Cass., Sez. II, 7 novembre 2019 (dep. 10 aprile 2020), n. 11959, Pres. Cammino, rel. Di Paola, ric. Carluccini
1. Con la sentenza in commento[1], la Corte di Cassazione ha ritenuto che i file sono riconducibili al concetto di cosa mobile, oggetto di appropriazione indebita. Questi i fatti oggetto della sentenza. L'imputato, al momento delle dimissioni dall'azienda per la quale lavorava, aveva copiato i dati presenti sul notebook aziendale, a lui affidato nel corso del rapporto di lavoro, sul proprio personal computer, successivamente cancellando dal notebook i file all'interno dei quali i dati erano originariamente contenuti.
La Corte d'Appello lo aveva ritenuto responsabile di appropriazione indebita (646 c.p.), mentre lo aveva assolto in ordine al delitto di cui all'art. 635 quater c.p. (danneggiamento di sistemi informatici o telematici), in quanto, mancando la prova del contenuto dei dati, dei programmi e delle informazioni, era impossibile affermare che la loro cancellazione avesse danneggiato il sistema informatico.
Avverso la decisione ricorrevano sia la difesa dell'imputato sia quella della parte civile: la prima rilevando violazione di legge in riferimento all'art. 646 c.p., sul presupposto che i file non sarebbero suscettibili di appropriazione indebita, non potendo essere qualificati come "cose mobili"; la seconda lamentando che la Corte territoriale non aveva tenuto conto del fatto che la cancellazione dei messaggi di posta elettronica aveva compromesso il funzionamento del sistema e interrotto la procedura di back up.
Con la decisione in commento, la Corte di cassazione rigetta il ricorso dell'imputato e conferma la condanna per il reato di cui all'art. 646 c.p., ritenendo che i file sono riconducibili al concetto di "cosa mobile" oggetto di appropriazione indebita. Accoglie invece il ricorso della parte civile, riconoscendo che la Corte d'Appello non ha adeguatamente motivato in ordine alla inidoneità della cancellazione delle email a provocare il malfunzionamento del sistema, né in ordine alla sospetta concomitanza temporale tra le dimissioni dell'imputato e l'arresto della procedura di back up.
2. La questione di diritto più interessante è indubbiamente quella sollevata dalla difesa dell'imputato, ovvero la riconducibilità del dato al concetto di "cosa mobile" oggetto del delitto di appropriazione indebita. La censura sollevata dalla parte civile, invece, attiene soltanto al difetto di motivazione, e infatti la sentenza la risolve in poche righe. Si può nondimeno cogliere l'occasione per sollecitare fin d'ora il lettore a un confronto fra le norme tradizionalmente poste a tutela del patrimonio (furto e appropriazione indebita in primis) e le nuove disposizioni sul danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici (635 bis) e di sistemi informatici o telematici (635 quater). Le due classi di disposizioni si differenziano quanto al loro oggetto: le prime sanzionano lo spossessamento della cosa mobile altrui, a cui l'art. 624, c. 2 c.p. equipara l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico; le seconde hanno ad oggetto i dati, la cui distruzione rileva ex se (635 bis) o in quanto abbia reso inservibile un sistema informatico o telematico (635 quater). L'introduzione delle nuove norme a tutela del patrimonio informatico si deve alla volontà di porre fine alla questione se il danneggiamento di software fosse o meno punibile in base all'art. 635 c.p.[2] Alle norme sul danneggiamento informatico si affianca l'art. 615 ter c.p. (accesso abusivo a un sistema informatico o telematico), che configura una fattispecie posta a tutela del domicilio virtuale, costruita sulla falsariga dell'art. 614 c.p.[3] Manca, invece, una norma ad hoc che sanzioni l'impossessamento o la sottrazione di file altrui; di qui il tentativo di sussumere condotte di questo tipo entro le tradizionali fattispecie dei reati contro il patrimonio.
