Corte cost., 9 luglio - 31 luglio 2020, n. 190, Pres. Cartabia, Rel. Zanon
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Diamo sintetica notizia, in attesa di eventuale commento critico, d’una sentenza della Corte costituzionale che concerne specificamente il delitto di rapina impropria, ma riguarda anche, più in generale, le politiche di inasprimento della pressione sanzionatoria per talune categorie di reati, cui il legislatore collega un allarme sociale particolarmente elevato.
La decisione si iscrive quindi in una sequenza, particolarmente vivace negli ultimi anni, di provvedimenti indotti dalla sollecitazione dei giudici comuni a sindacare le scelte punitive del Parlamento, in un’epoca che – secondo molti – si caratterizza per la forte incidenza del cosiddetto populismo penale.
Non è un caso che le questioni sollevate abbiano riguardato, nella specie, proprio il delitto previsto dal secondo comma dell’art. 628 c.p., dopo circa novant’anni durante i quali la previsione concernente la rapina impropria, e la scelta legislativa di equipararne il trattamento a quello della rapina propria, non avevano suscitato particolari controversie, se non qualche rilievo critico a livello dottrinale.
Il fatto è che le pene per la rapina (tanto propria che impropria) sono state due volte elevate nel giro di due anni. A monte della cosiddetta legge Orlando, i valori edittali consistevano nella reclusione da tre a dieci anni, oltre che in una multa compresa tra i 516 ed i 2.065 euro. Dopo la citata legge 23 giugno 2017, n. 103 (art. 1, comma 8, lett. a), la previsione di pena è passata a quattro anni per il minimo (invariato il massimo) della specie detentiva, ed alla multa da euro 927 a euro 2.500. Infine, la legge 26 aprile 2019, n. 36 (art. 6, comma 1, lett. a), ha elevato il solo minimo edittale per la reclusione, portandolo a cinque anni.
Insomma, valori minimi molto elevati, spesso (secondo una diffusa opinione) palesemente sproporzionati nel caso di episodi di contenuta gravità. Ed è comprensibile che le perplessità dei giudici comuni si siano manifestate in primo (ma non necessariamente ultimo) luogo riguardo alla rapina impropria, che – come si vedrà tra breve in dettaglio – viene spesso considerata una forma di reato meno grave, sul piano oggettivo e su quello soggettivo, della fattispecie più tipica della rapina stessa, come regolata dal primo comma dell’art. 628 c.p.
1. La norma censurata.
La sentenza in commento definisce tre giudizi di legittimità costituzionale, tutti introdotti dal Tribunale di Torino (in due casi dallo stesso Giudice) e tutti concernenti, come anticipato, il secondo comma dell’art. 628 c.p.
Si tratta appunto della cosiddetta rapina impropria, che la norma definisce riferendosi alla condotta di chi, avendo sottratto la cosa mobile altrui senza minaccia o violenza personale (e dunque, in sostanza, avendo commesso un furto), immediatamente dopo «adopera violenza o minaccia […] per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità».
Ora, sulla rapina la produzione dottrinale e giurisprudenziale è praticamente sterminata, e non immune da contrasti o distonie. Ai limitati fini del presente commento vanno semplicemente evocati alcuni profili essenziali della materia, così come emergono nell’opinione dominante o prevalente.
Spesso anzitutto viene prospettata una simmetria tra la fattispecie della rapina propria e quella della rapina impropria, nel senso che le due figure di reato sarebbero “composte” dagli stessi elementi (violenza o minaccia e sottrazione della cosa mobile altrui) a parti invertite: nel primo caso l’azione contro la persona sarebbe strumentale alla sottrazione, e quindi antecedente, mentre nel secondo caso farebbe seguito alla sottrazione, già realizzata altrimenti, e servirebbe “solo” ad assicurare il possesso della cosa o l’impunità. Il rilievo, per quanto assai frequente, specie quando si tratta di giustificare la parità del trattamento sanzionatorio tra le due fattispecie, non è del tutto preciso. Per la consumazione della rapina propria sono necessari tanto la sottrazione che l’impossessamento, occorre cioè che venga distrutta la posizione possessoria della vittima e ne venga instaurata una, autonoma ed indisturbata, a favore del soggetto agente (il quale, a mente del primo comma dell’art. 628 c.p., «mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene»). La rapina impropria, secondo l’opinione prevalente, è invece consumata già con la sottrazione della cosa, non essendo necessario che si consolidi un nuovo possesso in capo all’agente, il quale anzi fa ricorso alla minaccia od alla violenza proprio per neutralizzare l’azione di disturbo della vittima o di terzi. La coincidenza tra elementi costitutivi, in altre parole, non è perfetta.
