ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Editoriale  
18 Gennaio 2023


Riforma Cartabia e procedibilità a querela: due proposte per la soluzione di vecchi problemi, senza allarmismi e stravolgimenti

A proposito dell’incompatibilità dell’aggravante del metodo mafioso con i reati procedibili a querela, e dell’impossibilità di eseguire l’arresto in flagranza per quei reati in assenza della persona offesa



*Contributo destinato alla pubblicazione sulò fascicolo 1/2023.

 

1. La prima prassi applicativa della riforma della giustizia penale ha posto due problemi puntuali, conseguenti all’estensione del regime di procedibilità a querela ad alcune figure di reato:

a) la procedibilità a querela di reati come le lesioni personali, il sequestro di persona e la violenza privata anche quando ricorre l’aggravante del c.d. metodo mafioso, di cui all’art. 416-bis.1 c.p.; di qui, il pericolo della mancata presentazione della querela, per le pressioni e le intimidazioni mafiose, e il rischio della conseguente scarcerazione, nel periodo transitorio, di imputati in custodia cautelare in carcere per i medesimi reati;

b) l’arresto in flagranza per il furto aggravato, risultato impossibile quando l’assenza/irreperibilità della persona offesa non consente l’immediata presentazione della querela.

Entrambi i problemi, enfatizzati con toni eccessivi anche da qualche addetto ai lavori, sulla scia di alcuni casi di cronaca, non nascono con la riforma Cartabia e hanno una dimensione empirica verosimilmente ridotta, che non giustifica allarmismi. Nondimeno, quei problemi pongono questioni applicative che meritano di essere considerate e risolte, in modo chirurgico, senza rinunciare a scelte di fondo relative ai reati resi procedibili a querela, compiute dalla riforma Cartabia in vista degli obiettivi del PNRR e, pertanto, della deflazione del carico giudiziario e della riduzione dei tempi medi del processo penale.

 

2. Il primo problema nasce dalla natura comune dell’aggravante c.d. del metodo mafioso, introdotta dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 203 e ora prevista dall’art. 416-bis.1 c.p. L’aggravante è infatti riferibile, in via di principio, a qualsiasi delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. – cioè della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva –, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso. Nella prassi, essa viene per lo più contestata in relazione ai classici gravi reati che si annidano in contesti di  criminalità organizzata o ad essa attigui: tutti reati procedibili d’ufficio (come l’estorsione e l’usura). È però possibile, come evidenziato da un caso segnalato dalla stampa nei giorni scorsi, che nella prassi possano essere aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 c.p. anche reati comuni, non di criminalità organizzata, più o meno gravi e procedibili a querela. E’ il caso della violenza sessuale realizzata attraverso l’intimidazione mafiosa, della violenza privata, delle lesioni personali, lievissime o lievi, del sequestro di persona, e della minaccia. Si tratta di reati che, di per sé, possono non essere gravi, perché puniti, in assenza di aggravanti, addirittura con la sola pena pecuniaria (minaccia ex art. 612, co. 1 c.p.) o con la pena detentiva assai bassa nel minimo (15 giorni nel caso della violenza privata; sei mesi, nel caso delle lesioni personali e del sequestro di persona semplice). E’ evidente, infatti, che i reati comuni di cui sopra possono essere commessi al di fuori dei contesti di criminalità organizzata – come, anzi, normalmente avviene – e possono essere integrati da condotte di disvalore assai ridotto, che giustificano pene con i minimi edittali più bassi tra quelli previsti dall’ordinamento e la stessa procedibilità a querela prevista dalla riforma.

 

2.1. Ci sembra, alla luce di questa considerazione, che si possa raggiungere una prima conclusione: il rilievo che quei reati possono essere aggravati dal metodo mafioso non ne rende irragionevole la perseguibilità a querela; suggerisce, piuttosto, la scelta di renderli procedibili d’ufficio quando ricorre l’aggravante stessa. Le condizioni che integrano il metodo mafioso, aggravando il reato di cui di volta in volta si tratta, possono infatti con ogni probabilità pregiudicare, verosimilmente, la libertà di presentare una querela. La forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, la condizione di assoggettamento e di omertà, è incompatibile con la logica della procedibilità a querela, che presuppone la possibilità di manifestare liberamente, senza pressioni, la volontà e l’interesse a procedere.