3. Il percorso argomentativo della sentenza annotata è articolato.. Richiamato l'orientamento dottrinale maggioritario, che identifica la cosa mobile con un'entità fisica suscettibile di essere materialmente appresa, e ammesso che la giurisprudenza quasi unanime esclude la riconducibilità delle condotte di sottrazione o impossessamento di file entro le fattispecie di furto e appropriazione indebita, la Corte prende le distanze dalla tradizione, e lo fa attraverso due fondamentali passaggi argomentativi: in primo luogo, si soffermasulla fisicità del file, distinguendo tra la sua attitudine a occupare uno spazio e a essere trasferita senza subire trasformazioni, da un lato, e la sua idoneità ad essere materialmente appresa, dall'altro, per poi valutare la compatibilità della soluzione proposta – che, lo si anticipa, è nel senso di riconoscere al file natura di cosa mobile, pur ammettendo che esso non possiede tutte le caratteristiche delle cose fisiche – con il principio di legalità, sub specie di tassatività e di precisione. In secondo luogo, la Corte esamina la corrispondenza tra la condotta realizzata dall'imputato e quella descritta dalla norma incriminatrice.
4. Partiamo quindi dall'interpretazione che la dottrina maggioritaria fornisce del sintagma "cosa mobile", rilevante per tutti i delitti contro il patrimonio. La Corte riconosce subito[4] che tale espressione designa ogni entità materiale idonea a soddisfare un bisogno umano [purché si tratti di] una parte del mondo esterno, avente una dimensione fisica"[5], che possa essere trasportata da un luogo all'altro[6] e sottratta al legittimo possessore. La nozione penalistica di "cosa" si differenzia quindi da quella in uso nel diritto civile (art. 810 ss.), per il fatto che la prima non include i beni immateriali (le idee, le informazioni, le opere dell'ingegno..), salvo che questi si incorporino in oggetti materiali suscettibili di sottrazione[7], e inoltre perché oggetto di appropriazione indebita possono essere anche cose originariamente immobili che vengano poi mobilizzate, divenendo asportabili[8].
5. Dopo aver ricordato il significato comunemente attribuito all'espressione "cosa mobile", la Corte ammette anche che la giurisprudenza maggioritaria esclude la riconducibilità della condotta sottrattiva o appropriativa di file alle fattispecie, rispettivamente, di furto e appropriazione indebita, e ciò per due ordini di ragioni: a) in primo luogo, la particolare natura dei file è ritenuta un ostacolo logico alla realizzazione della condotta tipica di spossessamento del legittimo detentore, la quale non avviene con la semplice copiatura dei documenti informatici; b) oggetto dei reati contro il patrimonio non possono essere beni immateriali[9], quali i crediti[10], i dati bancari[11], i disegni o i progetti industriali coperti da segreto[12], i supporti contenenti dati informatici[13]. Questo secondo punto non è peraltro incontestato: una sentenza recente[14] ha infatti ritenuto integrato il delitto di furto nel caso della cancellazione, da parte di un avvocato, di alcuni file dal server dello studio legale, previa copiatura degli stessi sul proprio pc.
6. Pur riconoscendo le ragioni di ordine testuale e di rispetto dei principi fondamentali di stretta legalità e tassatività che ispirano l'orientamento tradizionale, la Corte se ne discosta. A tal fine prende in esame, in primo luogo, la fisicità dei file; in seconda battuta, valuta la riconducibilità della condotta posta in essere a quella tipica descritta dall'art. 646.
7. Quanto alla prima questione, la Corte distingue due gruppi di caratteri che consentirebbero – se accertati – di riconoscere al file la natura di "cosa mobile": in primo luogo, esamina la questione della fisicità "in senso stretto", intesa come attitudine a occupare uno spazio e a essere trasferita senza subire trasformazioni; in un secondo momento, prende in esame la capacità del file di formare oggetto di materiale apprensione. Ci preme fin da subito rimarcare, a fronte del linguaggio non sempre preciso della Corte, che sovente utilizza i termini "file" e "dato" come sinonimi, che si tratta in realtà di entità diverse: i file sono "contenitori" di dati; questi ultimi, invece, sono informazioni, che viaggiano nello spazio virtuale utilizzando dei vettori (tra cui, appunto, i file). Quindi, le conclusioni raggiunte dalla Corte in punto di fisicità, di cui subito si dirà, potrebbero forse valere per i file, ma non sono certamente corrette per i dati.