Seconda osservazione preliminare. Affinché un’azione violenta o minacciosa dia vita alla rapina impropria, occorre che prenda vita contestualmente alla spoliazione patrimoniale. È perfettamente concepibile – a differenza di quanto non sia per la rapina propria – che manchi una siffatta contestualità: si pensi al caso della vittima che, incontrando giorni dopo un furto una persona in possesso della cosa sottrattale, cerchi di recuperarla, e venga contrastata appunto mediante minaccia o con il ricorso alla violenza personale. In questi casi, com’è noto, si darà semplicemente vita ad un concorso di reati (una delle attuali fattispecie di furto, e in aggiunta, a seconda del fatto concreto, minaccia, violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, ecc.). È la contestualità, che invera il carattere violento dell’aggressione patrimoniale, a qualificare il fatto come rapina impropria. Tale connotato si trova fissato nella norma incriminatrice (in evidente rapporto di specialità con le fattispecie appena evocate, secondo lo schema del reato complesso) mediante il ricorso all’avverbio “immediatamente”, che segna la successione necessaria tra sottrazione e condotta rivolta contro la persona.
Anche riguardo al significato di questa espressione – che discrimina appunto tra furto con reati connessi e rapina impropria – esiste una produzione giurisprudenziale molto nutrita, e non del tutto immune da qualche differenza di accenti. Tuttavia la giurisprudenza (a differenza per vero di quanto non sia per la dottrina) è granitica nell’affermare che la nozione di immediatezza va ricostruita in termini analoghi a quelli della “quasi flagranza” ben nota al diritto processuale penale, che vale per inciso a legittimare provvedimenti di compressione della libertà personale a prescindere dalla previa deliberazione giudiziale. Nel codice di rito vigente, la definizione del concetto è affidata all’art. 382: «è in stato di flagranza chi […] subito dopo il reato, è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima». È appena il caso di evidenziare l’assonanza letterale, oltre che concettuale, del riferimento alla immediatezza, che nella figura della rapina concerne l’azione contro la persona, e palesa la necessità che la sottrazione sia avvenuta “immediatamente” prima.
Per inciso, le preoccupazioni dottrinali circa un effetto di impropria estensione della fattispecie incriminatrice, in ragione della pretesa larghezza nel riconoscimento della quasi flagranza in situazioni di discutibile immediatezza, sembrano eccessive, considerando come la Corte di cassazione, a Sezioni unite, abbia chiarito che almeno le tracce del reato, se non addirittura lo stesso fatto criminoso, devono essere oggetto di percezione diretta, in quanto tali, da parte di chi effettua l’arresto. Il che, naturalmente, torna a dare concretezza alla condizione di sostanziale contestualità evocata dai riferimenti cronologici (Cass., Sez. un., sent. 24 novembre 2015 - dep. 21 settembre 2016, n. 39131).
2. I parametri costituzionali e le censure.
Su questo contesto normativo – qui ovviamente semplificato – si sono innestate le questioni di legittimità proposte dai magistrati torinesi.
L’idea centrale che le caratterizza presenta una logica prettamente comparativa, che solo indirettamente ha condotto a contestare in radice la proporzionalità dell’attuale valore minimo della pena edittale prevista dalla legge. Si assume, in particolare, che la rapina impropria sarebbe un reato meno grave della rapina propria. Ciò sul piano obiettivo, perché la prima si consuma in una fase più arretrata della lesione patrimoniale, non richiedendo l’impossessamento della cosa mobile da parte dell’agente (supra). Ciò anche, e soprattutto, sul piano soggettivo: l’autore di una rapina propria deliberatamente programma il ricorso alla violenza personale od alla minaccia per l’appropriazione della cosa mobile altrui, palesando una particolare determinazione criminale ed una spiccata intensità di dolo; al contrario, nella rapina impropria, l’appropriazione è perseguita come fatto non violento, e solo in base a circostanze particolari l’agente si determina alla violenza od alla minaccia, spesso per un fine considerato meno riprovevole dell’arricchimento illecito, cioè quello di conservare la libertà personale (desiderio non certo giustiziabile, ma in qualche misura “comprensibile”).