Detto, questo, va anche osservato – a onor del vero: di un vero che è rimasto in ombra nel dibattito pubblico -  che è molto raro che, in contesti di criminalità organizzata, vengano contestati reati procedibili a querela con l’aggravante del metodo mafioso che non siano in concorso con più gravi reati procedibili d’ufficio, a partire da quello di associazione mafiosa, ovvero dall’estorsione; di qui, forse, la ragione per la quale nessuno prima di oggi si era posto il problema di possibili scarcerazioni o mancati arresti dipendenti da una querela non presentata (anche nel caso mediatico dei giorni scorsi, infatti, non vi è stata proprio per tale ragione alcuna scarcerazione). Si tratta, ad ogni modo, di un problema che preesiste alla riforma Cartabia e che, a ben vedere, la riforma stessa, in sede di decreto attuativo, non avrebbe potuto risolvere se non incorrendo in un eccesso di delega: il Governo era infatti delegato a estendere il regime di procedibilità a querela a reati contro la persona e il patrimonio puniti con pena detentiva non superiore, nel minimo, a due anni di reclusione, facendo salve le sole ipotesi in cui il fatto sia commesso contro persone incapaci, per età o per infermità; non anche contro persone intimidite con metodo mafioso (art. 1, comma 15, lett. b) l. n. 134/2021).

 

2.2. Il codice penale già prevede, d’altra parte, ipotesi in cui la commissione di reati con violenza o minaccia, da più persone riunite (artt. 339 e 585 c.p.), con armi (art. 585 c.p.) o “valendosi della forza intimidatrice derivanti da segrete associazioni” (art. 339 c.p.) comporta la procedibilità d’ufficio di reati procedibili a querela. È ad es. il caso delle lesioni personali aggravate ex art. 585 c.p. (cfr., anche dopo la riforma Cartabia, l’art. 582, co. 2 c.p.), della violenza privata e della minaccia aggravate ex art. 339 c.p. (cfr. artt. 610, co. 3 e 612, co. 3 c.p.). In queste ipotesi aggravate, la procedibilità d’ufficio si giustifica, a ben vedere, in ragione della posizione di particolare soggezione della vittima e del rilievo particolare che assume l’interesse pubblico a procedere quando reati comuni sono commessi da più persone riunite, con armi o valendosi della forza intimidatrice delle associazioni criminali (ipotesi quest’ultima, si noti, già contemplata nell’art. 339 c.p. nell’originaria versione del codice Rocco).

 

2.3. Già il rilievo dell’esistenza di queste ipotesi in cui reati comuni, commessi con modalità tipiche del contesto mafioso, erano e restano procedibili d’ufficio prima e dopo la riforma Cartabia, avrebbe dovuto suggerire più equilibrio a quanti – compresi alcuni magistrati – hanno alimentato nei giorni scorsi allarmismi che hanno finito per essere strumentalizzati. Non solo: non si è considerato che la legge, anche in questo caso sia prima, sia dopo la riforma Cartabia, prevede ipotesi in cui la presenza di aggravanti ad effetto speciale – compresa, pertanto, quella del metodo mafioso – rende procedibili d’ufficio reati altrimenti procedibili a querela. E’ il caso della minaccia grave (art. 612, comma 3, c.p.), dei delitti contro l’inviolabilità del domicilio e dei segreti indicati nell’art. 623-ter c.p. e dei delitti contro il patrimonio (appropriazione indebita, truffa e frode informatica) di cui all’art. 649-bis c.p. Nemmeno si è considerato, prima di ingenerare allarmi divenuti incontrollati, che il codice antimafia, prevede che si proceda d’ufficio per alcuni reati resi procedibili a querela dalla riforma Cartabia “se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione” (cfr. l’art. 71, co. 2del d.lgs. n. 159/2011). È il caso del sequestro di persona semplice, della violenza privata, della minaccia, della turbativa violenta del possesso di cose immobili e del danneggiamento.