Quanto alla fisicità "in senso stretto", la Cassazione osserva che il file è un supporto sul quale vengono immagazzinati i dati, che occupa uno spazio misurabile in bit e che può essere trasferito da un dispositivo a un altro, anche utilizzando la rete internet; si tratterebbe, quindi, di un'entità fisica, ancorché non percepibile attraverso i sensi[15].
Passando alla seconda caratteristica che i file dovrebbero possedere per poter essere a pieno titolo annoveraie tra le "cose mobili", ovvero alla loro capacità di essere "materialmente appresi", la Corte ritiene «insuperabile» l'argomento dell'assenza di tale caratteristica. L'inconfutabile impossibilità di materiale apprensione del file non conduce, tuttavia, come ci si potrebbe aspettare, a escludere che esso possa costituire oggetto di appropriazione indebita; al contrario: argomentando nel senso che la ratio dell'incriminazione è di impedire l'aggressione all'altrui patrimonio, e riconoscendo che il file è un bene dotato di valore patrimoniale, la S.C. ritiene necessario ridefinire la nozione di "cosa mobile" per meglio adattarla al mutato contesto tecnologico, ritenendo quindi che – una volta accertata la fisicità "in senso stretto" del file – sia possibile prescindere dalla sua attitudine a essere materialmente appresa[16]. Il valore patrimoniale che il file possiede consente di equipararlo a una cosa mobile, pur non essendo pienamente integrato il requisito della fisicità[17].
8. Consapevole dei dubbi che suscita l'interpretazione fornita, la Corte anticipa le obiezioni tentando di dimostrare come la nozione di "cosa mobile" non sia imprecisa, né la riconduzione del file entro il suo perimetro di significato violi il divieto di analogia in malam partem.
Quanto al primo punto, la Cassazione si limita a richiamare l'orientamento della Corte costituzionale (espresso dalla sentenza 327 del 2008 e recentemente ribadito, tra le altre da C. cost. 141 e 278 del 2019, in materia di favoreggiamento della prostituzione) secondo il quale l'utilizzo di «espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici» non comporta la violazione del principio di precisione ogniqualvolta il giudice sia comunque in grado di «esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo»[18].
Quanto al principio di tassatività, la Corte argomenta che il legislatore, con il richiamo alla nozione di "cosa mobile", avrebbe fatto rinvio ad elementi extragiuridici; il mutamento di significato di tali elementi esterni rispetto al momento storico in cui la norma fu emanata non violerebbe il principio di tassatività ogniqualvolta esso non comporti un ampliamento del perimetro applicativo della norma, rimanendo quindi immutato il disvalore della figura criminosa[19]. La nozione di "cosa mobile" sarebbe insomma definibile in base al linguaggio comune; il mutamento del significato comunemente attribuibile a quell'espressione nel tempo non avrebbe condotto a un'applicazione della norma oltre i suoi confini originari, bensì soltanto a una sua interpretazione in chiave «logico-sistematica, assiologica e per il principio dell'unità dell'ordinamento»[20].
9. Un'ultima questione affrontata dalla Corte attiene alla riconducibilità del fatto posto in essere alla condotta tipica richiesta ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 646 c.p. Un tradizionale orientamento giurisprudenziale, richiamato anche, come si è detto, dalla sentenza in commento[21], escludeva la configurabilità del reato di furto nel caso di sottrazione di file, ritenendo che la particolare natura dei documenti informatici rappresentasse un ostacolo logico rispetto alla realizzazione della tipica condotta di sottrazione: nel caso della semplice copiatura non autorizzata dei file, infatti, non si sarebbe verificato il definitivo spossessamento richiesto dalla norma. Anche ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione indebita, la cosa deve essere definitivamente sottratta alla disponibilità del legittimo possessore; come sottolinea la Corte, il definitivo spossessamento è in effetti ciò distingue l'appropriazione indebita dal furto di informazioni[22], che si verifica allorché il soggetto si procuri illegittimamente l'accesso a informazioni contenute nel dato informatico, senza che tale accesso venga correlativamente inibito al legittimo titolare[23]. Nel caso in esame – argomenta la Cassazione – alla duplicazione del file e alla acquisizione dello stesso nella disponibilità dell'imputato ha fatto seguito la cancellazione dal pc aziendale, quindi il definitivo spossessamento si sarebbe verificato; di conseguenza, la condotta realizzata corrisponderebbe a quella descritta dalla norma incriminatrice.