La parificazione del trattamento sanzionatorio tra le due ipotesi, nonostante le differenze indicate, violerebbe anzitutto il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). La trama delle tre ordinanze, soprattutto per il relativo intrecciarsi, risulta piuttosto complessa, ma la Consulta ne ha tratta una efficace sintesi, che evidenzia tre distinti profili di violazione del parametro costituzionale:
a) Il primo profilo si fonda, in sostanza, sui rilievi già illustrati circa la diversa capacità criminale asseritamente espressa dagli autori delle due condotte in comparazione.
b) Il secondo profilo, sempre costruito sulla comparazione tra rapina propria e impropria, riguarda la soglia prevista per la consumazione del reato, più arretrata per la rapina impropria, la quale dunque implicherebbe una lesione asseritamente meno grave del bene oggetto della tutela.
c) Terzo profilo. Le differenze indicate imporrebbero di diversificare il trattamento sanzionatorio per le due forme di rapina, diminuendo la pena per quella impropria. La quale, per altro, presenterebbe profili risolutivi di analogia con le fattispecie di furto seguite da violenza o minaccia al fine di assicurare il possesso o l’impunità, e dovrebbe quindi essere punita allo stesso modo. L’elemento differenziale che dovrebbe legittimare la maggior severità, cioè quel requisito di contestualità della condotta contro il patrimonio e di quella contro la persona che si fonda sulla immediatezza nella relativa successione, secondo i rimettenti sarebbe invece indifferente, o comunque inadeguato a giustificare la discriminazione. Non cambiano le condotte materiali, né cambiano i relativi profili soggettivi, nel finalismo e nell’oggetto del dolo. D’altra parte, il requisito di immediatezza sarebbe sostanzialmente equivoco ed indeterminato, e la sua neutralizzazione, sul piano della pena, assicurerebbe anche una sorta di vantaggio aggiuntivo, nella prospettiva dei principi di determinatezza e tassatività.
Così stando le cose – sempre a parere dei giudici a quibus – il rimedio utile a dissolvere tutte violazioni del principio di uguaglianza (e quelle degli altri parametri, sui quali si tornerà tra breve) consisterebbe nella radicale ablazione della fattispecie incriminatrice di cui al secondo comma dell’art. 628 c.p., e dunque della figura di rapina impropria.
L’operazione non implicherebbe com’è ovvio l’impunità delle condotte attualmente sanzionate dalla norma. In mancanza di essa, i furti seguiti (ancorché immediatamente) da violenza o minaccia sarebbero puniti esattamente come tali (cioè applicando una delle figure di cui agli artt. 624 e 624-bis c.p., con le eventuali aggravanti ex art. 625 c.p., e poi la fattispecie di minaccia, o di violenza privata, o di resistenza a pubblico ufficiale, ecc.): dunque sarebbero puniti meno gravemente della rapina (con pene più o meno differenziate a seconda delle fattispecie da applicare) ed in misura corrispondente a quella delle ipotesi non connotate da immediatezza.
Ecco dunque chiarito il petitum dei rimettenti: una ablazione “secca” della fattispecie incriminatrice per eliminarne i valori di pena asseritamente sproporzionati, e per determinare la riespansione delle figure “componenti”, con conseguente applicazione di sanzioni più miti, e corrispondenti a quelle previste per fatti analoghi. Una soluzione, indubbiamente ingegnosa, utile anche a liberare i rimettenti dai vincoli troppo stringenti del ragionamento triadico che la Consulta (almeno fino a tempi recenti) pretendeva per intervenire direttamente su singole previsioni edittali, ed a reperire nell’ordinamento quelle grandezze di riferimento che restano comunque necessarie per il sindacato di proporzionalità delle scelte sanzionatorie.