 

Molto rumore per nulla, allora? Nella sostanza si. E’ però un rumore talmente forte che non resterà privo di conseguenze. Il Ministero della Giustizia ha comunicato l’intenzione di intervenire con provvedimento normativo, per non dare l’impressione, nella semplificazione mediatica, di indulgere nei confronti della criminalità organizzata. L’auspicio è che, come ha dichiarato al Corriere della Sera il Vice Ministro Sisto, si tratti di un intervento chirurgico, limitato a risolvere il problema dell’aggravante mafiosa: un problema che, tecnicamente, sembra agevolmente risolvibile prevedendo che si proceda sempre d’ufficio quando ricorre l’aggravante di cui all’articolo 416-bis.1 c.p.

Sarebbe preferibile stabilire una simile regola in termini generali, inserendola nell’art. 416-bis. 1 c.p. con un nuovo comma. Un intervento relativo a singole figure di reato, o a categorie (es., delitti contro la persona o contro il patrimonio) creerebbe il rischio di non considerare qualche possibile reato – previsto dal codice penale o dalle innumerevoli leggi complementari – che al primo caso di cronaca potrebbe suscitare un clamore mediatico analogo a quello di questi giorni.

Sarebbe infine auspicabile che la soluzione del problema fosse circoscritta all’aggravante mafiosa e non interessasse altre aggravanti ad effetto speciale, sorrette da una ratio diversa e non necessariamente incompatibile con la procedibilità a querela. Se, come in una proposta circolata in ambito governativo e finita sulle pagine di un quotidiano, anziché intervenire sull’aggravante in questione si toccassero gli artt. 623-ter e 649-bis c.p., ampliando il novero dei delitti contro la persona e contro il patrimonio che diventano procedibili d’ufficio in presenza di qualsiasi aggravante ad effetto speciale, si ridurrebbe in modo irragionevole l’area della procedibilità a querela, con un intervento esattamente contrario a quello realizzato dalla riforma Cartabia per esigenze di deflazione del sistema, in linea con gli obiettivi concordati nel PNRR. Sarebbe un intervento contrario alla linea seguita dalla riforma Cartabia che, modificando gli artt. 623-ter e 649-bis c.p., ha all’opposto ridotto la generalizzata incidenza delle aggravanti ad effetto speciale sul regime di procedibilità di alcuni reati contro la persona e contro il patrimonio, escludendo che la recidiva determini la procedibilità d’ufficio di un delitto contro la persona o contro il patrimonio altrimenti procedibile a querela, tra quelli oggi elencati nelle due citate disposizioni. Una questione di legittimità costituzionale sollevata per contrasto con l’art. 3 Cost. dal Tribunale di Firenze prima della riforma, proprio con riferimento all’incidenza della recidiva ai fini della procedibilità d’ufficio della truffa (art. 649-bis c.p., nella versione antecedente al d.lgs. n. 150/2022) – questione in linea di principio prospettabile anche in rapporto ad altri reati, con tutta evidenza – sarà decisa nei prossimi giorni dalla Corte costituzionale.  

  

3. Veniamo ora al secondo problema, relativo all’arresto in flagranza. Il problema è stato sollevato in relazione al furto a seguito dell’estensione del regime di procedibilità a querela alla generalità dei furti aggravati ex art. 625 c.p., ad eccezione di quelli soli che interessano beni di rilievo pubblico (art. 625, nn. 7 e 7-bis c.p.). Per il furto, come è noto, è ammesso l’arresto in flagranza: quello facoltativo, per il furto non aggravato (art. 381, co. 2, lett. g) c.p.p.) – già procedibile a querela prima della riforma Cartabia –; quello obbligatorio, per alcune ipotesi di furto aggravato ex art. 625 c.p. (sempre che non ricorra l’attenuante della particolare tenuità del danno): il furto commesso con violenza sulle cose (ad es., forzando la serratura di un auto), ovvero con armi o narcotici, ovvero, ancora,  da tre o più persone o da persona travisata, che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.  

L’estensione della procedibilità a querela ha pertanto interessato anche reati per i quali è ammesso l’arresto in flagranza. E’ vero per l’arresto obbligatorio, in rapporto alle predette ipotesi di furto aggravato, ed è vero, per l’arresto facoltativo, in relazione ad altri reati interessati dall’ampliamento del regime di procedibilità a querela, diversi dal furto: le lesioni personali dolose lievi, il sequestro di persona, la violenza privata, la violazione di domicilio, la truffa e l’appropriazione indebita.

