ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Articolo  
12 Dicembre 2024


Un’altra colpa medica: le seconde vittime in medicina


*Il contributo riproduce il testo della relazione tenuta dall'Autore al convegno "Attualità della responsabilità penale sanitaria" tenutosi presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, il 18 ottobre 2024. 

***

1. Un’altra colpa medica. C’è la colpa medica con la quale comunemente noi penalisti abbiamo a che fare. È quella che deriva dall’applicazione dell’art. 43 alinea terzo c.p. e dell’art. 5 della legge Gelli. È la colpa in senso penale, che può far male al medico, se giudizialmente affermata.

Ma c’è un’altra colpa che ora vogliamo prendere in considerazione, perché non di solo diritto vive il penalista che vuole ampliare i suoi orizzonti conoscitivi.

L’altra colpa non è penale, ma morale. E può fare ancora più male al medico di quella penale. Non viene giudizialmente affermata, ma autoaffermata dal medico: è la colpa della seconda vittima.

L’argomento è intrigante, suscita fascino e curiosità.

Poniamoci tre domande: chi è la seconda vittima? Che cosa si fa a suo sostegno? Che cosa possiamo fare noi?

 

2. Chi è la seconda vittima? Il termine è stato usato per la prima volta nel 2000 da Albert Wu della Johns Hopkins School of Public Health[1] ed è ormai comunemente usato in letteratura e alquanto diffuso anche al di fuori.

È seconda vittima il medico che si colpevolizza per un evento dannoso causato al paziente da un suo errore. Il medico è travolto da uno tsunami emotivo. Le onde sono spinte da tre forze impetuose: errore, evento e colpa. Un trauma. Un black-out clinico. “L’ora più buia della mia carriera professionale”, come è stata qualificata da un medico[2].

La prima vittima dell’evento è chiaramente il paziente, sopravvissuto o no, che ha subìto il danno.

Il danno può essere iatrogeno e quindi condotta attiva. Ad esempio, prescrizione di antibiotico a paziente con nota allergia e successiva anafilassi mortale. In questa ipotesi rimbomba nella mente il noto principio ippocratico: primum non nocere. Ma il danno può essere anche naturale e quindi condotta omissiva, perché prodotto da un processo fisiopatologico sul quale il medico non interviene. Ad esempio, ritardata diagnosi per un’affrettata lettura di referti di laboratorio, che evidenziavano un’insufficienza midollare, poi evolutasi in letale mielodisplasia.

La seconda vittima manifesta una sindrome, il cui corteo sintomatologico può affollarsi fino al disturbo post traumatico da stress[3]: sensi di colpa, inadeguatezza, sfiducia nelle proprie capacità, riduzione delle prestazioni lavorative, isolamento, paura di perdere il lavoro, di perdere la fiducia dei colleghi, di essere oggetto di pettegolezzo e anche paura per le conseguenze giudiziarie. Alla severità della sindrome contribuiscono alcuni dati, quali il nome della prima vittima uguale a quello di un familiare della seconda vittima o l’età o le caratteristiche somatiche simili. O anche l’appartenenza della prima vittima alla popolazione pediatrica[4].

Le manifestazioni della sindrome sono simili a quelle della sindrome clinico-giudiziaria[5]. Ma le due sindromi divergono nettamente per la base che le produce. Nella sindrome della seconda vittima la base è la colpa. Nella sindrome clinico-giudiziaria la base è la rabbia, per il senso di profonda ingiustizia che può provare il medico quando ha notizia di essere sottoposto a procedimento giudiziario, in particolar modo penale: qui l’errore viene soggettivamente negato, anche nei casi in cui è oggettivamente presente.

Oltre al medico, anche ad altri professionisti sanitari possono diventare seconde vittime[6]. Ad esempio, l’infermiere che trasfonde al paziente sacche di sangue di gruppo non compatibile. Fra l’altro, agli infermieri va espressa infinita gratitudine, perché spesso sono loro che intercettano l’errore prescrittivo del medico, evitando così l’evento avverso. Ad esempio, è annotata in cartella l’allergia a un principio attivo o a un eccipiente: non sfugge all’infermiere e lo fa presente al medico, che spalanca gli occhi e aggiusta il tiro prescrittivo.

La sindrome è di elevata prevalenza. Le statistiche sull’incidenza del fenomeno[7] variano dal 10 al 43%.