Le questioni si collocano dunque a cavallo tra una violazione del principio di uguaglianza formale e una critica in punto di intrinseca proporzionalità della pena. La censura in punto di proporzionalità, com’è noto, viene ordinariamente costruita (ed è costruita anche nella specie) sui principi di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.), ed accompagnata da riferimenti al principio di offensività (che richiede livelli sanzionatori adeguati all’importanza dell’offesa recata al bene giuridico, art. 25, secondo comma, Cost.) ed al principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena (le sanzioni sproporzionate sono prive di efficacia nella prospettiva della risocializzazione, art. 27, terzo comma, Cost.). Da questi parametri, ormai da tempo, la giurisprudenza costituzionale ha ricavato appunto l’immanenza a Costituzione del principio di proporzionalità.
È noto poi come tale ultimo principio abbia trovato enunciazione formale nell’art. 49 della cosiddetta Carta di Nizza, parametro interposto che viene dunque evocato sempre più spesso (com’è avvenuto per la più recente delle tre ordinanze torinesi) attraverso la denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione.
3. La risposta della Corte.
Come anticipato, la Consulta ha considerato infondate le questioni proposte dai giudici rimettenti, affrontando il merito delle analogie e delle dissimetrie che segnerebbero la rapina impropria, rispettivamente, nel rapporto con le varie figure di furto e con l’ipotesi della rapina propria.
In via preliminare va data per altro notizia di una parziale dichiarazione di inammissibilità, che concerne il parametro sovranazionale, e che in effetti richiama l’attenzione su un aspetto della Carta di Nizza non sempre considerato a sufficienza nei discorsi ormai correnti sul principio di proporzionalità. È vero che la Carta, al terzo paragrafo dell’art. 49, enuncia in termini del tutto generali che «le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato». Tuttavia la norma, come tutte le altre, si applica agli «Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (paragrafo 1 dell’art. 51). Si applica cioè, secondo la formula fissata dalla Consulta nella prima sentenza “guida” in questa complessa materia, a condizione che «la fattispecie sottoposta all'esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo - in quanto inerente ad atti dell'Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell'Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell'Unione - e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto» (sentenza 80 del 2011).
Ora, è giurisprudenza pacifica quella che attribuisce al giudice rimettente l’onere di indicare le ragioni di non manifesta infondatezza della questione sollevata, il che comporta anche l’onere di specificare, con maggiore o minore diffusione a seconda del caso, quale sia la regola di rango costituzionale asseritamente violata e perché la stessa sarebbe posta dalla fonte sovraordinata. Portata sul terreno delle singole norme della Carta europea dei diritti fondamentali, una disciplina siffatta impone di specificare perché la regola invocata (nella specie l’art. 49, ma ve ne sono ovviamente molte altre) sarebbe applicabile alla normativa oggetto di censura. Il che vuol dire ulteriormente – secondo la Consulta – che sarebbe necessario spiegare perché le disposizioni di volta in volta censurate sarebbero inerenti al diritto dell’Unione od alla sua attuazione.
In effetti già altre volte, di recente, la Corte ha dichiarato o comunque considerato inammissibili questioni sollevate senza motivazione sul punto (sentenze n. 279 del 2019, n. 37 del 2019, n. 194 del 2018, n. 111 del 2017, n. 63 del 2016). Poiché anche nella specie il rimettente non ha affrontato esplicitamente il tema, né la pertinenza delle norme penali sulla rapina al diritto comunitario appare immediata ed intuitiva, la Consulta ha per l’appunto deciso di considerare inammissibile la questione sollevata in rapporto all’art. 117, primo comma, Cost.
È ora poi di venire al merito delle pretese lesioni dei principi di uguaglianza e ragionevolezza.