 

3.1. Chiariamo subito che non deve stupire in alcun modo che tra i reati per i quali è previsto l’arresto in flagranza, obbligatorio o facoltativo, figurino anche reati procedibili a querela. E’ così da sempre: già nel codice di procedura penale del 1930 si prevedeva (artt. 235, co. 3 e 236, co. 2) espressamente questa ipotesi e la si disciplinava in modo del tutto analogo a quanto prevede il codice del 1989 (artt. 380, co. 3 e 381, co. 3): in caso di reato procedibile a querela, l’arresto può essere in flagranza può essere eseguito “se la querela viene proposta, anche con dichiarazione resa oralmente all’ufficiale o all’agente di polizia giudiziaria presente nel luogo”.

Da quasi un secolo prima della riforma Cartabia – e già ai tempi del Governo di Mussolini e Rocco – si pone, pertanto, un problema di ordine pratico per procedere all’arresto, obbligatorio o facoltativo, quando si tratta di reati procedibili a querela: la persona offesa, titolare del diritto di querela, deve presentare la querela, pur in forma semplificata (orale), alla polizia “presente nel luogo”. Ciò a ben vedere significa che, sul luogo del reato - ovvero su quello in cui viene fermato il sospetto autore subito dopo il reato (a seguito di inseguimento o perché sorpreso con cose o tracce indizianti la commissione del reato immediatamente prima: cfr. art. 382 c.p.p.)  - deve essere presente non solo l’autore, ma anche la vittima. Di qui il problema che nasce dall’eventualità in cui la vittima sia assente da quel luogo e non sia immediatamente raggiungibile:  in questo caso non è possibile eseguire l’arresto senza la querela, anche solo orale, con conseguente rilascio delle persone fermate. Un problema, ribadiamo, che non nasce con la riforma Cartabia, ma che sussiste almeno dal 1930.

La presenza della vittima sul luogo in cui deve essere eseguito l’arresto in flagranza può non essere problematica per alcuni reati procedibili a querela; ad esempio, per la violenza sessuale, le lesioni personali dolose, il sequestro di persona, nonché, in via di principio, per tutti i reati in cui, di norma, la persona offesa, sul cui corpo ricade immediatamente la condotta delittuosa, è presente sulla scena del reato. Con ogni probabilità è proprio a queste situazioni che pensava il legislatore del 1930, quando ha concepito la disposizione poi replicata nel nuovo codice di rito.

Viceversa, rispetto a non pochi reati procedibili a querela – ben prima della riforma Cartabia – può capitare in un rilevante numero di casi che la vittima non sia presente e comunque rintracciabile e che, pertanto, non sia in grado di presentare la querela alla polizia presente sul luogo. Si pensi, prima della riforma Cartabia, alla violazione di domicilio, al furto non aggravato (art. 624 c.p.) e all’appropriazione indebita. A seguito della riforma Cartabia, si pensi al furto aggravato, ad esempio di un’auto esposta alla pubblica fede, come in alcuni casi di cronaca segnalati con toni allarmistici dalla stampa nei giorni scorsi. E’ fin troppo evidente che per lo più, quando il ladro viene sorpreso a rubare un auto – furto aggravato dalla violenza sulle cose o dall’esposizione alla pubblica fede della res –,   il proprietario dell’auto non è presente sul luogo e può non essere raggiungibile (ad esempio, perché è in vacanza all’estero). In altri casi, inoltre, può essere difficile, se non impossibile, identificare sul momento il proprietario dei beni rubati.

In questi casi, la mancata presentazione della querela impedisce da sempre l’arresto e può frustrare le esigenze cautelari. Il rischio concreto è in particolare quello della fuga, soprattutto quando si tratti di persone non identificate o di dubbia identificazione, come nel caso degli stranieri illegalmente presenti sul territorio dello Stato. È del tutto comprensibile lo sgomento dell’opinione pubblica, così come la frustrazione delle forze dell’ordine. Non è stato però sottolineato – neanche dagli addetti ai lavori – come ciò dipenda da una disciplina dell’arresto che risale al 1930: non dalla riforma Cartabia; il Governo Draghi, d’altra parte, non aveva ricevuto alcuna delega, dal Parlamento, per riformare la disciplina dell’arresto.