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10. L’interessante sentenza qui annotata si presta a nostro avviso ad alcune considerazioni critiche, sia quanto al rispetto del principio di legalità (nei suoi corollari di tassatività e precisione) sia quanto alla sussumibilità del fatto concreto posto in essere entro la condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice.
11. Quanto al principio di tassatività: la dottrina penalistica[24] riconosce la natura vaga e ambigua spesso propria dei termini impiegati nella descrizione della fattispecie legale; un dato che comporta altrettanto spesso l'impossibilità, per il giudice, di farsi bocca della legge, egli è chiamato, infatti, ad attribuire un significato alle disposizioni normative operando delle scelte, riducendo la vaghezza e sciogliendo l’ambiguità. Da ciò non deriva, però, che a una proposizione linguistica possa essere attribuito qualsiasi significato[25]: al contrario, esiste un «confine oltre il quale non è possibile ricondurre una data fattispecie particolare all'area semantica di un certo termine»[26]. Riferire la norma anche a casi che non sono riconducibili a nessuno dei suoi possibili significati letterali, spingendo l’uso della ratio oltre questi confini, significa fuoriuscire dall'interpretazione, sfociando nell'analogia[27]. Nel caso che ci occupa, una definizione di “cosa mobile” è fornita dal codice civile (art. 810 ss.), ma essa, come si diceva, opera in quel settore dell'ordinamento. Il significato attribuibile a tale espressione rinvia, ai fini penali, a un bene materiale, tangibile, percepibile attraverso i sensi; non sarebbe, a rigore, "cosa mobile", come ammette la stessa sentenza, ciò che non può essere "materialmente appreso". Estendere la portata dell'espressione fino a includervi qualcosa che esiste solo nel mondo virtuale travalica i possibili significati penalmente rilevanti del testo. A nostro avviso la conclusione non cambia nemmeno sostenendo, come fa la Corte, che ci troviamo qui di fronte al «fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune»[28]. Il riferimento, anzi, non ci sembra calzante. Nella sentenza della Corte costituzionale richiamata (la 141 del 1995) si poneva il problema della definizione del termine "morte" di cui all'art. 589 c.p. da parte di una norma extrapenale entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto; la Corte riteneva che la modifica, che identificava la morte con la cessazione delle funzioni dell'encefalo, non incidesse sul nucleo di disvalore della figura criminosa, e che quindi non si ponesse un problema di interpretazione analogica. Nel caso che qui stiamo esaminando, invece, l'art. 646 c.p. non opera alcun rinvio a fonti normative, extrapenali o extragiuridiche che siano; si è già detto, infatti, che la definizione civilistica di "cosa mobile" deve ritenersi autonoma rispetto a quella penalistica, e che quindi il significato di tale espressione è quello del linguaggio comune. Ciò che la Corte intende affermare è solo che lo sviluppo tecnologico ha portato ad esistenza beni che, pur diversi dalle cose mobili, meritano la medesima tutela. Il legislatore contemporaneo, come si diceva supra (par. 2) ha delineato un "sistema" a tutela dei beni informatici: da un lato, ha configurato una norma che protegge l'inviolabilità del domicilio virtuale (615 ter), dall'altro ha sanzionato il danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici (635 bis) alla quale potrebbe far seguito il danneggiamento dell'intero sistema (635 quater). Ha lasciato invece sfornito di tutela il segmento di condotta corrispondente alla sottrazione del file: qualora, cioè, un bene sicuramente immateriale (il dato, che in sé altro non è che un'informazione) sia incorporato su un supporto che, pur possedendo alcuni dei caratteri delle cose fisiche, tuttavia non è suscettibile di materiale apprensione (il file), e sia questo secondo a venire sottratto, non si configura alcuna ipotesi di reato. Solo qualora il file copiato venga contestualmente cancellato, ovvero qualora la copiatura abbia danneggiato il sistema, oppure, ancora, qualora l'accesso al dato sia avvenuto abusivamente, sarà prospettabile una qualche forma di responsabilità penale. Tentando un paragone con il mondo fisico, si può osservare che la situazione è analoga a quella in cui un'idea, un progetto, un'informazione sono incorporate in un supporto fisico (un quaderno, un documento, un cd, una chiave USB): colui che si appropriasse del supporto realizzerebbe senz'altro un fatto di appropriazione indebita. È vero che la sottrazione di un file sul quale sono stati salvati dei dati ha lo stesso significato criminologico dell'appropriazione di un quaderno sul quale sono annotati dei pensieri, e infatti la Cassazione giustifica il «salto»[29] interpretativo sulla base dell'identità di ratio; senonché colmare le lacune, anche quelle sopravvenute, è operazione che spetta al legislatore, non al giudice[30].