Si ricorderà come, nel complesso, i rimettenti avessero indicato tre profili essenziali, e su ciascuno di essi gli argomenti dei rimettenti sono stati confutati. Conviene seguire la stessa schematizzazione.
a) Non è vero che il ricorso alla violenza o minaccia sia sempre preordinato nella rapina propria ed estemporaneo in quella impropria. Fermo restando che in entrambe le fattispecie la condotta deve essere integralmente sostenuta dal dolo, avviene spesso che degeneri in rapina propria un’aggressione patrimoniale concepita come furto (basti pensare al caso del furto con strappo che registra una violenza sulla persona per la resistenza opposta dalla vittima o addirittura per la particolare resistenza della cosa mobile da strappare). Nel contempo, una condotta violenta o minacciosa dopo la sottrazione mediante furto può essere tranquillamente programmata, così da integrare una rapina impropria progettata con intensa determinazione criminale (come nel caso che sia prevista l’istituzione di posti di blocco sulla via di fuga dal luogo del furto).
b) Se è vero che la rapina impropria può consumarsi senza l’instaurazione di una piena situazione possessoria in favore dell’agente, non è vero che tale circostanza, quand’anche verificatasi nel caso concreto (il che non è detto), abbia rilievo tale da imporre una diversificazione del trattamento rispetto alla rapina propria. Ciò che conta è la contestualità di una condotta violenta o minacciosa rispetto all’aggressione patrimoniale, che qualifica quest’ultima come violenta, appunto, e la rende più grave del furto “comune” esaurito dall’impossessamento senza violenza personale. Prova ne sia – osserva la Consulta – che il conseguimento “definitivo” del possesso nella rapina impropria, pur trovando probabilmente riscontro nello scorrimento del cursore tra il massimo ed il minimo della pena edittale, non comporta la variazione della stessa pena edittale, a dimostrazione del fatto che il disvalore della condotta si concentra proprio sulla relazione di contestualità e di strumentalità tra violenza personale e lesione patrimoniale.
c) Per ragioni già in parte emerse, non può condividersi neppure l’idea che il connotato di immediatezza, in assenza del quale ciascun episodio è già qualificato come furto seguito da altra condotta illecita, sia irrilevante a fini di giustificazione d’un trattamento parificato a quello della rapina propria. Ciò che rende l’aggressione particolarmente pericolosa sul piano obiettivo (ed anche spaventosa per la vittima) è proprio l’abbinamento tra le due lesioni, che caratterizza anche la rapina propria. Premesso poi che il requisito di immediatezza non è affatto indeterminato (si veda il paragrafo che precede), la Corte osserva come, non causalmente, la rilevanza dei suoi effetti si manifesti in molteplici direzioni. Esso ad esempio giustifica l’arresto in flagranza, non sempre possibile per i fatti di furto, e soprattutto attiva il diritto alla legittima difesa, che non a caso viene meno una volta interrotta l’indicata contestualità.
Insomma, quando oltretutto si consideri che in questa materia il criterio di sindacato spettante alla Consulta non è quello della preferibilità di una soluzione, e neppure quello della minor ragionevolezza, dovendo invece pervenirsi al giudizio di irragionevolezza manifesta della scelta legislativa, l’esito delle questioni non può sorprendere. E può aggiungersi molto in breve, a questo punto, che, in una prospettiva critica complessivamente fondata su di una logica comparativa, l’esito appena illustrato non poteva che riflettersi anche nella valutazione concernente i parametri dell’offensività e della finalizzazione rieducativa della pena.
Piuttosto, conviene da ultimo segnalare il breve ma denso apprezzamento con il quale la Consulta ha voluto chiudere la propria esposizione, manifestando una opinione critica circa la tendenza legislativa al progressivo inasprimento delle sanzioni penali per determinate classi di reati, non immune dal riferimento alla correlazione (evidentemente imperfetta) tra gerarchia costituzionale dei beni e livelli di protezione assicurati dalle attuali politiche sanzionatorie: «la pressione punitiva attualmente esercitata riguardo ai delitti contro il patrimonio è ormai diventata estremamente rilevante. Essa richiede perciò attenta considerazione da parte del legislatore, alla luce di una valutazione, complessiva e comparativa, dei beni giuridici tutelati dal diritto penale e del livello di protezione loro assicurato».
Non proprio un monito, come si vede, ma certo la prova che le preoccupazioni espresse dai giudici rimettenti non sono certo arbitrarie.