 

3.2. Arriviamo così a una prima conclusione: ci si è accorti, in questi giorni, di quanto possa essere problematico esigere, per l’arresto in flagranza, la presenza della persona offesa sul luogo del reato. E’ un problema che ha più di novant’anni e che ora, semplicemente, si pone con maggiore impellenza perché è stato reso procedibile a querela il furto aggravato (i furti, come ben sanno magistrati e avvocati, lo sono di fatto quasi sempre): un reato che si accerta con una significativa frequenza. Se è così, allora, non si tratta, a ben vedere, di correggere la riforma Cartabia – ma, come già nel caso dell’aggravante mafiosa, di risolvere, con l’occasione della riforma Cartabia, un vecchio problema; un problema posto da una norma del 1930 che non è stata modificata nemmeno con la riforma del codice di procedura penale del 1989.

 

3.3. Anche in questo caso, a nostro avviso, il problema può essere risolto con un intervento chirurgico. E’ auspicabile che il Governo e il Parlamento trovino una soluzione che consenta di salvaguardare le esigenze cautelari e di prevenzione connesse all’arresto per reati procedibili a querela senza sacrificare il relativo regime di procedibilità, che risponde ad apprezzabili rationes, comprese quelle di deflazione del carico giudiziario – anche attraverso condotte riparatorie collegate a meccanismi estintivi (remissione della querela e causa estintiva di cui all’art. 162-ter c.p.) – valorizzate dalla riforma Cartabia per raggiungere gli obiettivi del PNRR.

In quanto condizione di procedibilità, come è noto, la querela deve intervenire entro un certo tempo: ordinariamente entro tre mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato. Ai fini dell’arresto, tuttavia, la querela deve oggi essere presentata immediatamente, nella flagranza del reato. Nel bilanciamento tra esigenze cautelari e libertà personale, il legislatore fa senz’altro prevalere quest’ultima: l’arresto non ha luogo se, ab initio, manca la querela. Non si arresta cioè una persona – non la si priva della libertà personale – se non è integrata la condizione di procedibilità: se non si ha la certezza che si potrà procedere.

Occorre domandarsi se questa soluzione, che conosciamo da sempre, sia ragionevole e costituzionalmente imposta dall’art. 13.

 

3.4. Il caso del furto rappresenta un banco di prova significativo per mettere in forte dubbio la ragionevolezza della disciplina: urta contro il comune senso di giustizia che, essendo previsto l’arresto in flagranza per il furto (in alcuni casi obbligatorio), esso non possa essere eseguito se il derubato è assente e irraggiungibile. Lasciare libero il ladro colto con le mani del sacco sembra irragionevole perché possono risultare sacrificate le esigenze cautelari, a partire dal pericolo di fuga. In un bilanciamento con la libertà personale, la legge fa prevalere senz’altro questo diritto individuale. Il legislatore si è preoccupato, nell’art. 346 c.p.p., di consentire che gli atti d’indagine necessari ad assicurare le fonti di prova possano essere compiuti “in mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire”, così come che, quando vi è pericolo nel ritardo, possa procedersi con incidente probatorio. Tuttavia, tra gli atti urgenti che possono essere commessi in assenza della querela non vi è l’arresto in flagranza e, pertanto, non trovano piena tutela le esigenze cautelari cui esso è preordinato: anche quelle relative alla prova (che l’indagato potrebbe inquinare), pur rilevanti nella disciplina dell’art. 346 c.p.p.

Non è peraltro sempre così: a proposito di una diversa condizione di procedibilità – l’autorizzazione a procedere – l’art. 343, co. 3 c.p.p. prevede che il fermo e le misure cautelari personali siano consentiti, prima dell’autorizzazione stessa, quando la persona è colta nella flagranza di un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, ai sensi dell’art. 380, co. 1 e 2 c.p.p. Un’ipotesi in cui l’arresto in flagranza è consentito in assenza di una condizione di procedibilità che può sopravvenire, pertanto, esiste nell’ordinamento.

L’art. 85, co.2 del d.lgs. n. 150/2022, come modificato in sede di conversione del d.l. n. 162/2022, prevede d’altra parte, nell’ambito della disciplina transitoria della riforma Cartabia – introdotta su proposta del Ministro Nordio in risposta al timore di scarcerazioni – che le misure cautelari in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della riforma, per reati che erano procedibili d’ufficio e che sono stati resi procedibili a querela, perdono efficacia se, entro venti giorni, non viene presentata la querela. Ciò significa che, nel pur breve regime transitorio, la custodia cautelare in carcere è ammessa anche in mancanza di una querela, che può sopravvenire.