Molte seconde vittime vivono il profondo disagio emotivo tenendo l’errore dentro di sé e affrontando il problema in solitudine. Questo vale soprattutto per il sesso maschile, anche se la sindrome predilige il sesso femminile, che però nutre maggiore motivazione a discutere dell’errore[8]. All’isolamento emotivo si accompagna spesso la medicina difensiva, con ricaduta delle conseguenze anche sui pazienti e sul Servizio Sanitario. Ad esempio, evitando con altri pazienti situazioni simili a quelle dell’evento avverso: c.d. medicina difensiva per difetto. O prescrivendo esami e/o terapie inutili: c.d. medicina difensiva per eccesso.

Ma ci sono seconde vittime che invece vanno avanti e vivono degnamente. Fanno ricordare le parole di Alessandro Baricco, nel romanzo “Seta”, con riguardo al protagonista: «Poiché la disperazione era un eccesso che non gli apparteneva, si chinò su quanto era rimasto della sua vita e riiniziò a prendersene cura, con l’incrollabile tenacia di un giardiniere al lavoro, il mattino dopo il temporale».

 

3. Che cosa si fa a sostegno della seconda vittima? Un generale dato indiscusso in letteratura e che il tempo è fattore importante, come del resto un po’ per tutte le sindromi: più è rapida l’azione di supporto e più la stessa è efficace. C’è quindi necessità di un primo soccorso emotivo[9].

Dato che le seconde vittime sono tante e gli effetti sono indesiderati, esiste una Raccomandazione del Ministero della Salute per attivare azioni di sostegno per gli operatori sanitari coinvolti in un evento avverso[10]. Obiettivo della Raccomandazione è garantire sostegno psicologico e relazionale alle seconde vittime, facendo sì che l’evento avverso non sia motivo di disaffezione al lavoro, ma costituisca fonte di apprendimento, con mantenimento della fiducia reciproca fra gli operatori sanitari interessati.

La raccomandazione pone l’obbligo della sua implementazione da parte delle Strutture Sanitarie, mediante apposite procedure, che devono vedere coinvolto non solo il singolo operatore, ma anche l’intera equipe assistenziale.

A fronte di un evento avverso, una struttura sanitaria con un’organizzazione solida ed efficiente risponde ovviamente non solo con il supporto alle prime vittime, ma anche alle seconde. Alla risposta “non succederà più” deve seguire effettivamente un’azione costruttiva perché non succeda più. La struttura dovrebbe considerare anche il contesto ambientale, evitando quegli audit nei quali si cerca un capro espiatorio e che lasciano quindi in ombra appunto il contesto ambientale nella genesi dell’errore, soprattutto le dotazioni della struttura.

È frequente l’invito dei professionisti sanitari alla giurisprudenza a tenere in debito conto le carenze strutturali[11]. E ciò avviene in generale. Emblematico è il noto caso della vinblastina[12]. Ad una paziente affetta da un tumore liquido, devono essere somministrati 9 mg. di vinblastina. Nel foglio di prescrizione viene erroneamente indicato un dosaggio di 90 mg., con sottoscrizione di uno specializzando e di un medico oncologo, volontario interno al reparto. Avviene la somministrazione di 90 mg. e la paziente viene persa. I due medici vengono dichiarati penalmente responsabili, ma la pena comminata viene ritenuta eccessiva in Cassazione, per la grave disorganizzazione del reparto, nel quale non si trattavano tumori liquidi ma solidi, per l’assenza di controlli, di procedimentalizzazione effettiva. Viene quindi imposto ad altri giudici un nuovo giudizio, a conclusione del caso la pena originariamente comminata ne esce marcatamente ridimensionata[13].

Nella letteratura d’oltreoceano, si è creato un vero e proprio corpus dei diritti della seconda vittima, riassunti nell’acronimo TRUST: Treatment, Respect, Understanding, Support, Transparency.

Esiste un’organizzazione non-profit MITSS (Medically Induced Trauma Support Service), che ha lo scopo di supportare la guarigione e ridare speranza.

Esistono anche programmi on line quali il MISE (Mitigating Impact in Second Victims).

 

4. Che cosa possiamo fare noi? La seconda vittima sente imbarazzo o addirittura vergogna a riferire il suo vissuto. Sente quantomeno resistenza interiore. Quindi ben difficilmente ne parla durante un processo penale.

Ma ne può parlare inaspettatamente, in qualunque occasione. Ricordo, ad esempio, che avevo appena finito la mia relazione a un convegno e durante il coffee break pomeridiano un medico si avvicinò e mi disse che voleva parlarmi. Al mio invito a farlo, iniziò con un tono di voce che non dimenticherò mai: “Non so neanch’io come abbia potuto fare una cosa del genere. Non credo che esista al mondo un medico peggiore di me!”.