12. Un secondo punto critico attiene alla ritenuta configurabilità dell’appropriazione indebita sotto il profilo della condotta materiale. L'appropriazione indebita si realizza attraverso la perdita della cosa da parte dell'avente diritto e la simultanea creazione di una signoria di fatto dell'agente sulla stessa[31]. Nel caso in esame, invece, l'imputato avrebbe, in un primo momento, copiato i dati contenuti in un file presente sul computer aziendale in un diverso file, questa volta sul proprio pc; avrebbe poi proceduto alla cancellazione del file originario, rendendone quindi i contenuti non più usufruibili per i legittimi possessori. Non solo, quindi, espropriazione e appropriazione indebita sono avvenuti in due momenti successivi, ma il file originario, quello sul quale erano inizialmente immagazzinati i dati, non è stato sottratto, bensì cancellato. La condotta, in realtà, ci sembra più simile a quella descritta dall'art. 635 bis c.p. (che sanziona chi cancella dati), che a quella di cui all'art. 646. Di appropriazione indebita si sarebbe al massimo potuto parlare – una volta superata la, a nostro avviso, insuperabile questione della natura di "cosa mobile" del file – in caso di trasferimento del file dal pc aziendale a quello personale dell'imputato (per intenderci, utilizzando l'opzione "move"); nel caso in esame, invece, la condotta, per come concretamente posta in essere, presenta significative differenze rispetto a quella tipica richiesta ai fini dell'integrazione del reato.
[1] Per un commento cfr. N. Pisani, La nozione di "cosa mobile" agli effetti penali e i files informatici: il significato letterale come argine all'applicazione analogica delle norme penali, in Dir. pen. proc., fasc. 5/2020, p. 651 ss.
[2] F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, CEDAM, 2018, p. 147.
[3] Per i rapporti tra accesso abusivo e appropriazione indebita v. G.L. Gatta, Delitti contro l'inviolabilità del domicilio, in Trattato teorico/pratico di diritto penale, a cura di F. Viganò e C. Piergallini, Giappichelli, Torino, 2011, p. 302-303.
[4] § 1.3 della sentenza.
[5] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo secondo, I delitti contro il patrimonio (VI ed.), Zanichelli, 2014, p. 64.
[6] A. Pagliaro, voce Appropriazione indebita in Dig. disc. pen., I, Torino, 1987, p. 229.
[7] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale. Vol. II, Tomo secondo. I delitti contro il patrimonio (VI ed.), Zanichelli, 2014, p. 65 e A. Lanzi, voce Furto in Enc. giur. Treccani, vol. XVI, Roma 1989, p. 1 ss.
[8] Di questo secondo aspetto si è recentemente occupata Cass. Pen., Sez. II, sent. 25.11.2020 (dep. 30.12.2020), n. 37818, Pres. Imperiali, est. Messini D'Agostini, ric. Antinori e Carabetta, con nota di E. Pezzi, Caso Antinori: la Cassazione applica la teoria della “mobilizzazione” ed estende il concetto di “cosa mobile” ex art. 628 c.p. agli ovociti, in questa Rivista, 22 febbraio 21, che ha affrontato il caso, fortunatamente unico nel nostro panorama giurisprudenziale, di un prelievo di ovuli da una persona anestetizzata e contro la sua volontà.