 

3.5. L’esistenza nell’ordinamento di ipotesi in cui, per preservare le esigenze cautelari, sono ammessi l’arresto in flagranza o la custodia cautelare pur in assenza di condizioni di procedibilità, che possono sopravvenire, impone di considerare il tema, centrale, della legittimità costituzionale della soluzione, in rapporto all’art. 13, co. 2 Cost. Come è noto, tale disposizione consente all’autorità di pubblica sicurezza di adottare provvedimenti provvisori in casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, imponendo di comunicarli entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria, che deve convalidarli nelle successive quarantotto ore (v. anche l’art. 390 c.p.p). La disposizione costituzionale non fa alcun riferimento alla necessaria esistenza di condizioni di procedibilità, al momento dell’arresto, ai fini della convalida; né richiede l’esistenza di tali condizioni ai fini dell’adozione di misure cautelari da parte del giudice. A tal proposito, il primo comma dell’art. 13 Cost. rinvia, per la legittimazione della restrizione della libertà personale da parte dell’autorità giudiziaria, ai casi e modi stabilita dalla legge ordinaria. Di qui una conclusione: se non vediamo male, l’esistenza di una condizione di procedibilità, necessaria ma ancora da accertare, non è costituzionalmente imposta al momento dell’adozione del provvedimento limitativo della libertà personale. E’ la legge ordinaria a richiedere, allo stato, che la querela sia presentata al momento dell’arresto, ai fini della legittimità dell’arresto in flagranza, e che sia stata già presentata nel momento in cui il giudice, dopo la convalida, decide sulla eventuale richiesta di applicazione di una misura cautelare personale. In tal senso depone l’art. 273, co. 2 c.p.p., che esclude l’applicabilità delle misure cautelari se risulta che il fatto è stato commesso in presenza di una “causa di non punibilità”: il che ricorrerebbe, secondo la giurisprudenza, anche quando manca una condizione di procedibilità (cfr., ad es., Cass. Sez. VI, 25.2.2016, n. 8618).

L’attuale disciplina prevista dalla legge ordinaria, nel richiedere pur in assenza della persona offesa la querela ab initio, al fine dell’applicazione di misure precautelari e cautelari, sembra realizzare un non ragionevole bilanciamento tra gli interessi in gioco, a detrimento delle esigenze cautelari e di prevenzione generale, rispetto a reati che, nella valutazione legislativa (discrezionale e sindacabile nei limiti della ragionevolezza), legittimano l’adozione di misure privative urgenti a carattere provvisorio. La stessa Costituzione, a ben vedere, riconosce un lasso temporale massimo (quarantotto ore più quarantotto ore, cioè quattro giorni) tra l’adozione del provvedimento urgente di limitazione della libertà personale e la convalida del giudice, che accerti l’esistenza dei presupposti per la sua adozione. Pretendere che i presupposti siano tutti integrati al momento dell’adozione dell’atto urgente – e, in particolare, che nei reati procedibili a querela questa debba essere necessariamente presentata nel luogo in cui si esegue l’arresto o, magari solo poche ore dopo, nel momento in cui il giudice applica una misura cautelare, senza considerare che la persona offesa può essere assente e non immediatamente reperibile – finisce per non considerare adeguatamente la natura necessaria e urgente del provvedimento, frustrando le esigenze cautelari cui esso è preordinato.  

