violazione della normativa antinfortunistica (art. 25 septies) si tratta di ricostruire i presupposti della responsabilità dell’ente tenendo conto delle peculiarità del settore lavorativo. Anche su quest’ultimo aspetto delle trattazione il volume non delude le aspettative. All’inquadramento dogmatico della c.d. responsabilità amministrativa da reato fa seguito una puntuale disamina dei presupposti nei quali essa si articola, per ciascuno dei quali vengono passate al setaccio le diverse proposte ermeneutiche affiorate in dottrina e giurisprudenza, rispetto alle quali l’autore non manca di prendere motivate posizioni, anche adottando punti di vista originali. Viene così, ad esempio, abbracciata l’idea dell’“interesse o vantaggio” come concetti da riferirsi, nel settore dei reati colposi, alla condotta tipica anziché all’evento lesivo, ritenendoli dunque integrati a fronte del risparmio sulle voci di costo relative alla sicurezza sul lavoro, sempreché l’evento che ne è scaturito ricada nell’area di “rischio organizzativo” dell’ente (p. 317).
La trattazione prosegue concentrandosi sulle peculiarità del rimprovero che può essere mosso all’ente, ossia sulla “conformazione e attuazione del modello organizzativo e del suo apparato ispettivo costituito dall’organismo di vigilanza”. La ricostruzione del quadro normativo di riferimento è svolta prestando particolare attenzione ai collegamenti tra i distinti sistemi delineati dal TUSL e dalla disciplina sulla responsabilità degli enti, relativi alla valutazione dei rischi, alla predisposizione di misure di prevenzione e protezione ed infine alla vigilanza come “funzione strutturata” che deve investire anche l’attuazione del modello organizzativo. Non mancano puntuali riferimenti alla concreta configurazione del modello, con riguardo alla declinazione del risk assessment e del risk management, senza mai perdere di vista l’intreccio tra sfera organizzativa e posizioni di garanzia dei singoli: “il modello – osserva l’autore con efficace formula di sintesi – attiene propriamente a ciò che l’ente può e deve fare per assicurare che l’organizzazione sia operosamente, virtuosamente modellata in funzione di una permanente, sistemica prevenzione di eventi lesivi, per propiziare l’agire appropriato dei garanti” (p. 330). Si possono qui solo segnalare, rimandando alla lettura delle dense pagine che li trattano, gli ulteriori approfondimenti dedicati, tra l’altro, all’organismo di vigilanza, ai modelli organizzativi nell’ambito dei gruppi di imprese, alle sfide della complessità e dell’indeterminatezza che devono essere fronteggiate nella costruzione del modello, all’elusione fraudolenta del modello stesso o ancora al controverso tema dell’autonomia della responsabilità dell’ente nei casi di autore ignoto.
8. Il volume di Rocco Blaiotta rappresenta, in conclusione, un’equilibrata fusione di generi letterari diversi, capace di muoversi con agilità tra la trattazione manualistica e l’approfondimento dottrinale, attento alle (sole) disquisizioni teoriche gravide di ripercussioni pratiche e ricco di riferimenti ad una casistica attentamente selezionata. Un efficace strumento di apprendimento per le aule universitarie, dunque, ma anche un prezioso contributo per gli operatori del diritto e per gli studiosi che ambiscano a cimentarsi con le più avanzate frontiere di questa affascinante materia.