La categoria professionale più esposta a queste confidenze è quella degli avvocati, dato il loro ruolo e il necessario colloquio informale con il personale sanitario.

Che cosa fare?

Vediamo prima che cosa non fare. Andrebbero evitati i luoghi comuni quali: “Bisogna essere forte, bisogna reagire!” o simili corbellerie. Sono cose che la seconda vittima si è detta tante volte senza successo e sentirsele dire da un altro solo rinforza il suo senso d’impotenza a reagire.

Si può invece ringraziare per quanto detto e apprezzarlo, perché chi nega i propri errori è condannato a ripeterli e condanna anche qualcun altro innocente a subirli ancora.

C’è poi da tenere presente che la Raccomandazione Ministeriale punta molto su un aiuto tecnico-professionale da parte dei colleghi della seconda vittima e quindi primo pensiero dovrebbe essere quello di capire se è già stato dato o no un tale aiuto. La seconda vittima ci potrà dire che altri colleghi possono vedere la richiesta di aiuto come un segno di debolezza, di vulnerabilità. Il che però può essere dovuto solo alle sue resistenze o alla mancata individuazione di una figura professionale empatica.

Possiamo poi attingere al nostro bagaglio culturale di penalisti. In questa prospettiva, una delle ragioni per le quali la seconda vittima soffre è perché si concentra di più sul danno al paziente che non sulla sua condotta. Possiamo aiutarla a spostare il focus dell’attenzione dal danno alla condotta. Questo porta a vedere più chiaramente l’errore e può aprire vie d’uscita come una roncola in un ginepraio, può far vedere porte dove prima si vedevano solo muri. Può quindi emergere che il danno è stato grave, ma l’errore non è stato poi così grave, perché è ovvio che ci sono errori lievi con danni gravi ed errori gravi con danni lievi o addirittura senza danno.

Possono poi emergere anche altri fattori causali, ambientali e personali, da noi penalmente apprezzabili e laicamente spiegabili, che possono portare la seconda vittima alla conclusione: Non è solo colpa mia!. Inoltre lo spostamento del focus dell’attenzione dal danno alla condotta può alleggerire la seconda vittima, perché la colloca nella prospettiva costruttiva di apprendimento dall’errore. Non può più cambiare il passato per quanto forti siano i suoi sensi di colpa, mentre il futuro è nelle sue mani e può immaginarlo e crearlo senza lo stesso errore.

La concentrazione sul danno porta la seconda vittima anche a dimenticare qualcosa per noi molto familiare: il nesso causale fra la condotta e l’evento. La domanda: ha commesso o no un errore? è la diastole di qualsiasi giudizio di responsabilità. Poi c’è però la sistole e cioè la domanda: se non avesse commesso un errore, le cose sarebbero cambiate? Ad es., un ritardo diagnostico innegabile, “cantato” e tuttavia riguardante una neoplasia molto aggressiva per organo e stadiazione. L’inefficacia salvifica di una tempestiva diagnosi esclude la responsabilità. Può il cuore funzionare senza diastole e sistole?

Possiamo poi cogliere le virtualità espansive della giustizia riparativa (artt. 53 e ss. d. lgs. 150/2022), non limitata agli effetti sulla prima vittima. Infatti, come condivisibilmente rilevato in dottrina “Anche gli autori di reato avvertono talora l’esigenza di incontrare le vittime, di confrontarsi con loro, di chiedere perdono o comunque di fornire spiegazioni cercando, se possibile, di dare un senso alle loro azioni[14].

Certo, siamo penalisti, ma prima ancora siamo esseri umani, come lo è il medico e quindi possiamo parlare come un collega in umanità.

E allora che valga il vero, come siamo abituati a dire e sentire.

Il trauma non è prodotto dall’evento. È una risposta del medico all’evento. Come diceva San Bernardo “Solo io posso farmi del male”. Certamente, errare è umano e soffrire per l’errore è altrettanto umano. Ma è anche certo che possa essere data una risposta diversa all’evento, affrontando quella che diversi studi dimostrano come la sfida maggiore per la seconda vittima e cioè perdonare sé stessa[15].

Non c’è errore, per quanto grave sia, che non possa essere perdonato. Anche se l’errore è un orrore.  Anche se l’errore ha causato la perdita di un intero reparto di neonatologia.

Non è in discussione un uomo, una donna, un professionista, è in discussione solo un suo comportamento. E questo appare nitidissimo per noi: nel processo penale si giudica un errore medico, non un medico.

A fronte di un errore medico, ci sono un’infinità di condotte corrette, che devono entrare nel bilancio complessivo. E del resto l’errore condivide con la condotta corretta qualcosa di molto importante: è mosso anch’esso da buone intenzioni. Il contesto di base è lecito[16], anzi super lecito.