 

3.6. A noi pare, in conclusione, che sarebbe del tutto ragionevole, in caso di flagranza di reato procedibile a querela, una soluzione normativa che riconosca alla persona offesa assente un margine di tempo per essere informata e (decidere se) presentare la querela. La soluzione forse più prudente potrebbe essere quella di individuare un termine di novantasei ore  (pari a quello complessivo di cui all’art. 13, co. 2 Cost.), decorrente dal momento dell’arresto in flagranza o, in assenza di previo arresto, da quello dell’applicazione di una misura cautelare. La querela, in altri termini, non sarebbe più richiesta ai fini dell’adozione della misura precautelare o cautelare; la condizione di procedibilità, dovrebbe tuttavia intervenire entro quattro giorni; diversamente, la misura cesserebbe di avere effetto e dovrebbe essere revocata. Escludere la necessità della querela nel momento dell’applicazione della misura cautelare renderebbe meno problematico, sul piano del sistema, non richiedere la querela ai fini dell’arresto. Noi stessi avevamo proposto in altra sede di prevedere, infatti, un termine per la presentazione della querela più breve, ad esempio, di quarantotto ore; di stabilire che la querela non è necessaria per l’arresto ma, dopo la convalida, per le misure cautelari. Re melius perpensa, tuttavia, ciò potrebbe non risolvere il problema: nella prassi, infatti, in molti casi gli arresti vengono convalidati a distanza di poche ore (ad es., la mattina dopo, per un arresto compiuto la sera prima); ciò ci induce a ritenere che richiedere la querela non ai fini dell’arresto, ma della sola misura cautelare successiva alla convalida, possa non rappresentare una soluzione soddisfacente. Se la convalida avviene a brevissima distanza dall’arresto, resta impossibile per la persona offesa presentare una querela.

Sarebbe peraltro ragionevole diversificare la disciplina a seconda che la persona offesa sia presente o assente al momento dell’arresto in flagranza, prevedendo, se presente, la necessità di presentare sul luogo la querela in forma semplificata; se assente, invece, la possibilità di presentare la querela entro novantasei ore, anche in forma semplificata.

 

4. Prima di concludere, è il caso di segnalare un ulteriore problema, posto da un difetto di coordinamento normativo meritevole di correzione. Ci riferiamo al fatto che mentre è stato reso procedibile a querela il furto di cosa esposta alla pubblica fede, è rimasto procedibile d'ufficio il meno grave delitto di danneggiamento di cose mobili esposte alla pubblica fede (v. art. 635, co. 2, n. 1 c.p.).

Ciò sembra irragionevole, in considerazione della identità dell’oggetto materiale della condotta e della maggiore gravità del delitto punibile a querela (il furto), rispetto a quello che resta procedibile d’ufficio (il danneggiamento): la querela è necessaria per il furto dell’auto; mentre si procede d’ufficio per il mero danneggiamento della carrozzeria, conseguente a un atto vandalico.

Le due situazioni devono ragionevolmente trovare identica disciplina, con l’estensione della procedibilità a querela all’anzidetta ipotesi di danneggiamento. Sarebbe una scelta coerente con quella adottata in tema di furto, attesa non solo l’identità dell’aggravante (esposizione alla pubblica fede), ma anche dell’oggetto materiale della condotta: una cosa mobile di rilievo privatistico (e non un immobile, o una cosa mobile di interesse pubblico – storico o artistico – come negli altri casi indicati nell’art. 635, co. 2, n. 1 c.p. Una scelta diversa e opposta, come quella che, per risolvere il difetto di coordinamento normativo, tornasse a prevedere la procedibilità d’ufficio per il furto di cosa esposta alla pubblica fede, avrebbe un significativo impatto negativo in termini deflattivi, rilevante rispetto agli obiettivi del PNRR (non si dimentichi che, nell’ormai celebre caso deciso dalla Cassazione, il furto di una melanzana da un campo era aggravato dall’esposizione alla pubblica fede!) e sarebbe comunque inefficace rispetto a tutti i fatti pregressi, ponendo complessi problemi di diritto intertemporale anche in rapporto alla disciplina transitoria inserita nell’art. 85 d.lgs. n. 150/2022. In realtà, come risulta chiaramente dalla Relazione illustrativa del d.lgs. n. 150/2022 ( cfr. p. 327), la scelta di rendere procedibile a querela il danneggiamento nelle sole ipotesi previste dal primo comma dell’art. 635 c.p., risiede nel fatto che negli altri commi della disposizione vengono in rilievo “beni pubblici o, comunque, di interesse o utilità pubblica”. Ciò però non è necessariamente vero nell’ipotesi delle cose esposte alla pubblica fede. Ove non dovesse intervenire il legislatore, per correggere un evidente quanto involontario difetto di coordinamento normativo, sarebbe prospettabile una questione di legittimità costituzionale.