[9] È interessante ricordare che ampio dibattito ha suscitato anche la fattispecie di getto pericoloso di cose (674 c.p.), alle quali la giurisprudenza ha assimilato le onde elettromagnetiche.
[10] Cass. pen., sez. II, n. 33839 del 12.07.11, Simone, Rv. 251179, richiamata dalla sentenza.
[11] Cass. pen., sez. V, n. 47105 del 30.09.14, Capuzzimati, Rv. 261917, richiamata dalla sentenza.
[12] Cass. pen., sez. II, n. 20647 del 11.05.10, Corniani, Rv. 247270, richiamata.
[13] Cass. pen., sez. II, n. 21596, 18.02.16, Tronchetti Provera, Rv. 267162, richiamata.
[14] Cass. pen., sez. V, 32383 del 19.02.15, Castagna, Rv. 264349, richiamata.
[15] § 1.5.2 e 1.5.3.
[16] «In conclusione, pur se difetta il requisito della apprensione materialmente percepibile del file [..] di certo il file rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l'estensione e [al]la capacità di contenere dati, suscettibile di essere trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l'intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall'uomo»: è il periodo conclusivo del § 1.7.
[17] § 1.8.3.
[18] § 1.8.2.
[19] C. cost. n. 141 del 1995, richiamata dalla sentenza.
[20] § 1.9.
[21] § 1.2.2.
[22] § 1.8.5.
[23] È interessante notare come il "furto di informazioni" possa avvenire anche al di fuori dell'ambito informatico, ogniqualvolta alla fotocopiatura o alla riproduzione fotografica di un documento non abbia fatto seguito la distruzione dell'originale. È quanto si è verificato nel notissimo caso Vatileaks, conclusosi con una sentenza di condanna per furto emessa dal Tribunale dello Stato della Città del Vaticano (che applica il codice Zanardelli) a carico dell'Aiutante di Camera di Papa Benedetto XVI, il quale aveva fotocopiato numerosi documenti riservati della Chiesa per poi cederli a un giornalista, portando così alla luce uno scandalo di corruzione, irregolarità nella gestione finanziaria, intrighi e lotte di potere. La sentenza è stata annotata da G.L. Gatta, Note a margine della sentenza vaticana sul caso "Vatileaks" (in tema di furto d'informazioni attraverso la fotocopiatura di documenti), in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2/2013, p. 1027 ss.
[24] O. Di Giovine, «Salti mentali» (analogia e interpretazione nel diritto penale), in Questione Giustizia, 4/2018, p. 55 ss.; chiarissime le riflessioni di F. Palazzo, Testo, contesto e sistema nell'interpretazione penalistica, in AA.VV. Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, p. 515-517, che spiega come «complessità sociale e autonomia individuale [abbiano] messo impietosamente in crisi ed ineluttabilmente condizionato i processi conoscitivi».
[25] D. Pulitanò, Crisi della legalità e confronto con la giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 1/2015, p. 29 ss.
[26] F. Palazzo, Legalità penale, interpretazione ed etica del giudice, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 3/2020 p. 1249 ss.
[27] G. Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p. 170.
[28] § 1.9.
[29] O. Di Giovine, «Salti mentali» (analogia e interpretazione nel diritto penale), in Questione Giustizia, 4/2018, p. 55 ss.
[30] G. Marinucci – E. Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 2001, p. 168. Sulla tentazione del giudice di colmare le lacune di una disciplina concepita per tutelare un patrimonio di «cose» cfr. E. Mazzantini, La tutela del patrimonio alla prova della smaterializzazione dei rapporti socio-economici. La centralità dei delitti di frode nel sistema penale "vivente", in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 1/2020, p. 75 ss.; S. Moccia, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova, 1988, p. 77 ss. Per una strenua difesa del divieto di analogia si può vedere il bell'articolo di G. Marinucci, L'analogia e la punibilità svincolata dalla conformità alla fattispecie penale, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 4/2007, p. 1254 ss.
[31] In questo senso N. Pisani, La nozione di "cosa mobile" agli effetti penali e i files informatici: il significato letterale come argine all'applicazione analogica delle norme penali, in Dir. pen. proc., fasc.. 5/2020, p. 654, che parla di «due momenti avvinti in un'unità funzionale e logico-temporale».