Un medico è un bravo medico non perché non sbaglia mai, non perché è infallibile, ma perché è affidabile, perché dà garanzia del suo massimo impegno. Non è l’infallibilità, ma è l’affidabilità ciò che può essere umanamente preteso. Non si può pretendere un superuomo, senza che prima sia semplicemente un uomo. Una superdonna, senza che prima sia semplicemente una donna. Non si può pretendere il super e rifiutare l’umano, con la sua ineliminabile componente di fallibilità. Non c’è umanità senza fallibilità.

Siamo al mondo per essere veri, non per essere perfetti”, come scrisse Erich Linder.

E come in conclusione ci ricorda l’aneddoto del muretto a secco, realmente accaduto a metà degli anni Ottanta[17]. Ad un monaco era stato chiesto dal capo di una congregazione buddista di costruire un muretto a secco a ridosso del convento. Il monaco costruì con pazienza il muretto utilizzando circa mille pietre. Una volta finito lo osservò con attenzione e notò due pietre messe male, che però non influivano per nulla sulla stabilità del muretto, comunque garantita dalle restanti 998 pietre messe bene. Preso dalla rabbia, voleva rifare il muretto. Ma il capo della congregazione lo fermò: “Assolutamente no!”. Il tempo passava e il monaco continuava a vedere in quel muretto quelle due pietre messe male e non riusciva a sopportarlo. Un giorno venne un visitatore e a fine visita fece i complimenti per il muretto. Il monaco gli disse che forse aveva dimenticato gli occhiali in macchina, dato che non aveva visto quelle due pietre messe male. Il visitatore disse di averle viste, ma di avere visto anche le restanti 998 messe davvero bene…

Proporrei di raccontare questo aneddoto a una seconda vittima. E proporrei di raccontarlo anche a noi stessi, come iniezione di autostima, quando ci colpevolizziamo. Chissà quante cose fatte davvero bene sono parte del nostro passato… chissà quante pietre abbiamo messo bene a sostegno della nostra e altrui vita.

 

 

[1] A. Wu, Medical error: the second victim. The doctor who makes the mistake needs help too, BMJ, 2000, 320

[2] S. Scott, The Second Victim Phenomenon: A Harsh Reality of Health Care Professions, Patient Safety Network, May 1, 2011

[3] O. Ozeke, Second victims in health care: current perspectives, in Adv Med Educ Pract, 12 agosto 19

[4] S. Scott, The Second Victim Phenomenon, cit.

[5] Per ulteriori considerazioni sulla sindrome clinico-giudiziaria, P. Piras, La riforma Cartabia per prevenire la 'sindrome clinico-giudiziaria'. A proposito d’indizi e d’iscrizione nel registro degli indagati, in questa Rivista, 8 febbraio 2023.

[6] In una prospettiva prettamente infermieristica: F. Ognibene, Errore di terapia, sei la seconda vittima? in InfermieriAttivi.it, 14 agosto 2018.

[7] M. Panella e altri, Le seconde vittime in Sanità: una revisione sistematica di letteratura, in Igiene e Sanità Pubblica. Parte Scientifica e Pratica, 2014, 9, 14.

[8] M. Panella e altri, Le seconde vittime in Sanità, cit., 18.

[9] M. Salvato, Rischio clinico e seconde vittime in sanità, Nurse24+it, 29.08.19.

[10] Per il testo della raccomandazione, alle pag. 33 e ss., clicca qui

[11] M. Alaimo, Rischio clinico e sicurezza del paziente, Nurse24+it, 30.10.19, L’attenzione della giurisprudenza deve spostarsi sul contesto in cui il professionista opera, evidenziandone le criticità, le condizioni che hanno portato all’errore

[12] Cass. Sez. IV, 20270-19, Bongiovanni, e. Nardin, p. Piccialli

[13] Cass. Sez. III, 38354-22, Bongiovanni, e. Palmieri, p. Ramacci

[14] G.L. Gatta, La giustizia riparativa: una sfida del nostro tempo, in questa Rivista, 28 ottobre 2024.

[15] M. Panella e altri, Le seconde vittime in Sanità, cit., 20

[16] In argomento, G. Demuro, Homo eiusdem professionis et condicionis, in Enc. del diritto, I tematici, Il reato colposo, Giuffrè, 2021, 617

[17] Raccontato dal protagonista A. Brahm, Die Kuh die weinte, Lotos, 2015, cap. I, Perfektion und Schuldgefuele, Zwei mangelhafte Backsteine, 21